THE
INCREDIBLE STRING BAND:
The hangman's beautiful daughter
[1968]
La
bellissima figliola del boia, l'indefesso gioco delle alternanze, il ludus
essenziale degli opposti eraclitei: dall'ombra la luce e dalla luce l'ombra.
Yin e Yang, ma sarebbe a dire: Robin Williamson e Mike Heron, anno di
grazia millenovecentosessantotto.
Anni di possibilità intraviste, accarezzate, fumate, probabilmente troppo
urlate, eppure un manto cementizio può sgargiare falle iridescenti: e
mille e mille i sentieri confluenti in un interstizio storico irripetibile e
angusto. Troppo pochi 365 giorni per accogliere la confluenza di millenni in
suppurazione, troppo piccolo ogni recinto per permettere il transito di mandrie
di psico/svaganti ulcerate dalla noia; il 1968 si scontra presto con la materia
di cui è composto.
The hangman's beautiful daughter è immagine perfetta, tutto il movimento
gli rimane appiccicato: il misticismo, l'euforia, la sperimentazione, l'eclettismo,
la droga, l'ideale.
Ma sintanto che dura ed è il 1968, (e dura da appena un anno prima -
l'anno della folgore 1967 - annus sanctum rock'n'rolli psichedelicii)
- il mondo s'avvede del suo ritardo rispetto a giovani musicisti che su bobina
magnetica provano a scombiccherare il codice d'avviamento postale di una normalità
costumata, fatta di zie innamorate di crooners tenebrosi e folle di sorelle
e cugini scossi nello spirito da rassicuranti vibrazioni di grancasse beat.
L'Incredible String
Band incredibilizza anche ogni altro strumento umanamente suonabile, sovverte
la scolastica ripartizione dei generi e andmoreagain - nella stagione
dell'amore coatto ma sperimentalmente foriero di esperienza - riconduce ad unità
(forse parziale e occidentale, ma pur sempre ansiosa di totalità) il
globo musicale.
Vi sono solo due motivi certi per cui l'Incredible String Band oggi non è
oggetto di ipersecrezione discografica postuma, per cui non le vengono dedicate
cronologie certosine sulle ore in studio di registrazione e chissàquantoaltro
porti agli onori uno dei più grandi capolavori della psichedelia europea:
il primo - il più ovvio - è lo stesso per cui due è maggiore
di uno; perché questa è arte incompromessa, senza let it be
e sottomarini giallidi di sorta a solcare le onde più superficiali; la
seconda è perché Mike Heron, pur con tutto il bene che gli vogliamo,
non vale il Paul McCartney dei giorni migliori, né vocalmente né
compositivamente. Il suo focale ruolo nella band è quello di equilibrare
e ricondurre al "rock" la vena profodamente eclettica e "etnica"
di Robin Williamson, genio e possessore di una modulazione vocale ancora appunto
incredibile.
A prendere per i piedi i Mike e Robin di quegli anni shakerandoli per bene -
ecco vedremmo sul manto erboso idee e guizzi pronti a riempire i fogli di una
dozzina di Sgt Peppers.
Vuole una leggenda alimentata dal produttore Joe Boyd che i due fossero molto
competitivi (si odiassero, a riportare i termini esatti) e che nessuno avrebbe
mai potuto sopportare di lasciare "intonsa" una composizione dell'altro.
Gli arrangiamenti di questo disco sarebbero il frutto di un'estrema tensione
interpersonale - autentico tour de force arrangiativo. Non vi è
armonia qui non commentata; che sia il sitar, il dulcimer o l'harpsichord
di Mike o il gimbri, il chahanai o l'arpa di Robin, la melodia
è sovrana, e la sovranità è intessuta arabeschi lussureggianti.
Come in Eraclito, le disarmonie individuate (le piccole disarmonie) superate
e ricomprese nella grande armonia che regge e governa l'incessante opera creativa
della natura. Mike e Robin, qui sono solo le mani; è qualcosa di immanente
e onnicomprensivo a dettare i tempi. E' l'acqua stessa che dopo Talete ha scelto
nuovi messaggeri per esprimersi. In The water song, i flauti sono suoni
d'uccelli, gli uccelli cinguettano suoni d'organo, e sopra tutto si staglia
l'invocazione: o maga dei cambiamenti, insegnami la lezione del fluire.
Ma fluiamo per ordine.
Il disco s'apre subito con un capolavoro melodico: Koeeaddi there, che
sembra la perfetta armonizzazione di 5 o 6 canzoni del miglior Donovan insieme,
tenera e nostalgica carrellata di sogni e trasfigurazioni naturalistico/adolescenziali
in chiave minore, interpolata da una stornellata panteistico/sapienziale, manifesto
programmatico dell'intera opera: earth water fire and air/met together in
a garden fair/put in a basket bound/with skin if you/answer this riddle/you'll
never begin.
Segue lo sketch
da operetta pagana The minotaur's song, incedente buffamente fra un pianoforte
da vaudeville e cori ebbro/muggenti, unica burla e oasi di relax compositivo
del disco, ma al solito, gli arrangiamenti fremono e contrappuntano fino ad
estendersi oltre la durata effettiva del pezzo, con l'aria di chi sia stato
appena sgamato :)
Witches hat con la sua accordatura di chitarra 'aperta', la sua elegante
suadenza vocale al servizio di una filastrocca infantile è annoverabile
fra i classici di Williamson, così come il pezzo seguente, A very
cellular song è il classico assoluto di Heron (in questo disco minoritario
in quanto a numero di pezzi); 13 minuti di fratturato minestrone; strofe che
si passano il testimone e guizzano nella stessa scatola piena di farfalle, ora
a ritimi circensi ora a scatti temporizzati di ritornello; non v'è strumento
che non figuri nella sfilata o non vi figurerebbe. Tutto scorre velocemente
- i pezzi di Mike sono blanks, piccoli declivi che annunciano ogni volta le
estasi pianuriche di Robin; Mercy I cry city, e Swift as the wind
amalgamano il muezzin e rodeo, si lamentano e poi ancora festeggiano,
preannunciano, indicano.
Waltz of the new moon arpeggia una suggestione levantina - e scivola
sul mellifluo tappeto fluttuante della voce di Robin; è un'affresco che
solleva le pietre più nascoste, cercando vita dentro la vita, lambendo
la stasi di ombre cristallizzate in memoria.
Three is a green crown è litanìa magica, fulcro dell'anima
sacro/orientale del gruppo.
Ogni discernimento è sospeso sino a Nightfall, ninnananna cosmica,
addio trascendente che sibila fra foglie e rumori in agguato.
Adesso sapete cosa vi aspetta.
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