Riflessioni e intenzioni:

 

1)      La poesia e il lettore

2)      I bambini e la poesia

3)      I bambini e la felicità

4)      La poesia (riflessioni di uno che scrive poesie per gioco)

5)      Dalla parte dei bambini

6)      L’essenziale e l’accessorio ovvero Saper fare il riassunto

7)      Scuola unica pluriclasse

8)      In aiuto dei bambini

 

                                               LA POESIA E IL LETTORE

 

Credo si possa dire che la poesia nasce col linguaggio. Fin dalle epoche primitive gli uomini hanno praticato cerimonie durante le quali, in forma colletiva, si cantava e si danzava, dando a queste azioni significati rituali e anche magici. Lo scopo era quello di esorcizzare la paura degli eventi negativi, di coltivare la speranza in eventi positivi, nonché quello di stabilire un rapporto e acquisire la benevolenza di immaginarie divinità ipotizzate dietro ad eventi inspiegabili.

 In altre parole si esprimevano dei sentimenti ma anche, in qualche modo, si cercava di acquisire conoscenza cercando di spiegare con l’intervento della divinità fenomeni non altrimenti spiegabili.

 In realtà anche oggi ci sono autori (vedi Jerome Bruner “Saggi per la mano sinistra”) che vedono nella poesia una sorta di “metalinguaggio” che, mediante similitudini e metafore ardite riesce a stabilire rapporti fra cose ed eventi anche molto distanti, pervenendo, così, a conclusioni illuminanti cui neppure le scienze matematiche riescono a pervenire.

 Ed effettivamente il poeta con la sua opera non ci trasmette soltanto le sue emozioni e i suoi sentimenti ma anche la sua interpretazione del mondo e della vita. E, questa, è conoscenza.

 Ai giorni nostri il rapporto dell’uomo con la poesia è controverso. Mentre nei giovani il rapporto con la poesia è mantenuto, anche per merito della scuola, ed è, in genere, un rapporto positivo (si leggono poesie ma anche si scrivono poesie abbastanza frequentemente), allorchè l’adulto entra nell’età lavorativa tale rapporto, salvo eccezioni, si riduce fino a interrompersi.

 Interrogati sul perché, molti dicono che le poesie moderne sono difficili da comprendere, altri dicono che le urgenze della vita quotidiana non lasciano tempo per pensare a queste cose e che la poesia è cosa per chi non ha nulla da fare. E’ facile, però, ribattere che, malgrado questi impedimenti, anche chi lavora trova il tempo per leggere il giornale e qualche libro, anche se non molti. Ma non poesie. E, infatti, i libri di poesie non si vendono.

E’ come se si fosse interrotto il dialogo fra il poeta e il lettore. Che sia fondata la prima risposta  (poesie difficili) ? Forse i poeti non sono più interessati a comunicare con il lettore ? E scrivono soltanto per se stessi ? Sarebbe un peccato e un impoverimento della nostra cultura.

 Ma che cosa vorremmo trovare, noi comuni lettori, nella poesia ? Che cosa ce la rende gradita ?

Chiarezza ed essenzialità La poesia deve essere comprensibile ma non prolissa. Anzi, l’essenzialità è una qualità molto apprezzata. Il dire le cose col minor dispendio di parole è segno di chiarezza interiore e di notevole capacità espressiva.

Musicalità Ancora nella Roma imperiale la poesia veniva musicata e “danzata”. La rigorosa metrica latina garantiva una gradevole musicalità. Oggi molto spesso leggiamo poesie che sono soltanto prose distribuite su righe di varia lunghezza.

Connotazione Un uso diffuso del valore connotativo delle parole, le similitudini e le metafore riescono a mostrarci legami insospettati fra cose diverse, a mostrarci aspetti sconosciuti della realtà.

Ambiguità e mistero Senza che questo vada a detrimento della chiarezza, una certa ambiguità nei concetti, un certo alone di mistero, conferiscono solennità ai versi e stimolano in modo notevole riflessioni approfondite su aspetti della vita insondati.

