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Aboliti i giorni, arriva la Primavera.
Una sveglia dispeptica, latrante informazioni, scaglia decibel di dolore prematuro che vanno, in intimo accordo con un tempo per me ancora fuori portata, a rapprendersi sulle pareti della stanza, sul paesaggio frastagliato di incavi e oscenità che punteggiano oggetti sonnolenti, sullo smalto di questi ed altri ricettacoli di luce che, dapprima, vacilla in sincronia con gli umori custoditi dagli occhi.
E virus dai bei nomi esotici. Le fogne s'empiono di liquami cittadini, vasi non comunicanti di linfa occulta, autostrade a scorrimento unidirezionale. Nessun servizio di viglianza, tranne me, che m'intrufolo di notte, all'ombra del segreto compito del sonno, in cunicoli sdrucciolevoli ove giacciono, a numerosi chilometri dalla superficie asfaltata, i microchips essenziali della percezione.
Dal fondale acqueo, un paesaggio superiore, pavesato di scintille casuali mi riconduce all'ossigeno; incamero un profondo respiro, mi guardo attorno rilasciandolo con parsimonia.
Qui, lenzuola gualcite da sangue già denso, in coagulazioni di sogni inedite offrono il primordiale sostegno a ciò che sempre mi costringe a ricominciare. Welcome, sostiene lo zerbino. La memoria-base frulla impulsi, inviandoli alla periferia; avverto il posto che occupo nel letto protetto dalla mia forma, che si dispiega per brancolamenti progressivi. Che io sia qui, il fatto bruto che ci sia, mi assicura d'acchito della mia possibilità, m'informa delle due o tre nozioni elementari atte a preservarla dall'incombere della luce e dallo shock dell'aria fredda del mattino.
Sintanto che non rientri nell'ambito di competenza di un'accidentale riflessione dello specchio, la configurazione esterna di ciò che sono è un sottinteso solido più per abitudine che per una qualsiasi acquisita credenza che possa io riferirle. Plasma empirico.
Ogni giorno, dare un nome. Ogni giorno dimenticarlo per tornare a cercarlo.
L'accuratezza claustrofoba di alimentare la respirazione con esercizi propedeutici, e contro ogni inerzia, riprendere contatto con ciò che mai si scollega. A questi sogni non capita più di cancellare, sciamano in tondo, mi lasciano la colpa.
Così, forse anche prima che si rendesse possibile, incuneandosi nella teoria, so perfettamente di essere l'unico essere umano versante allo stato solido nella casa che ho in affitto. Per il resto, i ricordi della mia vita precedente, tengono compagnia a quella parte di me, coscientemente senza scopo, preposta alla loro auscultazione.
Individuo molto pigro. Poco incline alle novità, o persino alla verità, pessimo utente. Mi interessava qualcosa a cui mi premuravo, con zelo e disincanto, di non dare contorni, qualora avessi sospettato di poterne intravedere un'ombra e senza, tra l'altro, poterla far fruttare nella conversazione.
Ora che avevo un lavoro, m'infischiavo delle critiche, da ogni lato, prime fra tutte, quelle che ormai, a motivo di una consolidata familiarità, consideravo essere 'le mie'. Se scrivevo, c'erano più apici che maiuscole. (Semplici o doppi, non ne avevo mai perfettamente afferrato le differenti modalità d'uso: li usavo entrambi, perlopiù come venivano, maledizione). La realtà mi annoia spesso. Colpa mia.
Sto in una 'medietà' geneticamente, culturalmente ereditata, simile a quella descritta da Heidegger in Essere e tempo: Messina, città dalle potenzialità filosofiche ancora insondate. Non bisogna appartenerle per poterci vivere.
Questo mi dispiace più per gli amici. Ho già detto che sono pigro. Messina va bene. Il mio lavoro, la mia casa, la mia Vespa, con quell'oncia di possessione in più che proviene dal pronunciare la lista della spesa con le "e" spalancate, e, attraverso quell'apertura sdegnosa, predisporsi ad espellere quanto più rapidamente possibile dai polmoni, ogni collusione voluttuaria con l'universo che superi il confine di decenza ratificato dall'associazione dei commercianti. Il saldo possesso di ciò che devi consumare; su questo il messinese possiede una preminenza a cui invano si cercherebbero cause di ordine fisico. Se raramente mi è capitato di posare le orecchie, tra gli scaffali di un Supermarket o alla fermata di un bus, su un'inflessione di voce straniera, presumibilmente americana o tedesca, (forse turisti fai-da-te, in tutto buon conto), la mia traspirazione automatica ha subito intravisto uno scenario di messinesi sovrastrutturati da un corredo di sensori ed antennine atto a distillarne la differenza genetica a fini scientifici, forse un modo per inoltrarsi nel pianeta ancora in parte sconosciuto della clonazione: come, ad esempio, risparmiare su spese inutili di laboratorio o su quelle, ancora più superflue, di etica.
Il discorso per quel che attiene alle donne del luogo, capirete, si complica un poco. Non che non ce ne siano: qui come ovunque, ce ne sono troppe, per fortuna. Troppe, si intende, per me così poco (poco desideroso, immagino, di costruirmene, dopo ventisette anni di raminga idolatria - sfociata, infine, in misoginia di facciata - un'immagine plausibile).
Potrei così forse fornire la descrizione provvisoriamente 'ultima' della mia ricerca di allora: nella mia speranza, io vivevo nella luce riflessa di quella unica donna che, prima o poi, si sarebbe lasciata scovare da un me camuffato sotto le spoglie di chi potrebbe, senza doppiezza, firmarsi William Wilson pur non sospettando nulla delle segrete leggi della seduzione inerenti all'attrazione ed alla repulsione, come io presumo, non senza una disperata confessione di pragmatica nullità, di non fare.
La parte più interessante, più torbidamente fittizia, più cerebralmente dinamica della mia vita si esplica nel tenere a bada quella determinata specie di fantasticherie suscitate, a un dipresso, dal vorticoso disturbo ormonale con cui le donne segnalano, in organismi estranei, la propria quieta consapevolezza dei malintesi che può trascinare con sé.
Un paio forse emergeranno dalla breve narrazione. Agli altri sono più affezionato, e, per la poca stima che mi costringo a nutrire per un'abitudine così malsana quale scrivere, per di più al fine di offrirne gli acerrimi frutti alla lettura, mi destino, nei limiti di un Caso con cui mi accorgo solo ora di non intessere grandi rapporti di familiarità, a tenere per me.
Sveglio da cinque minuti e già cose da pensare. Ci sono dei motivi e dei contro-motivi, naturalmente. Non discuterei mai della necessità di coordinare l'informe materia rivolgendomi con presunzione alla pervicacia tutta eziologica di lor signori lettori, eppure, mi sia concesso solo questo; nella loro più segreta essenza, questi pensieri mi assalgono senza permesso. Qualcuno li ha pensati per me, e me li invia in guisa di onde radio, captabili nell'esclusivo bailàmme del risveglio. Persino di questi tempi, credo che ognuno sia vegliato da un angelo custode, ma così mal retribuito da vendersi per pochi spiccioli a chicchessia, assicuratori inclusi.
Le notizie che arrivano sono puntuali, sebbene la realtà che aggiornano così solertemente sia già marcita nel tempo dell'invio, a meno che, beninteso, non si tratti di notizie locali.
Non dico niente di nuovo, lo so. Se infatti vezzosamente mi definisco pessimo utente, è per darmi coraggio. In realtà non potrei sentirmi più al passo con i tempi. Esclusi i messinesi dalle mie competenze, la realtà attuale della mia vita è sincronizzata con il segnale radio.
Dipendo da poche parole, e non parlano di me, sicché il resto sarà meglio riferirlo ad una passeggera incarnazione, o anche forse ad una nuova nascita. Comunque la si possa mettere, nascere è la premessa.

