Prefab sprout: Swoon
[1984]

 


A fidarsi della breve e naivissima presentazione di copertina di Emma
Welles, il termine Swoon, applicato all'esordio dei Prefab Sprout sarebbe riconducibile alla Necessità (Songs Written Out Of Necessity).
Fra i versi di una sua canzone (Green Isaac) troveremmo conferma a tale origine:

Forget the style and choose from twelve notes, in itself it's a joy,
whether it soothes or annoys, a song starts in the throat

A fidarsi, si diceva: ma noi non arriveremo a tanto, e consapevolmente sceglieremo di lasciarci portare a spasso per questo mondo di specchi, fieri del nostro spaesamento e al contempo camaleonticamente ricromatizzati ad ogni singola contrada del borgo Swoon; voluttuosamente, ripetutamente esiliati dalla volontà, in giro turistico che potrebbe capitarci di scegliere come condanna professionale.

Di fatto è impossibile conoscere in anticipo la durata del giro, la permanenza in ogni singola melodia, le consistenza - non solo temporale - delle nostre osservazioni collinari insieme al famoso Folle.

 

Beh, Swoon è anche un luogo fisico.
Lo so perché ci sono stato e ci sono.

Ma Swoon tradotto dall'inglese ci dice altro:
swoon [swu n] 1 (n) [old] svenimento;
2 (vi) svenire

E beh, non potebbe essere diversamente. Swoon è un piatto pieno di svenevolezze.
E mentre ci dice di non poter sopportare d'essere speciale (there's a mile between the way you see me and the way i am - "Couldn't bear to be special") e d'aggettare in mezzo agli scaffali ottantini di vinili-tappezzeria ci serve un pranzo luculliano di memorabilia.

Il menu, se ricordo era questo:
Primo = Cole Porter, Burt Bacarach, e in generale tutto ciò che, dotato di genio consapevole, s'iscrive alle liste di collocamento
dell'Indelebile.
Secondo= Eccentricità, Manierismo, Citazionismo, Yuppismo letterario; contorno a scelta.
Frutta= Mele, soprattutto: equilibrio intestinale e seduzione mortale.
Dolce= Torta mista: jazz, pop, country, lounge, soul.
Ciliegine= 11, simbolicamente adattate al numero dell canzoni presenti.

Sì, sì: Swoon si dà solo in abbuffata. E so già che l'antipasto vi farà storcere un po' il naso:
"ma quanti anni ha sta roba?
Surgelato? Diciotto anni...!?".

Probabilmente la prima vostra intera seduta al desco di Swoon sarà traumatica: frastornati dalla quantità delle portate e dalla loro estrema elaborata compositezza temerete un rigurgito immediato e farete lunghe pause. Lo so, ci sono passato.
Vi renderanno diffidenti i coloranti, conservanti, le creme, i sughi, le frutta, e il servizio di tovaglioli buoni.
I punk vorranno sfasciare tutto, i jazznicks troveranno il tutto un po' annaquato, ma gli edonisti tout court vi si getteranno con
disperata dedizione, e godranno di una digestione lenta.

I soliti press addicts gli preferiranno il meno affettato e patinato Two wheels good (aka Steve McQueen): ma insomma la distanza che passa fra Swoon e il suo successore è la stessa che separa Ronald Firbank da Oscar Wilde, il genio puro dalla migliore maniera di esprimerne le vibrazioni.

A più di dieci anni di distanza sento ancora tornarmi sù i ruttini di piacere. E spesso son boati, eh.
Me lo porto sull'isola deserta, anzi non lo porto: ci rimane quando fra qualche giorno la Sicilia sarà spopolata e si potrà alzare il
volume dello stereo a diffonder Bellezza nel silenzio.

Capita che sfumature vengano fuori dall'indistinzione dell'abitudine e si candidino al ruolo di agnizione melo/metafisica della settimana.
Se considerate il numero delle note di questo disco, il numero dei cambi di tempo di melodia e d'umori (nonché il numero di settimane disponibili in una vita mediamente breve) amarlo sarà pure un buon investimento.
Non temerete la solitudine e ne cercherete randagi dei surrogati.

Vabbè io ho finito.
Anzi, ora ricomincio.

 

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