Visione fissista ed evoluzionistadel mondo

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La visione statico-fissista del mondo parte da un modo di pensare ”spontaneo”, irriflessivo, vale a dire pacificamente accettato. Essa ha dominato la cultura religiosa e non, per numerosissimi secoli. Secondo questa visione delle cose tutta la perfezione della realtà è data fin dal suo inizio. L’opera creativa è insomma considerata già compiuta e perfetta con tutte le specie viventi esistenti o estinte. L’uomo sopraggiunge quando l’opera creativa è al vertice, come un re che viene a prendere possesso di un regno già perfettamente costituito, che attendeva solo un sovrano che ne godesse. Secondo questa prospettiva, l’uomo è arricchito da molti doni preternaturali (le varie immunità tra le quali l’immortalità) e soprannaturali (grazia, virtù, ecc.), che costituisce lo “stato di giustizia originale”. Questa situazione ideale è detta: “Stato paradisiaco”, un paradiso terrestre originario che, fuori dell’ambiente biblico, è possibile rintracciare nel mito pagano dell’età dell’oro, che ipotizza una perfezione totale fin dalle primi origini storiche dell’umanità. Secondo le credenze degli antichi Greci, i primi uomini vissero nell’età dell’oro, sempre felici e senza preoccupazioni. Alla fine questa era di felicità finì e dopo varie età, gli uomini giunsero a quella del ferro, piena di fatiche e di cattiverie, di lotte e conseguenti sofferenze. E’ chiaro che in questa visione, la storia non è tanto lo sviluppo verso una perfezione finale, ma è una durata che determina un allontanamento, un logoramento della perfezione originaria, come nella Genesi è attestato il peccato umano fondamentale e la perdita del paradiso terrestre. Così l’uomo decaduto non guarda tanto al futuro come meta di piena realizzazione di sé, ma piuttosto è dominato dalla nostalgia del paradiso perduto; il suo desiderio di perfezione è rivolto al passato.

 

OGGI ci troviamo dinanzi a diverse radici culturali che hanno determinato il rinnovamento della concezione del mondo: da un lato le teorie del progresso che tendono a spostare in avanti la meta della storia, dall’altro le teorie evoluzionistiche biologiche che vanno progressivamente sgretolando il presupposto che la vita sia stata biologicamente perfetta già agli inizi.