1

"Ci sono donne che, per quanto la si cerchi in loro, non hanno interiorità, sono pure maschere. E' da compiangere l'uomo che ha a che fare con tali esseri quasi spettrali, necessariamente insoddisfacenti; ma proprio esse possono eccitare al massimo il desiderio dell'uomo: egli cerca la loro anima - e continua a cercare". (F. Nietzsche)

Occhi blu, palle immobili, incastonate nell'anello senza identità del volto. Cerchio spezzato in un punto, imperfetto, stretto attorno al sangue lento nelle vene. Qualunque cosa fossero, da qualunque buco venissero a cercare la luce, io camminavo nella maniera che avevo imparato faticosamente e da cui, probabilmente, mai trarrò alcun beneficio.
Ascendevo le scale, guardandomi intorno sotto forma di pareti smangiucchiate da gravi suoni di studenti telefonizzati, file indiane capeggiate da azzimati docenti in giacche tinta unita e cravatte a pois, agglomerati semoventi organici rannicchiati sul margine destro d'ogni gradino, gracchianti salmi, in alternanza con i cellulari, da testi solcati da fosforescenze policromatiche orizzontali.
Un passo dopo l'altro,un passo sopra l'altro.
Ma doveva essere successo qualcosa, e non poteva solo essere la mia laurea l'anno precedente. Ad ogni piano (tre in tutto) una fugace perlustrazione, ogni colpo ribattuto con solerte e in buona parte dispensabile raccapriccio. Il marmo, polvere di secoli.
Lei non era diversa - per carità - aveva solo gambe più scostate entro un jeans azzurro logoro, staripante incontinente, orrendi scarponi da scalatore color viola opaco, camuffati appena da fanghiglia raddensata attorno alla mascherina di gomma, un body rosso appena meno che penzolante, contornato a nord dai lineamenti bianchi ed umidi d'un reggiseno di pizzo.
Capelli indecisi di crespa ansia verticale non scivolavano lungo le spalle, aggrappati com'erano alla negazione più decisa d'ogni sicurezza geometrica, delimitando un viso le cui linee di forza vagavano, pessima scelta, verso l'esterno.
Due buchi capienti s'occludevano conicamente pressando sull'aria che inerte ne fiancheggiava i movimenti, ed è, vogliatemi credere, il modo più esplicito di riferirlo.
Senza più fiato e audio, m'imbattei nella sua ellisse boccheggiante che, indolente, catturava l'attenzione di un giovane scavato, eretto lungo un metro e novantanove ripiegato in due, ch'era un'appendice del naso; entrambi aspiravano un modesto permesso d'entrata per pochi spiccioli di proteine.
Dal fondo della sala l'amico che venivo a trovare si staccò dalla porta dell'aula cinque, cigolando un sorriso di partenza. Capii d'avere indugiato molto e notai che il piano era terminale.
Era lui che venivo ad incontrare, nonostante lei si fosse già appropriata della mia scelta nei piccoli gesti cristallizzati dall'uso, che, improvvisamente, spezzarono la continuità (che io presumo) nella conversazione intrattenuta con Empire state human. Iniziò a fluttuare al suono di archi provenienti da un videoclip adeguato all'occasione.
I bulbi di lei rotearono nella mia direzione, quelli dello spilungone li seguirono. Si scambiarono un paio di sguardi e poi così recitai per loro, rivolto a Stefano:
"Non dovevamo vederci al secondo piano? Avresti dovuto dirmi di iniziare a contare dal secondo" Appallottolandosi la bocca con la mano ringhiò:
"Mi sembra che ci siamo trovati comunque"
"Ma sai come vanno queste cose. Ci si trova, ci si perde, sono cose normali in vita. Alla fine, per quanto vacuo possa sembrarti, rimangono piccoli modesti segni, come la puntualità, la precisione..."
Quanto questo luminoso pensiero fu apprezzato lo rivelò la sua stizza, che già annaspava nel suo stesso fondo, alla ricerca di reazioni. Immaginai con sollievo che l'entrata avesse già diradato la curiosità generale sul mio stato di forma psico-fisica. Per via di compensazioni potevo vantare un ardente desiderio di corsa a ostacoli, giù per le scale.
Lo spilungone s'eresse accomiatandosi, svanendo sulla rampa discendente, da fortunato opportunista.
Monia ci si avvicinò.
Il fiato tornò ad un semplice richiamo.
Si certo, Stefano aveva delle cose da dire, e non si esimette.
2 Placatasi la cortese partecipazione alle cose che Stefano andava raccontando, dopo un minuto di stanco silenzio, tentammo di sondare una qualsiasi direzione d'un qualsiasi discorso, lui inesauribile, io compiacente. Scendere all'università per dieci minuti di chiacchiere sembrava incongruente persino a me, ma ormai non potevo abbreviarne l'iter; se pure potevo fingere di non aver tratto alcun interesse dalle storie di Stefano, non potevo impedirmi di avvertire torpide le gambe e fiacche le labbra che avevano tenuto in stand by un sorriso di basso profilo. No giuro, a ventidue anni non ero così; ne ero allo stesso tempo compiaciuto e dispiaciuto.
Di traverso, Monia mi fu presentata. En passant.
Salve, si, insomma, ciao, che cosa vuoi di più. Mi detti l'impressione di una radio da sintonizzare sotto le dita di un bambino poco interessato alla musica. Emisi qualche suono, giusto per esistere a memoria.
Ronzante, ed incline alle vertigini del viaggio attraverso l'etere iperaffollato. Le cose che vidi non volli pensarle compiutamente, giacché poi non differivano molto da quelle che ciascuno pensa compiutamente.
"Ciao"
Quattro lettere, due labbra che lasciano trasparire funzioni primarie dietro il velo insolente della grammatica.
Perché la memoria non m'assiste ora? Dice che altre cose furono dette, e dice che una collezione s'inizia sempre tardi. Quantifico ora in pagine la pretestuosità della mia vita intera. Qualcosa talvolta si lascia intuire oltre il banco molle di nebbia, qualcosa di giallo dietro il grigio, sull'orlo d'un precipizio.

3

"Ciao. Sono Monia"
"Monia?"
"Monia. Emme-o-enne-i-a"
"Monia..."
"Monia, esattemente"
Pausa - dieci secondi al massimo. Un'interferenza in sottofondo, rumori provengono da un luogo che presumibilmente è una casa, un cane guaisce.
Se mi fingessi un segnale in morse rischierei d'esser persino inteso. Dunque aspetto. E' l'atto secondo. Prematuro.
"Ce n'è voluto, mi hai riconosciuta adesso?"
"Certo, Monia"
"Sorpreso?"
"Il mio numero?"
"Stefano"
"Bravo ragazzo"
Un artiglio metallico fruga nel ventre, trafuga parole sopite, come ad una pesca di beneficenza.(E' forse bontà quella che spinge una persona a rispondere al telefono? O c'è piuttosto una promessa in sospeso? Ad ogni modo, il telefono costa troppo. Più a ricevere, che a fare).

