FAPARDOKLY: fapardokly

 


Un'altra folgorazione: di questi tempi si volteggia come zanzare ubriache nei pressi di un'interzona fluorescente di neon ad alto voltaggio. Ma ecco; se t'è in sorte filtrare fra le grate, piroettando fra salme entomologicamente fossili, forse v'è un archivio segreto ancora tutto da esplorare. Alla lettera F, sezione F(orse) F(olk), le dita estraggono questo FAPARDOKLY.

Folk ordunque? D'americani/californiani pur si tratta. Epperò vi sono chitarre acustiche a dodici corde, e v'è un feeling campestre che non oltrepassa mai però il recinto delle mucche. Questione di sfumaure: non il tedio della campagna che produce i capolavori-da-vetrinetta-off-del-centro-trent'anni-dopo, ma un visibilante estroverso amalgama pop che si vuole vestire d'esotismi e psychodelicatessen ante litteram. 1966!

Psych? Ma certo. Qualcosa che intravede il futuro, stanco di grancassine beat: al cospetto di beatlaggini codificanti questo disco presagisce l'uso creativo dell'orchestrina nel pop prima, stavolta, un po' prima. Gioca su Barrettismi precoci (*Mr. Clock*, par dieu, je suis perdu).

Byrds? Ovunque. *Gone to pot* ha la stessa 12 corde elettrificata che fa il verso a "eight miles eight" (ma quasi ostentatamente), *No retreat* con un po' di fantasia potrebbe essere "Everybody's been burned" (con meno succitati corpi di zanzara carbonizzati) ma più naif e infantilista.

Pop(-syke)? A palla. Rockeggianti ma senza perdere in leggiadria. Un po' più rootarelli e sarebbero i Charlatans, un po' meno e sarebbero gli Zombies.

Tragico che un gruppo così abbia avuto al vita di un LP. Con brama avremmo caldeggiato la loro iscrizione a un club di cuori yankee solitari.


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