Nel regno dei ciechi i guerci regalano Godard



Nel luminoso reame della carta stampata, paese i cui confini sono segnati da ogni sorta d'abisso, l'esatto luogo in cui l'evento è riconducibile alla sua interpretazione, banchetto privilegiato dell'Occidente che divora sé stesso e le macerie della sua "razionalità" gustandole come un pranzo regale, qualcosa di nuovo sta succedendo. Questo è il solito menu: notizie di prima amno e tempestivissime, scoops, incremento dele vendite.
Ma ecco la gustosa novità: gadget culturale accluso.
Non abbiamo più bisogno di inseguire Godard, sperimentare quel grado partecipazione che si muta in ricerca essenziale: oggi l'Espresso ci consente di non sviare dal nostro beneamato sentiero quotidiano, ci preserva dall'incontro con il fatidico lupo: eliminato il bosco, si sfratta il suo più genuino abitante, lo si costringe ad un esilio nella chiarezza ed evidenza della nostra funzionale urbanistica fascista. Nessuno teme quel lupo; ma è pure chiaro che la guerra per la successone è avviata.
Rossetto o profumo, poster dei Take That o riduzione di Pasolini dentro una videocassetta "omaggio", la strategia di marketing è sempre un metodo per la seduzione: si sosta davanti all'edicola per specchiarsi.
Nulla sembra attualmente più di moda che far quadrare i conti.
La stampa ci riflette (nell'unico senso che riflette noi, acquirenti, presumibilmente abbastanza poveri da riservare millecinquecento-tredicimila lire per la nostra ricchezza) e noi riflettiamo quell'immagine già riflessa della nostra riflessione.
La paura delle testate di rimanere indietro, di essere scavalcate nelle vendite da una qualunque altra pubblicazione che della mignottagine ha acquisito più velocemente l'arte - esclude dalle infinite possibilità il rischio, la radicalità di ogni gesto individuale, la pienezza della firma, l'eclamativo della possibilità stessa.
Non possiede il richiamo ammaliante di un gratta e vinci eppure la videocassettina innocuizzata domestica è pur sempre un buon viatico ad una fortuna che verrà: un investimento per un futuro che ci si rivelerà senza che nessuno lo cerchi. Questo lo chiamo: rubare il mestiere a quei tanti giovani dall'indigenza sfruttabile che trascinano di uscio in uscio la loro Treccani, pronti a loro volta a sfruttare la finta ingenuità della debolezza della nostra ignoranza, quella debolezza che si appaga nell'acquisto, scongiurandosi all'infinito.
"Non si finisce mai d'imparare" e di acquistare aggiornamenti, verrebbe da aggiungere. Si ritrova l'impressione di un evento esterno che risollevi dalla miseria della vita: si affollano le edicole (evitando l'orpello cutuale della genuflessione) e si insegue nell'apparente diversificazione delle proposte un sogno di libertà, un paradiso della scelta.
C'è anche il bisogno di sentirci più colti dei propri nonni, nell'evidenza di essere più corteggiati: in realtà siamo più brutti, più fermi e ci accontentiamo che qualcuno voglia assomigliarci.
La vanità è così salva. La conformità è oggetto di imitazione: più ci si conforma, più la realtà si conforma a noi: vanità onnipotente.
Ognuno è il centro del suo universo in contrazione. Forse non ci sarà il tempo di vederli tutti questi capolavori del cinema "proibito" (sic), ma intanto conviene comprarli, sempre che si sopporti la spesa inutile del giornale accluso.
Lo specchio riflette un altro specchio e ciò che si scorge (sempre che qualcuno, mettiamo un individuo sopravvissuto, voglia guardarci dentro) è un nulla moltiplicato per sé stesso.
L'infinità vanità del tutto sotto forma di soprammobile.


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