"Quindi, se ben conosco la funzione del telefono, tu dovresti essere nelle condizioni di estrinsecare un messaggio"
"Auguri"
"E, di grazia, com'è questo dato in tuo possesso?"
"Stefano"
"Mascalzone"
Fare dunque il 'puro' fuori tempo e sorprendersi di come non si riescano a segretare gli affari propri? Tra l'altro potevo accoglierla come un'informazione riguardantemi.
"Sai anche quanti anni compio?"
"Ventisette"
"Che facevi?" mi chiede.
"Senti però. Non ci siamo conosciuti - non so quanti anni hai tu - ma, diciamo, per ventidue-ventitrè anni. Ora tu mi chiedi cosa io stia facendo adesso. Ci ho messo un po' di tempo per arrivare qui, certo magari talvolta non è stato troppo difficile, però ora ci sono. Non che sia totalmente senza significato, o come si dice, di valore, ciò che faccio ora. Però mi chiedo, ti mancano le connessioni - e forse l'intero conserva ancora una sua preminenza rispetto al brandello irrelato dell'occasione"
"Cosa vuoi dimostrare?"
"Leggevo"
"Cosa?"
"Un libro"
"Sì questo l'immagino"
Dissi cosa leggevo (Hegel, "se si era capito"). Ma in realtà da già dieci minuti avevo abbandonato la lettura, e guardavo fuori dalla finestra. Avevo deciso di ricambiare il suo sguardo annoiato.
Una Fiat Ritmo aveva da poco fissato un'esatta planimetria di cucciolo di gatto all'asfalto. Altri gatti continuavano a frugare nei cassonetti, indisturbati.
"Um..sul leggero"
"E tu che facevi?"
"Mah, niente di particolare. Chiacchieravo con mia sorella"
"Qualcosa in vista?"
"Non per oggi"
Già a quel punto le riserve di deutoplasma segnavano il rosso.
"Scusami ma il telefono non mi rende particolarmente simpatico, e ancora meno un compleanno. Per quanto in realtà possa non fregarmene nulla né dell'uno né dell'altro sono abbastanza convinto di non volerci ricamare troppo"
"Capisco. Ciao allora"
"Ciao" - click -
Il Senso non sarebbe Senso se non fosse talmente elusivo.
E naturalmente non serve mettere insieme dei semplici segni.
Rimasi ai margini del marciapiede attendendo che il traffico mi facilitasse quell'improvvisato servizio funebre, tanto meccanico da conferire un po' d'autorità alla mia serata. Attesi venti minuti invano, appoggiato alla lamiera d'una Ford Fiesta rossa. Arrivato che fu il proprietario mi ripromisi di scendere in strada dopo mezzanotte.
L'Estate era questione di giorni. E così Monia.
4 Il calendario nessuno lo guardava, ed il calendario non ricambiava.
Piastrelle di ceramica, bianche, lisce, fresche; mi rotolavo sul pavimento come fosse coperto di piume, e una meravigliosa polvere, leggera sulla pelle che reagisce impercettibilmente ed infastidisce, sicché mi lavo la faccia e mi ci voltolo ancora, dimentico che quando si acquisisce un'abitudine occorrerebbe, per preservarne il piacere, preservare tutte le condizioni che la rendono possibile. Il mio destino era naturalmente mia madre (poco quotato), o una donna (meglio quotato).
Il lavello bianco, fresco, liscio, e umido.
Lo sporco è parziale, e se non guarda nessuno, neppure sporco. Sunday morning, Luglio, sinfonie di grilli, a cui mi aggrego, le piante in balcone sudano, e le api sono assetate.
Quando scompare l'ultimo resto d'ombra vorrei fare un giro in cielo, ma senza alzarmi da terra, che è roba da aeroplani, ma solo così, chiudendo gli occhi e riaprendoli come se niente fosse, pigro sulla Terra che dorme in un eterno appena cagliato di intenzioni. L'uniformità del cielo è un'immagine insostenibile da quiggiù.
C'è caldo ed i sogni sono poco pretenziosi, riposano lievi sugli scaffali. Rombi di motori si spengono a pochi centimetri davanti a me, cinguettando. Non ho amici che potrei aspettare all'improvviso, che ricordi.
La carne è attaccata ancora saldamente alle ossa, ed è poca. Non sudo. Squilla il telefono, m'alzo, ritorna l'ombra, e mi segue.

"Pronto?"
I grilli, instancabili, e la mia voce solitaria, come sfondo dello sfondo.
"pronto?"
Polvere, sulla cornetta. Starnutisco, panico nelle coane.
"Suvvia"
Quasi approfitterei del silenzio di chi respira all'altro capo. Gli racconterei qualcosa della mia immagine di lui. Ma è un respiro irregolare, e mi aspetterei che pianga improvvisamente. Non sembra un respiro che sappia farsi troppa forza, e consolarsi. Perché è Domenica, domenica mattina, ed io non oserei mai dire 'improvvisamente'.
E' una tregua, ci sarà una qualche piccola cosa che hai messo da parte per oggi. Da fare anche solo.
Da fare solo.
Anche per questo sarebbe utile familiarizzare con i grilli. Andare a scovare gli acari, che semmai esistono sono sempre nascosti, mangiano indisturbati.
O, insomma, procurarti un cane, un gatto. Portarlo a cacare per sentieri di campagna, un'intera vita nel cestino della bicicletta. Ci sono fiori, se non li disturbi.
"Beh, ciao allora".

5

Così passano le mezz'ore, quasi due, che un po' m'addormento per terra.
La chitarra è accanto a me, all'altezza della mano destra, in cucina; non la ghermisco dal suo stato di quiete, però potrei, ed è già molto. Se starnutisco, lo spazio covato dalle sue esili pareti di legno lascia echeggiare per brevissimi istanti il suono favorito dei miei germi personali.
La gente che non ha mai tempo fa pochissimo mi torna in mente, approssimativamente, e per scusarmi, perché sono appena sveglio, sveglio a malapena, respiro male. Starnutisco. Una volta, due tre e quattro, e la scoliosi è sul punto di rilasciare l'arcuatura dello scheletro e scagliarmi come freccia del mio stesso arco su per il cielo, attraverso la finestra.
E la gente che ha soltanto il tempo? Forse fa tutto quello che potrebbe fare, e non è certo molto, sintanto che io pensi a come procedere in questa frase.
Si potesse almeno essere spiati, trovare per caso una telecamera nascosta nella living-room, o nel cesso, dal fondo della tazza. Un tipo soggetto a nostalgie. Allora la recita si colorerebbe di nuovo. Ma è come se al Grande Fratello non importasse più. Capita a chi è sicuro dei propri mezzi fino alla supponenza. Suppongo anche questo.
Abbandonati a noi stessi. Prima conoscevamo il padrone, quegli stronzetti a cui toccava pagare un conto sempre maggiorato, giusto per creare un'intesa con amichetti appena appena invisi ai tuoi genitori, rigorosamente "centristi".
M'alzo di scatto, come dovessi fare qualcosa d'urgente, che però appena in piedi ho dimenticato. Inizio a fare una lista delle cose che potrei aver dovuto fare. Nessuna sembrerebbe aver potuto richiedere urgenza.
Corro verso il balcone. Guardo dov'era il micio. Rimane un alone, un'ombrettatura che sarà (se sarà) scambiata per una macchia d'olio.

