A mio figlio Vittorio che con il suo interesse per le persone e i fatti del passato mi ha spinto a rievocare e a narrare.

"Benedetto sia l'Eterno, nostro Dio, Re dell'Universo, che vi formò, alimentò, governò e fecevi morire con giustizia.
Egli sa il numero di tutti voi e vi farà rivivere e risorgere al giudizio della Vita Eterna.
Benedetto sia l'Eterno che fa rivivere i morti"


Queste parole iscritte all'interno del muro del Cimitero Ebraico di Roma, accanto al grande cancello, mi fecero una grande impressione quando le lessi per la prima volta all'età di 13 anni entrando in occasione della morte di mia nonna. Mi sono rimaste scolpite nella mente ed ogni volta che mi reco in quel luogo alzo gli occhi a rileggerle affascinata ancora dal loro tono grave e solenne e dalla misteriosa fiducia che ne emana. Non conosco abbastanza la religione ebraica per sapere con precisione come si configuri la vita ultraterrena cui esse alludono, quanto alla vita nell'aldilà che promette la mia religione Cattolica, neppure di essa ho un'idea ben definita. La mia mente si rifiuta di accettare l'immagine quasi naturale e terrestre che è diffusa nella cultura del nostro passato di un inferno che sta sottoterra e un paradiso in cielo e non ha neppure un'idea chiara del significato allegorico che la teologia ne offre. Di fronte al grande mistero perciò che sempre più spesso si affaccia alla mente col passare degli anni mi sento priva di ogni certezza. L'unica immagine di sopravvivenza che sento vera e certa è quella spirituale del ricordo. L'esperienza di ogni giorno me lo fa confermare. Nel rievocare episodi, detti, abitudini delle persone care che ci hanno accompagnato nel cammino in salita della nostra esistenza le sentiamo vive e come tali le tramandiamo ad altri se troviamo un interlocutore attento e interessato. Di qui il mio desiderio di mettere per iscritto questi ricordi di un tempo passato per far rivivere le persone a me care nei loro aspetti più caratteristici ed umani, legati a fatti e costumi anch'essi ormai trascorsi e forse soggetti ad essere dimenticati.

La nostra famiglia non era uguale a quella della maggior parte dei nostri coetanei. Parlo al plurale, perché rievocando gli anni della fanciullezza mi sento unita a mia sorella: un anno solo di età ci separavamo, facevamo in tutto la stessa vita, avevamo le stesse compagne di scuola e di giuochi e quindi le impressioni di quel tempo mi appaiono comuni a tutte e due. Nelle altre famiglie vi era un padre, che lavorava e la cui posizione sociale dava il tono a tutta la famiglia ed una madre che stava a casa e seguiva i figli in tutta la giornata. Per noi il papà, che era caduto in guerra nel 1918, era solo un ricordo, era il "povero papà", di cui avevamo l'immagine fornita dalle fotografie che la mamma aveva fatto riprodurre in diversi formati. Lo ricordavamo giovane, bello, buono, come ci appariva dalle parole della mamma, di lui c'era solo il rmpianto e il rammarico di quello che sarebbe stata la nostra vita se la sorte non fosse stata così crudele. La mamma riuniva in sé con quelli di madre dei tratti che nelle altre famiglie spettavano al padre, in quanto era un'impiegata, fuori di casa tutto il giorno, lavorando per provvedere al nostro sostentamento.

Gita in montagna il 15-VIII-1946

Nell'estate del '46 per la prima volta dopo la guerra si faceva una villeggiatura. Eravamo nella Valle del Biois, il paese, anzi la frazione di comune in cui abitavamo, era assai piccolo e intorno ricordava le vicende della guerra che in quei luoghi era stata vissuta attivamente contro i tedeschi. L'unico alberghetto esistente ci dava solo le stanze in affitto; per mangiare andavamo nella casetta di zia R. dove insieme con la famiglia villeggiava la cugina L., diciannovenne, molto graziosa e intelligente piena di vita e di risorse intellettuali. Le drammatiche vicende che la famiglia aveva subito per le persecuzioni razziali l'avevano costretta durante l'anno dell'occupazione tedesca a passare alcuni mesi sotto falso nome come studentessa venuta dalla provincia in una pensione di monache. In quel tempo era sbocciato l'amore fra lei ed il giovane A. anche lui perseguitato e nascosto sotto falso nome con la famiglia.

Le insolite circostanze, la separazione dalla famiglia avevano favorito gli incontri e all'arrivo degli americani le due famiglie avevano festeggiato con grande gioia il fidanzamento fra i due giovani.

