Triffids: Treeless plain
[1983]

 


Ascoltare a diciassette anni di distanza il primo lp dei Triffids, e sentirmi ancora privilegiato, "esploratore" di interstizi creativi mi da un singolare magone.

Sono preso in mezzo a questi suoni, al dato biografico della morte, avvenuta due anni fa, di David McComb e a quello evenenziale della minima rinomanza data all'ottimo gruppo australiano da una musica sobria, sincera, dolorosa, straordinariamente compìta.

12 canzoni, 10 a firma McComb che da sole avrebbero dovuto consegnare i Triffids ad un ruolo di primissimo piano nelle strutture portanti del nostro cuore; e invece l'ombra di una sorte beffarda ci condanna a evocare un nome, insignificante per i più, a cui sono rimaste attaccate immagini frammentarie, stralci di un lirismo secondario, figlio di un dio senz'altro minore e di un destino tanto insolente quanto comune in ambito downunder.

Lontani dalle scene che contavano, indifferenti alle mode del music business i Triffids centellinavano un rock "assoluto", o "puro", chiuso in sé stesso e concentrato sulla musica in un'epoca in cui uno sbaffo al rossetto di Roberth Smith avrebbe potuto cambiare i criteri estetici di enormi valanghe umane.

Treeless plain canta di una solitudine non ostentata, della presenza ossessiva ma ispirativa del deserto; un deserto fisico, quello che giace in agguato alle spalle di Perth, Australia Occidentale, e un deserto simbolico, che alberga la difficoltà dei rapporti umani (let's not talk about love, that is something you feel for a dog or a cat si sente in Place in the sun), e la precarietà degli stessi, vissuti in un'ottica di preventiva, irrimediabile perdita.

Eppure David era ben lontano dal credere che la musica dovesse essere l'equivalente di un diario intimo dell'autore: le canzoni che troverete qui trascendono poeticamente la dimensione privata dell'esistenza; la sfumata letteratura a cui da vita la sua penna è una perlustrazione stilizzata di anfratti, di limiti, di una morale difficoltosa, naufragata nella stereotipia delle parole.

Su di tutto, l'ombra nichilistica di un incantesimo malvagio, che toglie contorni ai protagonisti, fissandosi eminentemente su un rapporto di coppia a cui gli eventi conferiscono impossibilità: memorabile la "cavalcata" diedprettyana Red pony: un regalo, un pony rosso su cui attraversare un deserto uniformemente nero (next to you my love/all colours turn to black) si rivelerà cieco; cieco come il treno con cui si identifica la donna di My baby thinks she's a train.
L'affettività è anche qui ridotta a un meccanismo capace di bypassare l'idioma singolare, e di confondere le percezioni in un fatalismo senza redenzione: un passo come if you've broken a pure heart, you're branded for life (da Branded) sembra appartenere alla stesso epos del conterraneo Nick Cave.

Musicalmente prevale la ballata rock, su cui si incastonano gli arrangiamenti puntuali del violino o dell'organo, sostenuti da una solida sezione ritmica da cui spicca un basso all'occorrenza pulsante o "camminante". Da questa equilibrata alchimia nascono i brani più memorabili dell'opera: Place in the sun, Hell of a Summer, Hanging Shed e Rosevel; ma tutto il disco dispensa ottime canzoni, il difficile semmai sarebbe scegliere le canzoni meno riuscite.

Persino un pezzo negli intenti "defatigante" come Nothing can take your place, a firma del batterista Alsy MacDonald, posto in chiusura serve a ricordarci, una volta di più, cosa ci siamo persi e cosa rimane: il canto più autentico di un gruppo che, come il Poe di Baudelaire, recava indelebilmente in fronte un "tatuaggio raro e singolare: nessuna fortuna".

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