Ovattato giunge il suono del campanello.
La lingua scansa per un attimo il cuore dalla gola per prepararsi a supplicare chi è? Mi sciacquo la faccia, guardandomi allo specchio, mi preparo: Monia chi?

6

"Monia"
E allora? Requisito sufficiente? Osserviamo le mani muoversi per comprendere il loro stato, le loro predilezioni, le risposte agli stimoli improvvisi.
Riflessi; ecco l'acconciatura che spesso decide di vite lunghissime. Il segnale acustico aveva agito da martelletto di pianoforte, e quella era con tutta probabilità una visita medica, inficiata in partenza dall'avere le donne più familiarità con gli infiniti metodi di inoculazione della malattia. Inizi a fare i test dei settimanali a dodici anni, e a ventiquattro non puoi che rappresentarti il mondo un'accozzaglia di quattro cinque risposte possibili ad una domanda per lo più futile. The best minds of my generation. Distrutte dall'edicola.

Il campanello ha appena suonato. Sai che dietro la porta c'è Lei. (Lei chi? Perché maiuscolo?)
Cosa fai? In ordine di gravità:
1)Apri e la baci appassionatamente
2)Apri e la saluti cordialmente
3)Non apri
4)Apri e richiudi
5)Apri e le fai notare che il vestito è orrendo

Per Lei. Hai appena suonato alla porta di Lui. Ti ha aperto e ti sta davanti. Cosa fai?
1)Lo baci appassionatamente
2)Lo baci fingendo qualcosa d'importante da dire
3)Volteggi avvolta nelle spire del tuo nuovo bellissimo vestito
4)Brutto sarà il tuo vestito, cafone
5)Per un qualche motivo che non stai a spiegare, perché poi non ricordi che idea avessi, cambi idea
Perché proprio Monia non la si sarebbe potuta immaginare vestita con gusto. Uno dei prezzi del coltivare solo amicizie open-minded. Menti così aperte da sembrare bramose di decerebellazione, salmodianti il "sempre valido" de gustibus con l'aria di chi rechi in petto, con fatica, una tragica rivelazione. (Se se n'avesse la possibilità, occorrerebbe spendere qualche soldo in più per un vestito che ci piace; specie perché impedisce d'acquistarne più di uno).
Con Monia però era difficile rendere offensive sortite sul gusto. Se è vero che ogni donna si veste conformandosi preliminarmente al gusto dell'uomo, lei era (e tristemente) come fosse agita da rivendicazioni di genere. Che fosse nata, ed in più femmina, era la cosa per cui ogni uomo avrebbe pagato gli straordinari.
Indossava un bel pantalone d'una sottile trama dalmatata, una camiciola di satin nero piuttosto scollata, e, fosforescente allo zenit dei desideri, un reggiseno affaticato bianco. I suoi lineamenti risultavano da tali premesse, oltre che da un certo imbarazzo che altri ulteriori secondi di silenzio avrebbero trasformato in vergogna.
Me n'accorsi e tacqui all'uopo.

Quello che non m'andava era che venisse fino a casa per intimidarmi con quell'aria intimidita. Il suo aspetto era decisamente incongruente rispetto al gesto. Si sarebbe detto che fosse alla ricerca di un po' di coerenza. La trovò chiedendo:
"Che facevi?" Esistono studiosi di psicanalisi. Ed esiste chi, come me, trova noioso persino sognare. Comunque sia, credetti che stesse volontariamente cercando di rinfocolare un'abitudine. Nel corso del nostro breve tempo avrei scoperto che la volontà, che taluni considerano determinante come indiviso movente di azioni, in alcuni casi - fra cui questo non solo rientrava, ma invero, ergendosi nell'incontaminata purezza del simbolo, sovrastava tutti gli svariati altri di mia conoscenza - si lascia talvolta portare a spasso da un'intenzionalità radicalmente separata dal suo cliente.
Che di questo Monia avesse coscienza, non è qui determinante; il gusto, la sensibilità sono degradate a mere funzioni di una parte. Non decidono, ma mentre sperimentano la massima partecipazione ad un fine 'secondo' celato nella 'decisione', si scoprono, non senza fastidio, agìte insondabilmente da un centro di forza che localizzare nel famigerato utero è ben misera sineddoche. Se non odiassi le donne sin dal mio fondo primitivo non potrei desiderarle. "Rotolavomi sul pavimento", ma in realtà da già dieci minuti avevo abbandonato quella pratica, e guardavo fuori dalla finestra.
Qualche giorno prima una Fiat Ritmo aveva da fissato un'esatta planimetria di cucciolo di gatto all'asfalto. Gli altri gatti avevano continuato a frugare nei cassonetti, indisturbati. Un già visto déjà vu. Un déjà vu forzato alla seconda...o dovevo ammettere che un imprevisto accadeva per la prima volta? Bimbi accorrete, guardate, c'è Monia in televisione. La nostra Monia, in televisione.. capite! Cristo gli anni sono passati anche sul video. Sembrano meno, ma cazzo.

