PINK FLOYD: The piper at the gates of dawn
[1967]

 


Ho una discreta passione per la birra.

Riesco a consumarne parecchie bottiglie, e prima di finire prono sul pavimento raggiungo l' equibrio d'una ballerina classica che stesse ritta su un piede su una corda sospesa sull'abisso.


Non ho mai assunto LSD: le mie forme mentali sono fragili e sformate quanto basta per garantire spifferi di ogni genere. La mia immagine dell'agorafobia illimite rasenta quella della morte, e non sono curioso.


Dico questo perché presuppongo che, s'avete cliccato sul link che vi ha portati sin qui, abbiate nulla o scarsa nozione di un uomo chiamato Syd Barrett.
Una recensione dovrebbe illuminare una porta d'entrata, pungolare una curiosità tutta ancora da venire e che vi porti al frutto maturo dell'ascolto. Di solito funziona così. Perché vedete, con The piper at the gates of dawn scribacchiare una recensione veloce risulta dannatamente difficoltoso, per diverse ragioni:

1) Questo disco discrimina un prima e un dopo. Tecnicamente, culturalmente, imagologicamente.

2) Questo è il disco che dovete portare sulla pelle se avete la minima intenzione di comprendere cosa sia la psichedelia inglese.

3) Perché è uno dei dischi più ispirati e densi della musica rock tout court.

4) Perché, una volta che avrete calato la fatidica testina sui solchi (o pressato ingenuamente il vostro play sul lettore cd) la proliferazioni di immagini nel vostro cervello vi sorprenderà, e il compìto intento didascalico vi sembrerà la cosa più prosaica del mondo.


Diamo allora per scontato che abbiate intrapreso l'opra e abbiate in questo momento alle orecchie il primo pezzo Astronomy domine. Cosa sentite? Delle vibrazioni. Cosmiche. Dei vortici centripeti di note, pulsazioni di stelle estinte. Rumori indecifrabili, e una spaventosa preghiera al buio in attesa, che segue la pendenza di una regressione armonica. The sound surrounds the icy water underground, eppure quel suono non va da nessuna parte, sale e scende, poi gira in tondo, prende l'ascensore, e riprende il ciclo.

Nel frattempo un paio di universi hanno salutato con un inchino il palcoscenico della mente, fra cavalli alati e guerriglie di unicorni. Neanche il tempo di riavervi e siete su Lucifer Sam, che à una sinistra divinità felina, e ama tantissimo poltrire adagiata su morbidezze beat, al punto da affiggervi le sue unghie intinte di acido. La chitarra galoppante sorregge una batteria indolente e quasi in down alcoolico. Però la piccola tigre lisergica produce l'immagine della sua quiete, e non è affidabile. Scompare; è come se non fosse mai stata là. Che cosa rimane nella mente se il fragile legame fra la realtà e l'immaginazione si frattura in un punto?
Poi, ecco che invece, slanciato da una buona intenzione Sam si apre la visuale fra le fronde del boschetto, e scorge un castello al cui interno sappiamo svolgersi traumi sottratti alla vista. Mathilda mother, è una solenne demenza abreativa, un'immaginifica zona della coscienza infantile: wondering and dreaming, words have different meanings.
Ma di colpo ci trasferiamo sui piumaggi di un cirro e osserviamo da lontano la realtà, dipingendola come la mano di un pittore naive ma molto capriccioso. Siamo già a Flaming e non ce ne eravamo accorti, soprattutto perché ad un certo punto sembra che uno dei nostri incubi più angoscianti si rivesta di note. Io vado via un attimo.
Siete in una jungla ora, e qualcosa che ha molte zampe e non ottime intenzioni vi sta seguendo. Ed è molto strano davvero, che ci sia quella moquette grigia al posto della vegetazione, e che le luci intermittenti che seguite non riescano ad afferrarvi per bene. Se vi riuscissero vi terrebbero in un palmo di mano, e vi spremerebbero per bene. Voi intanto, correte, perché il basso non vi dice nulla di buono, delle vocine nascoste in ogni angolo del corridoio sembrano trovare sinonimi sonori allo strano cartello che dice "Pow R. Toc H.!" e l'effluvio subliminale degli arpeggi alti della chitarra crea l'effetto drammatico.
Ma forse, sì, ecco, è tutto un sogno, e non puè accadervi nulla di male. Anche quando giungete alla radura di Take up thy stethoscope and walk e sembra che gli strumenti si stiano scrollando di dosso pulci e zecche, e petulando perché tutto questo percuoterli, accarezzarli, maneggiarli non li lascia dormire anche solo un po' nella realtà asseverativa del mondo esterno. Dove sono finiti i facili strofa-strofa-ritornello a cui erano educati? Dove sono le strutture logiche, dove le melodie che non spaventano e il loro metodo meccanico?

Che rifiatino, per ordine della regina di cuori, almeno fra la prima e la seconda facciata, perché lo shuttle è di nuovo pronto, per una circolazione ulteriore. E ci sono tempeste di antimateria sparse sul tragitto dell'Interstellar overdrive, piece per antonomasia dello space rock. Qui c'è un trambusto di vibrazioni; è il secondo viaggio, ed il più difficile, perché le mappe abbozzate dall'inconscio trovano radi riscontri nella spaventosa casualità degli asteroidi e nella terrifica velocità dei meteoriti. Si può contare solo sulla scia di un riff approvato e garantito dalla storia della musica, e basta premere il pulsante qui, accanto al cruscotto. Si vedranno allora meglio i bordi della luce e le crepe dell'ombra, e i ritagli di fantasie non si spiaccicheranno più sul parabrezza, impedendo la visuale.
Destra e sinistra si confondono nello sbiadire confusionario del mixaggio, e se una consolazione v'è da trovare, la si ricerca nella fiaba d'uno Gnome che invece, tutto tranquillo, non ha abbandonato il suo villaggetto, si fa gli affari suoi, e vive piccole avventure che gli sembrano grandissime per via degli xilofoni che i suoi concittadini hanno imparato a suonare, magari consultando l'I Ching e guardando albe e tramonti beneauguranti.
Che fosse il Chapter 24 o quello dopo non ha molta importanza: bisogna seguire la strada che c'è dentro, e portarle da mangiare la realtà, almeno un paio di volte al giorno. Pescare qualche elemento, gettando la mano nel baule della vista. Ecco, il baule è aperto, e mille passeri spaventati volano impazziti.
Se dai uno sguardo dentro vedrai, allora, che c'è uno Scarecrow, nel campo dell'orzo, che si fa i fatti suoi, ed è pagato per quello, e non c'è modo per convincerlo a muovere un dito, neanche il vento fra i salici potrebbe, neanche la bellissima ragazza che passa in Bike ai bordi del campo, accompagnata da una camionetta carica della banda del paese, carica di topi e di grancasse.

Cala il buio sulla distesa frusciante, è Mezzanotte, e dall'ultimo specchio rimasto integro proviene una russata beffarda, una coazione a ripetere l'incantesimo, un sibilo d'infinito.

 

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