 Ma forse tutto questo è un parlare senza senso e con un po’ di presunzione. Forse è per ragioni non conosciute e non spiegabili che qualcuno, di fronte a una poesia, si commuove e la trova bella e qualcun altro no.

7 marzo 2005                                                                     

 

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                                                I BAMBINI E LA POESIA

 

 Ovviamente nessuno pensa che si possa insegnare ai ragazzi a diventare poeti. Si può, però, tentare di far scoprire nelle poesie che i ragazzi stessi leggono, quelle che sono le “tecniche” usate dal poeta per ottenere il risultato, anche estetico, che si prefiggeva.

 Questo può servire per fare intuire come la lingua sia uno strumento flessibile e duttile, estremamente manipolabile, che consente interventi consistenti e che consente, soprattutto, di ottenere risultati pregevoli anche da un punto di vista estetico.

  E’ questo che, evidentemente, pensò, alcuni anni fa, un’insegnante milanese che ritenne di impegnare i suoi alunni di quinta elementare in un esercizio teso a far acquisire al più alto grado possibile per quell’età la capacità di esercitare la “funzione estetica” della lingua.

 Lo proponiamo come esempio:

 

Si parte da un testo prodotto dai ragazzi:

                                                           La piazza è rotonda.

                                                           In mezzo c’è una chiesa.

                                                           Dietro c’è una pianta.

                                                           Il sole splende

I ragazzi, analizzando diverse poesie, hanno precedentemente scoperto alcuni “trucchi” usati dai poeti per rendere esteticamente più gradevoli i loro versi. Hanno, così, individuato quattro criteri di intervento che hanno sintetizzato come segue:

1) Potenziamento informativo (dal più comune al meno comune)

2) Sostituzione/trasformazione (da espressione standard a espressione originale)

3) Sviluppo (ampliamento metaforico e metonimico)

4) Riordinamento (intervento sull’asse sintagmatico).

 Così si prova a sostituire le espressioni usate con espressioni meno comuni:

                                         La piazza è una conchiglia

                            In mezzo c’è una chiesa

                                         Dietro c’è un albero

                                         Canta il sole

 I cambiamenti sono sottolineati. Come si vede si è anticipato l’uso di una metafora (conchiglia). A questo punto si decide un ulteriore intervento per arricchire il testo con delle attribuzioni e delle predicazioni:                    La piazza è una conchiglia

                                         In mezzo c’è una chiesa bianca

                                         Dietro c’è un albero storto

                                         Sta all’ombra del campanile

                           Canta il sole

 Nel successivo intervento si continuano ad applicare i criteri di intervento precedenti:

                                         La piazza è una conchiglia

                                         In mezzo c’è una chiesa di gesso

                                         Dietro c’è un albero gobbo

                                         Dorme all’ombra del campanile

                                         Canta il sole

Facciamo ora delle associazioni per somiglianza (metafore) e dei collegamenti per vicinanza (metonimie):                    La piazza è una conchiglia

                           È una luna gialla

                                        In mezzo c’è una chiesa di gesso

                                         I passanti ondeggiano lenti

                           Un albero gobbo

                                         Dorme all’ombra del campanile

                             Il sole canta

Oltre alla metafora della luna gialla e alla metonimia del campanile (una parte per il tutto, che consente di eliminare la chiesa) si introduce un nuovo elemento, i passanti e, nell’ultima riga, si anticipa un intervento sull’ordinamento. Ed è proprio nel prossimo passaggio che si interviene sull’ordinamento e sui collegamenti:

                           La piazza è una conchiglia

                                         Una gialla luna

                                         Ondeggiano lenti i passanti

                           Un albero gobbo

                                         Dorme all’ombra del campanile

                                         Il sole canta.

Rivediamo, infine, la punteggiatura e la metrica:

                                         La piazza è una conchiglia,

                                         una gialla

                                         luna.

                                         Ondeggiano lenti

                                         i passanti.

                                        Un albero gobbo

                                        dorme

                                        all’ombra del campanile.

                                        Il sole canta.

E si ottiene, così, una dignitosissima versione del testo, che i ragazzi chiamano con orgoglio “la nostra poesia”.