In quei giorni A. si trovava a villeggiare anche lui in una località delle Dolomiti non molto vicina alla zona in cui noi eravamo, mi sembra che per andare da un luogo all'altro si dovessero attraversare due o tre passi.

Mio zio che, nonostante i 50 anni e l'andatura non molto ferma a causa della perdita delle falangi di un piede per congelamento durante la prima guerra mondiale, era pieno di entusiasmo per la montagna e più di noi giovani desideroso di fare escursioni e ascensioni, aveva organizzato una gita naturalmente a piedi superando le montagne che avevamo alle spalle e attraversando la zona intermedia saremmo dovuti ridiscendere in Val di Fassa a trovare mia sorella e mio cognato che si trovavano lì a villeggiare. La gita era stata fissata per il 15 agosto. Il giorno precedente mentre eravamo a tavola vediamo L. che improvvisamente si alza e come un razzo corre fuori. Che ra successo? Aveva riconosciuto in lontananza il fischio di A. che era venuto a raggiungerla, compiendo il percorso a piedi attraverso i valichi. Grande gioia di tutti ma non si rinuncia alla gita progettata e così il povero A. invece di riposarsi come meritava dopo il lungo cammino il giorno dopo deve alzarsi alle tre per partire con noi ed arrivare al primo passo all'alba.

Così era composta la comitiva in ordine di età: zio G., io giovane professoressa, L. A. e R. quindicenne figlia di zio G.. Fino al primo valico ci accompagnava un giovane sedicenne abitante del luogo che durante l'occupazione tedesca era stato in montagna con i partigiani. Come conoscitore dei luoghi ci avrebbe guidato fino a superare la forcella. Viaggiamo pieni di entusiasmo e qui L. ritrovandosi nei luoghi dove aveva vissuto da partigiano non può fare a meno di sparare con il mitra, che si era portato, alcuni colpi che riecheggiano profondamente perdendosi verso la valle. L'effetto è suggestivo e particolarmente doveva far vibrare nell'animo del ragazzo il ricordo di quei giorni eroici. Credo anzi che il vero scopo della sua venuta fosse quello di sparare quei colpi perché quanto a guidarci in pratica non riuscì a indirizzarci in quel punto difficile. Infatti appena dopo il passo era difficile imboccare il sentiero giusto per proseguire il cammino sull'altro versante. Si trovava un sentierino, si percorreva per un certo tratto e poi si scopriva che finiva presso un mucchietto di sassi. Così più volte. Erano sentieri della prima guerra mondiale che portavano a nidi di mitragliatrici da dove si sparava contro gli eserciti più in basso.

Alla fine dopo molti tentativi imbocchiamo il sentiero giusto e dopo aver costeggiato una specie di mare di sterco in prossimità di una malga, proseguiamo nel nostro cammino. Ma ormai si è perduto tempo, il mezzogiorno è passato e quando siamo in vicinanza del passo Ombretta che dobbiamo superare, il sole si copre e viene giù anche qualche fiocco di neve. Nessuna comoda sosta per la colazione: troviamo un rifugio che ora è chiuso, ci fermiamo soltanto il tempo necessario per leggere delle scritte lasciate dai fascisti che hanno occupato il luogo durante la guerra. Zio G. e A. non rinunciano a rispondere incidendo vicino a quelle coloriti insulti. L'ultimo tratto di salita fino al passo è assai duro perché la ghiaia che sotto i piedi ci riporta giù ad ogni passo. Così quando arriviamo in cima è quasi notte e la discesa dalla parte opposta deve essere effettuata senza indugi per non trovarci a percorrere di notte luoghi sconosciuti. Solo una piccola sosta presso una sorgente che scaturisce da una pietra a raccogliere nelle mani quelle gocce d'acqua che a poco a poco radunatesi a formare un ruscelletto e poi un fiume ci accompagneranno fino alla meta: il rifugio Contrin.Il rifugio è pieno di gente. Chiasso animazione intorno alle tavole dove ci si siede per mangiare. Mentre siamo lì sento un ragazzo che indicando a un amico Rosetta dice: guarda quella ragazza, come somiglia a Rita Hayworth.

