SRC: src
1968


Detroit, 1967.

I nomi che l'inevitabile innatismo del critico rock - figlio di una rigorosa e sempre abbozzata storia ufficiale - spinge verso le prime file di un discorso possibile hanno il peso di Stooges, Mc5 e Amboy Dukes.

La visibilità è una delle condizioni della materia che più impressiona la memoria; non sorprende dunque che la frequentazione di questi altri, eletti, figli del Michigan sia oggi appannaggio di una ristretta cerchia di appassionati.

   Con un buon margine di sicurezza potremmo persino affermare che fra questi pochi ancora meno sarebbero disposti a far scattare la facile associazione con i gruppi sopramenzionati. Niente protopunk, criptohardocre, e seminalia vari: gli Scot Richard Case (presto abbreviato nell'acronimo SRC) hanno creato un suono personalissimo, il cui unico vago riferimento possibile sarebbero i Doors di "light my fire", i cui pilastri son materiati del gran lavoro dei fratelli Gary e Glenn Quackenbush, rispettivamente alla chitarra e all'organo, e alla voce del cantante Scott Richardson.
   

   I possenti, deliranti e acidissimi assoli di Gary Quackenbush, stagliati sul tappeto chiesastico/procolharumiano di Glenn creano un ambiente ideale per l'angleggiante, infantile cantato di Richardson, e ci spingono a porre questo gruppo fra le più belle possibili scoperte per un appassionato di psichedelia.
   La distonia fra la fragile evocatività del cantato e la ottundente, fragorosa monumentalità del suono crea un effetto policromo dal fascino unico e deliziosamente perverso.

   Il loro primo album, omonimo, del 1968 è un lavoro irrinunciabile. A partire dalla memorabile track d'apertura Black Sheep, dove tutti gli ingredienti della mistura sono elargiti in dosi stupefacenti - un basso pulsante, un organo solenne e monolitico, i giochi allucinatori, torbidi, insinuanti della chitarra e la soave, suadente lirica vocale - il disco è un campionario sorprendente di altissima ispirazione, che solo in alcuni sparuti angoli s'accanisce e fa finta di nulla.
Prendiamo Daystar, il suo ritmo incalzante di melodia, i suoi umori lisergici galleggianti in un pop/gressive strutturatissimo ma mai pedante, o la solenne, sublime, doorsiana Exile che sarebbe eucaristia in qualunque messa rock, o la più sfumata e maliziosa Marionette che gioca con la luce fra gli alberi di un altro pianeta al calar del crepuscolo, oppure la magmatica, orgiastica (e questa sì, almeno nelle intenzioni Re Iguana afflicted) Onesimpletask, o infine la filastrocca Hard Paragon Council: ammiratene l'equilibrio, la miracolosa composizione, siate schiavi delle sue suggestioni.

   Difficile che dopo un attento ascolto questo disco non faccia breccia nel vostro cuore e, in esso, non insinui il dubbio che alcuni dei capitoli più emozionanti ed esemplari della storia rock debbano ancora essere scritti.



[back]