"Oh" era il suono più squisitamente nulla che avessi mai sentito, e lei l'aveva emesso.
"E lavavomi la faccia. Un modo come un altro per fare le pulizie".
"Sembrerebbe un po' seccante".
"Non mi costa troppa fatica. Sin da piccolo mi chiamavano 'manico di scopa', per via della magrezza unita all'altezza. M'immedesimo facilmente. Entra, la casa è pulita".
Chiusi la porta e mi feci guidare dal suo istinto di curiosità. Il sedere maculato mi fece strada attaverso il corridoio, ed infine scomparve sul divano del salone con un pluff abbastanza piacevole da udirsi.
"Eccoci qui, direi" dissi "espressione da primo giorno di scuola sul tuo viso".
Ora plausibilmente c'era qualcosa da dire. Non si guardò intorno.
"Da quant'è che vivi solo?"
"Da quando ho iniziato a pagare l'affitto, la luce, il gas, il cibo, il canone del telefono - perché non telefono quasi mai -, le tasse, le spese di condominio; da quando il mio nome è diventato una cosa utile da scriversi sul recapito della posta pubblicitaria, sull'elenco telefonico, sul registro degli indagati e su indirizzari di varia natura. Un consiglio a voi del cancro: rimanete a casa con i genitori"
"Sono dell'ariete"
"Io del capricorno, allora?"
"Niente, per la precisione, non credo agli oroscopi" Sapevo che la triste contingenza ci avrebbe privato di almeno dieci minuti della nostra carriera di interlocutori. C'è stato tempo, in ventisette anni, per apprendere quali fra gli svariati argomenti 'sicuri' siano da privilegiare al primo, al secondo o al terzo incontro con un'anima femminile.
"Credevo non ti dispiacesse un po' di approssimazione"
"Da cosa lo deduci?"
"Questo non posso dirlo"
"Ma io insisto"

Un minuto trascorse silenziosamente. Pensavo pensasse che stessi pensando alla risposta. Poi ruppe il suo cipiglio:
"Allora?"
"Non granché come insistenza"
"Oh, ma posso fare di meglio. Sì dunque, ti prego, dimmi, te ne sarei grata" recitò.
"E' per via del tuo abbigliamento"
Ci pensò un attimo poi proruppe pseudoindispettita: "ti sembra approssimativo?"
"Non esattamente. E' disgustoso"
Ciò che ora segue fino alle caporali di chiusura va letto senza intervalli fra una parola e l'altra: "ma che dici - guaì - il mio pantalone è bellissimo, lo stesso dicasi della camicia, non senti com'è sottile e delicata al tocco? - mi fece palpare - guarda, al massimo te lo permetto per le scarpe, ma solo perché mia sorella s'è presa quelle che stanno benissimo con questo pantalone, ma queste non sono tanto male, le ho comprate a Varsavia l'anno scorso, e sono comodissime..."
"Vedi di non sgretolarmi troppe certezze. Vivo solo, io. Passi pure Varsavia (a proposito, mi fa piacere che ci sia stata), ma scarpe comode e belle, tutt'e due cose insieme..."
"Ho sempre indossato scarpe comode, prima che belle" ringhiò.
"Ma scusa, come fai ad arguire che siano più comode che belle? Dovrebbero essere qualità conviventi. E potrebbe darsi che se fossero state meno - diciamo - 'belle' non le porteresti ora, e così anche se fossero state meno comode, perché questo te l'ho ormai forse troppo benevolmente concesso"
"Ti rispondo con sicurezza che se fossero state meno comode non le avrei prese"
"E se fossero state meno - diciamo - belle?"
"Ne avrei cercate delle altre più belle e ugualmente comode"
"Era quello che volevo sentire. Non che stia svolgendo un'indagine di marketing, ma hai appena ammesso che è più importante siano belle, che comode"
Mi piaceva la volgarità dell'agomento, mi andavo convincendo che quella non fosse la posizione corporea migliore per portarla a termine.
"Per nulla - e vediamo di finirla con questo argomento - ho detto semplicemente che ne avrei cercate delle altre più belle e ugualmente - se non più - comode. Quindi le scarpe di cui staremmo qui a parlare sarebbero lo stesso comode e belle. E non più belle che comode, ma tanto comode quanto belle. Ti basta?"
"Si ma, uno, non è detto che le avresti trovate, queste scarpe perfette, e due, se avessi dovuto scegliere..."
"Non le avrei scelte, o le avrei cercate in un altro posto"
"Questo non risolve, ma rimanda"
"E' possibile" ammise.
"Dunque?"
"Dunque chi se ne frega"
"Mi sembra saggio. Pace"
"Pace" concesse.
Scemata la foga dialettica la conversazione prese una piega più morbida. Le feci vedere la casa, e m'aspettai che la trovasse carina. Non disse nulla.
Non disse nulla neanche a proposito del motivo della visita, così che n'ebbi stupidamente la certezza.
Fregola estiva? E se era veramente così, bisognava attendere tempi più propizi. Pensavo così, e credetti di averne fissato il termine approssimativamente in una mezz'ora abbondante, ma cosa? Qual'è la cosa in questione? Qui intervengono i manuali.