Quest’ultime sostengono la derivazione delle forme biologicamente più perfette dalle più semplici e meno perfezionate. La caratteristica principale di questo modo di vedere il mondo e lo sviluppo della vita biologica sta nell’abbandono dello schema discendente (perfezione all’origine, decadenza, ritorno alle origini) e nell’adozione dello schema ascendente (origine dal basso, ascesa verso la perfezione del mondo posta alla fine). A questi fattori culturali vanno aggiunti gli sviluppi delle conoscenze del pensiero biblico, soprattutto di alcune categorie fondamentali, come quella della PROMESSA: ”Io porrò inimicizia tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Genesi 3,15). La religione dei nomadi Israeliti è la religiosità in un “Dio Pastore” che guida il suo popolo verso un futuro migliore. Il nomade non vive nel ciclo della semina e del raccolto, ma nel mondo della migrazione. Il Dio trasmigrante dei nomadi non è vincolato a nessuna località o territorio. Egli viaggia con il suo popolo essendo anche Lui in cammino come una buona guida. La religiosità, come risposta a questo Dio che conduce, è quindi gravida di un futuro che sgorga dalla fede nel “Dio Pastore”. Pensiamo alle promesse divine di una gran discendenza, di una terra nuova nella quale stabilirsi, o la promessa di un “nuovo” re Davide che porterà la pace di Dio nella concordia tra i popoli. Alla luce di questo tema, il racconto biblico della creazione, per quanto possa apparire dominato dalla concezione statico-fissista, può essere visto anche in una chiave interpretativa diversa, vale a dire secondo lo schema ascendente, con lo sguardo rivolto in avanti. Nel Nuovo Testamento vi è scritto infatti che “Il Dio invisibile si è fatto visibile in Cristo, nato dal Padre prima della creazione del mondo. ……tutto fu creato per mezzo di Lui e in vista di Lui. Cristo è prima di tutte le cose e tiene insieme l’universo” (Colossesi 1,15.16b-17). In queste righe della lettera alla comunità di Colossi, è proposto alla riflessione dei credenti l'interpretazione che il cosmo è stato creato proprio nella prospettiva (in vista) della venuta di Gesù. E’ comprensibile che la teologia antica non sia riuscita a trarre tutte le importanti conseguenze, per impostare una riflessione dinamica rispetto ai fondamentali dati neotestamentari. Questa infatti avrebbe necessariamente presupposto un altro quadro culturale, che avrebbe consentito una riorganizzazione complessiva e profonda delle categorie in uso nella metafisica antica. La conseguenza immediata fu che la stessa immagine di Dio venne ad assumere, contro le intenzioni del Concilio di Nicea e di quello di Costantinopoli, i tratti tipicamente greci di una divinità immutabile e che non può certamente “soffrire” perché avrebbe significato ammettere in Dio una mancanza. Come dice il teologo Walter Kasper, è molto importante “...sottoporre questo modo di raffigurare e concepire Dio e la sua immutabilità ad una fondamentale reinterpretazione cristologica, per far emergere nuovamente la concezione biblica del Dio della storia”[1] Quindi è opportuno rifarsi in maniera sempre meglio approfondita a quel messaggio della Sacra Scrittura che gli stessi Concili, nella situazione storicamente influenzata del loro tempo, si sono impegnati a custodire rispetto ad alcune interpretazioni riduttive.[2] Indubbiamente la “Teologia della croce” di Martin Lutero rappresenta una rottura radicale con tutto un teologare impostato su forti basi metafisiche. Anche se egli rimane influenzato dal nominalismo filosofico, il Riformatore evangelico non parte da un concetto di Dio di stampo filosofico per poi affrontare e capire la croce[3]. La dottrina ufficiale della Chiesa Cattolica ha parlato spesso dell’incomprensibilità di Dio. Il termine “incomprenhensibilis” compare già nella Chiesa antica in Leone Magno(D.S. 294) e in Martino I° (D.S. 501); il Concilio XI° di Toledo afferma che Dio è ineffabile nella sua essenza ( D.S.525); così pure il Concilio Lateranense IV° (D.S. 800; 804); e il Concilio Vat. I° (D.S.30001). L’amore, in fondo, è l’accettazione dell’incomprensibilità: là dove un uomo incontra in maniera personale l’altro, accetta qualcosa che non si afferra fino in fondo, qualcosa nella persona dell’amato che non è sottoponibile ad alcuna presa di dominio. L’amore autentico è un affidarsi fiducioso senza una contro-assicurazione.Bibbia Come è anche attestato nella Bibbia, l’amore interumano e soprattutto l’esperienza di esso, possono consentire di farci un’idea di tipo analogico del rapporto di Dio con noi. Acconsentendo quindi ad impostare i problemi riguardanti la creazione e l’incarnazione su basi concettuali nuove sotto anche la spinta delle scienze bibliche e scientifiche, (cercando altresì di prendere il meglio dalle idee del passato), non sembra preferibile la soluzione teologica Tomista rispetto a quella Scotista. Per Duns Scoto Dio si sarebbe fatto uomo anche senza il peccato originale: la disubbidienza di Adamo ed Eva e il disordine che ne è seguito, non costituiscono il motivo della incarnazione del Verbo di Dio ma, caso mai, il contesto nel quale l’incarnazione medesima si è concretamente verificata. Al centro non vi sono l’uomo e il suo peccato, ma Cristo in vista del quale l’uomo è stato creato.[4] Duns Scoto affermando la radicale gratuità dell’incarnazione rispetto al peccato umano, apre in tal modo la strada ad una concezione di natura “ascendente”. Nel pensiero di San Tommaso, vi è uno stretto legame tra l’incarnazione e il peccato dell’uomo delle origini, inseribile quindi all’interno dello schema antico di tipo “discendente”(nel rispetto della libertà di Dio che non resta in alcun modo obbligato dalla natura delle cose a inviare il suo Figlio sulla terra). Secondo il pensatore cattolico Karl Rahner, consultore al Concilio Vaticano II°, se anche l’uomo non avesse peccato il Figlio di Dio si sarebbe ugualmente incarnato. Il Padre infatti ha creato tutte le cose avendo come fine la venuta nella storia del Figlio, aldilà dello stesso peccato originale. Sempre secondo Rahner, la salvezza può essere vista e interpretata come l’incontro tra due cammini. In Gesù il movimento dall’alto” (incarnazione) e dal “basso” (evoluzione), si sono incontrati secondo la libera volontà del Padre, che ha permesso e accompagnato il processo evolutivo, nel rispetto dei suoi “meccanismi” di selezione e speciazione (cause seconde). In questo senso, si può affermare che è la materia che ha generato lo spirito libero e immortale dell’uomo (con l’aiuto di Dio), causa prima e fondamento di tutte le cose. Insomma, l’uomo raggiunge il suo culmine evolutivo nell’incarnazione, diventando così l’evoluzione dell’universo consapevole di se stessa e, nello stesso tempo, aperta a Dio. Papa Giovanni Paolo II°, in un messaggio ai membri della Pontificia Accademia delle scienze, pubblicato da  “L’osservatore Romano” del 24 Ottobre 1996, affermava che se anche Papa Pio XII° nell’enciclica “Humani Generis” considerava la dottrina dell’evoluzionismo solo un’ipotesi seria, “Oggi, circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’enciclica, nuove conoscenze conducono a non considerare

più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi”, ma una vera e propria teoria.

La Chiesa Cattolica è molto interessata alla questione antropologica dell'evoluzione in quanto l'uomo (maschio e femmina) è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,28) e in lui si riflette, seppur imperfettamente, qualcosa del suo Creatore e Salvatore.

L’uomo è “la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso” (Gaudium et Spes n.24), perciò non può divenire uno strumento della specie o della società.

 

 

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Maurizio Maugeri

 

 



[1] W.Kasper, Gesù il Cristo, cit. pp.248-249.251

[2] R. Cantalamessa, Dal Cristo del Nuovo Testamento…, in Autori Vari, Il problema Cristologico oggi pp. 188-189.

[3] M. Lutero, Disputatio Heidelbergae habita, tesi 19 s.

[4] Duns Scoto, III Sententiarum, disp. VII, q. 3