Se vogliamo collocare nella storia l'origine della famiglia la dobbiamo porre negli anni che seguirono la formazione del regno d'Italia e la proclamazione di Roma capitale. La nonna Esterina era la minore delle cinque figlie di S. Lattes di Torino, il nonno era di Modena, anche la sua era una famiglia abbastanza numerosa con fratelli e sorelle. Come si erano conosciuti? Immagino che qualche conoscente comune abbia fatto da intermediario fra le famiglie che abitavano in due stati vicini ma non confinanti e ci sia stato un contratto di matrimonio, come si usava. Un matrimonio così concluso fra due persone che non si conoscevano affatto non escludeva effusioni sentimentali nelle lettere che i due promessi si scambiavano nel periodo del fidanzamento, ricordo che uno dei miei zii scherzava sul carattere sentimentale di questo epistolario che aveva trovato in qualche cassetto. (Forse in uno dei cassettini interni della vecchia "chiffonnière" che era nella camera della nonna e che ora è nel mio studiolo).

Non ho notizie precise sull'origine delle famiglie.  Il padre della nonna era dedito al commercio. "Faceva  l'antiquario" diceva un giorno mia sorella che per natura tende ad abbellire i ricordi del passato e mia zia che per reazione indulgeva ad un crudo realismo correggeva: "faceva il robivecchio". Né l'uno né l'altro forse, ma qualcosa di mezzo fra i due. In ogni modo il suo aspetto era molto sano ed imponente. Conservo una piccola graziosissima fotografia fatta a Torino con diciture in francese sul retro che ce lo presenta molto dignitosamente vestito con cilindro, collo duro e cravatta accanto ad Esterina la più piccola delle sue figliuole. La bimba è molto bassina, dritta in piedi su di uno sgabello arriva a superare di poco la spalla del padre, ma ha l'aria molto sveglia ed è assai ben vestita con gonna a cerchio, da cui escono i pizzi che adornano le mutande.

La famiglia del nonno commerciava in mobili. Da una vecchia signora di Modena, che ho conosciuto quando ero ragazza, ho appreso che a Modena  i giovani Foà erano noti per le loro stranezze. Non so se tra queste figurasse il fatto che da ragazzo il nonno era fuggito di casa tre volte per andare con Garibaldi. Le prime due era stato rimandato a casa perché troppo giovane, alla terza era stato accolto ed aveva combattuto a Bezzecca, ricevendo anche una leggera ferita.<p>
Questo spirito risorgimentale, che sarebbe eccessivo chiamare eroico, ma che aveva certo qualcosa di generoso, insieme alla grande passione per la musica mi sembra la caratteristica che i figli avevano ereditato dal padre, mentre dalla madre veniva la chiarezza del ragionamento e la logica che li portava a primeggiare negli studi. I due elementi, che prevalevano in diversa misura nell'uno o nell'altro dei figli, davano all'insieme della famiglia quel carattere che nel mio ricordo appare come dotata di un particolare fascino.


Il sentimento che ella mi ispirava che mi ricordo di aver provato negli anni dell'infanzia era il desiderio di starle più a lungo vicina, non vederla uscire ogni giorno e tornare stanca, la gioia quando si poteva passare una intera giornata con lei. A casa invece c'erano i nonni tutto il giorno da cui ci separavano troppi anni perché potessero sostituirci con la loro presenza i genitori. L'atmosfera della casa era un po' triste, la luce e la vivacità venivano solo dagli zii. In questo anche ci sentivamo diverse dai nostri coetanei: noi non avevamo il padre, la mamma non poteva starci vicino sempre come le mamme degli altri bambini, avevamo tre zii e tre zie e, tranne uno che era sposato a Parigi, tutti gli altri favevano ancora parte della famiglia, nella quale nostra madre, rimasta vedova, era rientrata con noi. Ci volevano molto bene e la varietà dei loro caratteri, della professione che esercitavano, il modo diverso che ciascuno aveva di dimostrate il suo affetto, mentre hanno reso più lieta la nostra esistenza di piccole orfane, hanno contribuito anche alla formazione della nostra personalità. In tutta la mia vita nei contatti con i coetanei ho sempre sentito una diversità fra il mio modo di essere e di pensare e quello di chi era cresciuto in una famiglia comune soggetto solo all'influenza del padre e della madre. Ora nel rievocare una vita quasi interamente trascorsa potrei essere tentata di fare un bilancio fra i lati positivi e quelli negativi offerti dda questa diversità, ma non voglio farlo. Nella ricchezza interiore che sento indubbiamente di possedere in misura maggiore di molte delle persone che ho incontrato, riconosco una eredità dei miei "meravigliosi zii" a cui il mio pensiero ritornerà sempre con commozione e gratitudine.


Zia Nina, la maggiore, era una vera studiosa, si era dedicata alle scienze naturali ed è stata stata una fra le prime donne italiane che abbia occupato una cattedra universitaria ed era nota per i suoi studi anche fuori d'Italia.
Nel 1938 entra nella carriera pochi mesi dopo la pubblicazione delle leggi razziali...