Ciononostante la mente ama barcamenarsi in una finta vanità. O per lo meno, è finta esattamente quanto è vero ciò che vela.
In sostanza (non potendogliene chiedere subito conto) non riuscivo a comprendere del mio umore questo particolare aspetto: non averne eventualmente voglia era sintomo di vanità (senz'altro) o di una mancata carburazione dei posticci effluvi che promanava il suo corpo? Essere contrariato da quella che sembrava essere la sua esclusiva determinazione di fare la mia conoscenza mi rendeva agente o paziente di quel pomeriggio? Un pomeriggio passato a parlare di qualcosa di cui non solo non poteva importarmi, ma di cui, soprattutto, non riuscivo a capire perché, mentre parlavo, possedevo una diversa considerazione. Mi ero accapigliato nella conversazione come se i dati che alla fine ne avrei tratto, mi avrebbero fornito una qualunque chiave. Al solito una chiave per.
Se la resistenza alla seduzione deve proprio essere figurata come una guerra, credo di potermi scagionare sospettando che io stessi lì nella parte del maschio, ben oltre quella più asfittica di me in quanto nome e cognome. In quanto maschio ero piacevolmente destinato a riconoscermi vinto - per qualunque risoluzione optassi in proposito. In quanto Alessandro, scelsi una via mediana. Feci qualcosa la reazione alla quale mi avrebbe svelato meglio le sue intenzioni. Meta-conversazione:
"Allora, ricapitoliamo. Una ragazza conosce un ragazzo, e diciamo che le piaccia lasciar intendere che questo si avvenuto casualmente. Hanno un amico in comune, e questo ci permette di operare la lieve forzatura di crederlo possibile. La suddetta ragazza si procura il numero telefonico del ragazzo, e brillantemente lo sposa all'occasione del suo compleanno, la cui conoscenza, sempre per via dell'amico in comune, possiede casualmente. Ma, o il numero di telefono, o la data del compleanno, per via di un forfettario calcolo delle probabilità, non è in suo possesso casualmente. Un osservatore esterno avvezzo alle sottigliezze chioserebbe che, nella bruma avvolgente di un mondo composto di atomi che urtano fra loro casualmente, sia nascosto un clinamen tutto fuorché ingenuo. Va bene fin qui la ricostruzione?"
"Oh, sintatticamente fila. Non lo so, prosegui"
"Mettiamo che sempre lo stesso ragazzo, qualche giorno dopo, riceva una telefonata 'muta'. Da quando abita da solo a casa sua, e ha cambiato numero di telefono, non ne ha mai ricevute. Tra l'altro i suoi amici sono gente estremamente pragmatica, poco incline all'auscultazione del silenzio, o se lo fanno, ne sono gelosi al punto da non volerlo condividere.
Il ragazzo, nonostante non ami cedere al primo impulso a buon mercato della sua mente, si è formato la convinzione che l'autrice sia la ragazza che ha da poco conosciuto. Proprio quando questo pensiero sta per abbandonarlo, la ragazza, che, oltre al numero di telefono possiede anche l'indirizzo del ragazzo, va a trovarlo a casa. Certo, in termini imparziali, non vi è alcuna connessione fra questi eventi, eppure, qualcosa di più intuitivo fornisce al ragazzo la certezza assoluta sulla paternità di questi"
"La ragazza dovrebbe dunque confessare la verità a Sherlock Holmes"
"Ad esempio. E' una delle soluzioni, anche se non l'unica"
"Tra queste potrebbe esserci che la ragazza non ha mai fatto una telefonata 'muta' al ragazzo" "Vedo che mi segui, e questo mi fa piacere"
"Anche a me" berciò con delizioso disappunto.
Ripresi: "una piccola variante potrebbe consistere nel fatto che la ragazza sappia di non poterlo confessare senza dovere aggiungere un'ulteriore spiegazione, della quale non ha però la minima voglia. Eppure, anche lasciando cadere come illazione la telefonata, il ragazzo è in possesso di informazioni che, da sole, lo autorizzano a chiedere spiegazioni alla ragazza. Inoltre non è per nulla disposto a sentirne di troppo razionali"
"Purtroppo però, dovremo rimandare" Se m'intendevo di ciò che di più avvilente c'è al mondo, trovai molto antipatico che avesse cambiato la terza persona in una prima. Che se ne volesse andare lo trovai persino ragionevole, anche se non immediatamente. Tanta fatica e gusto profusi per quell'incantevole mise tutto per un pomeriggio di meta-conversazione era decisamente incongruo, ma, posso dire a mia discolpa, non rientrava nei miei piani.
Allo scadere dell'ora - che in seguito scoprii soltanto concessami - addusse una scusa a proposito di un impegno pomeridiano e volle essere accompagnata alla porta. Ciò non mi dette modo di trionfare su di me, e neanche di uscirne sconfitto; in realtà dovevo ancora compiutamente schierarmi.