 

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                                             I BAMBINI E LA FELICITA’

 

L’età infantile è generalmente descritta come un’età felice, e questo in moltissimi casi corrisponde alla realtà. Ma non in tutti i casi. Siamo tutti profondamente angosciati di fronte alle immagini agghiaccianti di bambini armati, costretti a fare la guerra, ovvero di bambini scheletrici coperti di mosche, che stanno morendo di inedia in molte regioni povere del mondo. O ancora di bambini abbandonati, o costretti al furto o all’elemosima……

 Queste immagini, che turbano il sonno di tutte le persone sensibili, mal si conciliano con lo stereotipo della fanciullezza “età felice”.

 E difficilmente ciascuno di noi, preso individualmente, può sottrarsi al frustrante senso di impotenza che avverte di fronte a queste tragedie lontane.

 Ma non sono queste soltanto le cause che possono fare, di un bambino, un bambino infelice. Anche vicino a noi, addirittura in noi stessi possono nascondersi le cause che minacciano la felicità dei nostri bambini.

 E mi riferisco a errori educativi o comportamenti inadeguati, spesso anche incolpevoli, commessi da genitori o da altri familiari, mi riferisco a situazioni scolastiche ove la inadeguatezza del personale o delle strutture rende penosa per i bambini la frequenza della scuola, mi riferisco, insomma, a tutte quelle situazioni in cui ai bambini non viene assicurata la necessaria serena protezione, non viene concesso un rassicurante sostegno, non viene garantito il rispetto della loro persona con una accettazione incondizionata e affettuosa, non viene elargito quell’affetto che porta gioia e serenità.

 Non meno angoscianti di quelle sopra ricordate sono le immagini di giovanissimi che hanno scelto la raccapricciante via del suicidio per sfuggire all’insopportabile infelicità causata da un insuccesso scolastico.

 Allora la domanda è : si può fare qualcosa per salvare dall’infelicità almeno qualcuno di questi nostri bambini minacciati ?

Il mio precedente inserimento dedicato ai “bambini e la poesia” mi ha procurato notevole gratificazione per l’attenzione che gli è stata riservata dagli amici del club.  E mi ha fatto anche felice nel constatare come molte siano le persone che amano i bambini e hanno a cuore la loro felicità.

 Ho anche avuto la sensazione che molti dei frequentatori del club dei poeti siano insegnanti, ossia gente del mestiere, gente che se ne intende. Ed ho anche pensato che, in fondo, tutti noi frequentatori del club costituiamo una comunità, sia pure virtuale, di persone che hanno interessi comuni.

 Sarebbe forse possibile lavorare insieme a un progetto comune ? Forse non proprio tutti insieme, ma un certo numero di noi con gli stessi interessi nei confronti del bambini io credo di sì.

 Per cui provo ad esporre il mio progetto e a raccontare ciò che ho fatto.

 Qualche tempo fa  pensai che avrebbe potuto essere utile un sito web scritto in maniera semplice e comprensibile da tutti, rivolto soprattutto ai genitori ma anche agli insegnanti (in particolare di scuola materna ed elementare), che potesse aiutare a capire i bambini e ad assumere i giusti atteggiamenti nei loro confronti . L’idea era di creare, poi, dei collegamenti con siti specialistici onde consentire, a chi lo volesse, opportuni approfondimenti. Così provai ad allestire un sito con queste caratteristiche, fidando anche  nella promessa collaborazione di esperti. Per vari motivi, però, le sperate collaborazioni sono venute meno ed io mi sono ritrovato solo e ho ritenuto tale impresa superiore alle mie sole forze.

  Così ho messo in rete il sito, ancora in allestimento e, quindi, appena abbozzato, affinchè gli eventuali interessati possano prenderne visione ed, eventualmente, decidere di collaborare. Come ? Anzitutto criticando e consigliando, ma anche inviando collaborazioni scritte per arricchire il sito. Credo che anche i racconti di episodi significativi potrebbero essere utili, per cui non solo gli insegnanti ma anche i genitori potrebbero avere qualcosa di interessante da raccontare. Naturalmente tutti i contributi potrebbero essere pubblicati col nome dell’autore. E il nome dei collaboratori apparirebbe in un apposito elenco.
L'indirizzo del sito è http://digilander.libero.it/faredirepensare

Spero di ricevere notizie.