"Che farai?"
"Mi cucinerò qualcosa"
"E poi?"
"Forse la mangerò"

7

Si è sempre inadeguati a descrivere ciò che non si può fare a meno di voler descrivere. Non c'è forse nulla di più veritiero di una compìta descrizione di un oggetto indifferente, di un avvenimento che in nulla ci tange e per nulla tangeremmo, in occasione di un umore ciarliero e senza speranza.
Vivere dentro il proprio corpo ventiquattr'ore su ventiquattro richiede invece una sottile arte della bugia che non v'è miglior modo d'apprendere che desiderando. Le bugie raramente mentono, e quando s'assumono come succedaneo d'una verità troppo interna - ch'è sconveniente enunciare - ogni franchezza non può che suonare crudele.
Rinunciare all'evoluzione della menzogna, non sapere o volere più mentire, e dire il vero per tacere l'essenziale; è questo l'orrore che il tempo schiude a chi troppo ha rubato nelle stanze segrete dell'esperienza. Uscirne al più presto, in dispregio della conoscenza.
Solo allora le parole riacquistano fluidità, e fluidamente ricoprono i ricordi d'esatta approssimazione, prendendone soltanto ciò ch'essi diventano; immagini che solo un'orrenda solitudine riesce a illuminare di luce che sbiadisce, di senso che declina, di tutto che s'annulla. Capite che bisogna fare presto, anche rischiando di sovrapporre troppe cose. S'inizia sempre dalla fine.
Si finisce saggi, o folli, che è distinzione trascurabile dinanzi alla necessità di finire.

8

Non passò molto, zanzare, birre gelide, l'accogliente ventre del buio, sul terrazzo, dondolando. I giorni, sei macchie nere ostacolate da escrescenze rossastre, e gente che si muove per piccoli perché, automaticamente, intercambiabile, e si sente trascurata se non glielo si rimarca. Ecco Daniele e poi Clint Eastwood, in nuovi bei modi di fare la spesa, suggerendo che occorre arte, e raziocinio.
Non lo dimenticherò mai.

-Sei licenziato.
-Non puoi licenziarmi, me ne vado io.

Forse sapevi anche questo, Monia. I tuoi occhi tralucono anche di questo, di troppi pomeriggi troppo uno dietro l'altro senza nulla e nessuno ad adorarti, come ogni essere umano anelerebbe per sé. Guardi il mare e non vedi che qualcosa che striscia ai piedi di troppi. Lo rimproveri, dandoti la risposta, e v'ignorate a vicenda.
Poi di notte immagino la tua vita, non tutta insieme, ché non m'importa, ma solo quell'ora, forse neanche, in cui è possibile vederti dietro cespugli verdi, al crepuscolo, le gambe penzolanti dalla roccia intarsiata di forme marine a caso che tutte insieme fanno un bello sfondo, e l'unico rammarico è non esserci stato, a spiarti: stai pensando con odio a tutti quelli senza volto che non ti conoscono e che segretamente odi. Soltanto quelli che ti conoscono e non sono morti e non morirebbero per te si sono macchiati di una colpa peggiore. Forse è il bel posto che solo tu conosci ad ispirare la tua poesia egolatrica; dalla finestra da cui spio capricciose e seducenti figure vorrei soltanto bloccarti per un quarto d'ora. Il resto dovremmo guadagnarcelo. Per fortuna, posso volerti solo quando non ci sei. Se ci sei, mi sei di troppo, come una didascalia a margine di un pessimo testo di psicologia. Di te mi rimangono, prima ancora di volerti perdere, vestiti sparsi accanto al letto della mia mente, una camminata poco elegante che dona movimento a un tronco d'albero cresciuto mozzo senza l'intervento di alcun taglialegna, lenzuola senza odore e senza ricami.
Trovo questo ricordo già confezionato in una bottiglia di birra da supermercato, nelle sagome illuminate artificiali dei vicini che si stiracchiano davanti al televisore, e l'ultima cosa che possa passar loro per la testa è che io li osservi dal terrazzo. Rubo loro solo i piccoli movimenti, e mi sorprendo che ce ne sia ancora urgenza.
La mamma si alza e prende una crema, di cui si cosparge prima le braccia, poi il collo, ed infine le gambe.
Papà la guarda solo per un attimo, perché ama distrarsi e ha sentito dire che occorre distogliere gli occhi dal video di tanto in tanto per non affaticarli troppo. Seguiamo lo stesso programma, che è l'unico modo per non sentire rumori estranei. E' un po' tardi per i bimbi.
E' tardi, sembra, per qualsiasi cosa, sotto la luna.
Dalla mia posizione intravedo il fascio di luce proveniente dal bagno, che ho dimenticato di spegnere. Si getta per terra adorante, scavalca silenzioso il divano oltre la vetrata, quasi a indicare dove sarà più dolce desiderare di andarsene per una notte.
Tutto è al proprio posto, e tutto tace.
Il vento leggero, l'umidità sulla pelle.

9

Appena sveglio il giorno seguente, le scrissi una lettera, metà sul letto, metà sul tavolo di cucina.
Per fortuna, rileggendo, non era trapelato nulla che potesse far balenare l'idea che l'avessi scritta. A me che la scrivevo ciò appariva quasi normale. Una lettera in quanto lettera, soddisfazione appena un po' sfocata. Dovevo pagare pur sempre le riparazioni di guerra, dovevo perdere almeno un po', cazzo, sennò non c'è più gusto.
Feci colazione, e mi preparai per uscire ad imbucarla. Strana cosa, quasi impaziente d'imbucare una lettera, per affidarla a mani neghittose di postino, aspettando qualcosa di irrimediabilmente sottratto alla vista.
Avevo bisogno però di seguire un nuovo filo di pensieri, calcolare al millimetro tre o quattro percorsi da seguire, sperando di incrociare casualmente la strada non tracciata.
La Vespa, le strade semi-vuote che sono sempre semi-piene come il famigerato bicchiere per novizi dei segreti della psiche.
Sono queste le cose che mi rimangono di Monia, che avrebbe dovuto giocare un altro po' e che invece era già sazia.
Era la strada ed i gatti veloci sotto le auto in sosta, un vecchio tabaccaio acconciato alla Little Tony con mani tremanti che strappano un francobollo da una paginona custodita sotto chiave (e mi dispiaceva, perché non avrei mai pensato a sottrargliela), il lento cerimoniale dei piccioni sui cornicioni smerigliati incatramati vecchi soffocati dall'età prima ancora che dal caldo immobile ai balconi, che non parlano, che non hanno più niente da dire che già non sappia chi condivide con loro quel piccolo spazio sul mondo. Il mondo non interessa più tanto, se non nella certezza ormai quasi solo intuitiva che, come Dio, c'è, e che gli si appartiene anche soltanto da lassù in platea, ci si rende visibili. L'abbraccio torbido dell'afa dipinge uno spasmo appena velato sulle grinze del volto, perso nella curiosità delle vite sottostanti, come fosse televisione...
In realtà anch'io sono lassù, mentre qualcuno s'approssima furtivo alla cassetta rossa, e vi lascia scivolare dentro una notte insonne.

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