 

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                                                                   LA POESIA

            RIFLESSIONI E CONFESSIONI DI UNO CHE SCRIVE POESIE PER GIOCO

 

Leggere poesie

Gli uomini della mia generazione si sono formati quasi esclusivamente sui classici:  poemi omerici, Dante e Petrarca, Tasso e Ariosto, Alfieri, Foscolo, Leopardi e, per quanto riguarda i moderni. Carducci, Pascoli, D’Annunzio. I primi assaggi degli ultimi tre si cominciavano ad avere alle scuole elementari: Molto Pascoli di Miricae e dei Canti di Castelvecchio, ma anche il Carducci di Pianto antico, San Martino e, talvolta, anche Faida di comune e, forse, altre. D’Annunzio era meno frequentato dai ragazzi delle elementari, ma era immancabile la famosa poesia sulla transumanza dei pastori abruzzesi e La beffa di Buccari.

 Poi veniva la scuola media con i poemi omerici e altre poesie, quindi il liceo con molto Leopardi e Foscolo e ancora il terzetto di cui sopra. E qui cominciavano a far capolino un po’ di Ungaretti e di Montale, vissuti da noi studenti come ultramoderni un po’ misteriosi.

 Certamente la mia idea di poesia è stata fortemente condizionata da questo tipo di formazione. Ancora oggi leggo con grande piacere i “miei” poeti di allora e, talvolta, mi sorprendo a recitare a memoria l’Alexandros di Pascoli, o Il centauro di D’Annunzio, o il Juffrè Rudel di Carducci. E mi commuovo di fronte a versi come:               

                          …e si fa sempre, tale è la sua sorte

                          nell’occhio nero lo sperar più vano

                          nell’occhio azzurro il desiar più forte

 

o come:               …Signora, che è mai la vita ?

                            è l’ombra di un sogno fuggente

                            la favola breve è finita

                            il vero immortale è l’amor .

Naturalmente la vita è andata avanti anche per noi. Abbiamo letto ed apprezzato altro. Molti altri versi, fra quelli letti dopo, ci affascinano e ci commuovono.

Tuttavia rimane forte il piacere di leggere poesie di immediata comprensione, ricche di sentimenti forti, densi di quella musicalità che si stampa nell’animo e nella memoria, e che ci induce a recitarle come canzoni.

 Musicalità che, purtroppo, non trovo in molte poesie moderne.

 La rima non mi da nessun fastidio. Anzi ! So benissimo che la musicalità di un componimento poetico deriva soprattutto dall’armonica collocazione delle sillabe e degli accenti. La rima, comunque, non toglie nulla di tutto questo ma, se mai, aggiunge qualcosa di musicarmente gradevole.

 E così, se io posso sintetizzare in qualche modo quelli che sono i miei gusti di “uomo di un’altra epoca” in fatto di poesia, direi che:

a)      amo la poesia che, sia pure esprimendosi con termini inconsueti e mediante ardite metafore, sa rendersi immediatamente comprensibile e, quindi, capace di suscitare sentimenti forti e profondi. La poesia che non si capisce non è in grado di suscitare nulla e, spesso, provoca solo fastidio.

b)      Amo e considero fondamentale l’armonia musicale nella poesia. Il leggerla deve dare piacere come quando si intona una canzone. La musicalità di un verso è di per sé un valore, al di là del contenuto. In tale contesto, a mio parere, la rima offre un piccolo contributo.

c)      Non amo le pseudo-poesie, cioè quelle che io definisco le prose scritte andando a capo prima della fine del rigo. Pur apprezzandone, spesso, i contenuti, ritengo che sarebbe meglio riempire tutto il rigo e presentarle senz’altro come prose. Dopo tutto non è obbligatorio scrivere versi.

 

Scrivere poesie

Siamo in molti a scrivere poesie. Non tutti siamo necessariamente veri poeti . I poeti scrivono poesie perché è il loro mestiere. Lo stesso fanno quelli che si credono poeti. Ma ci sono molte persone comuni che sanno benissimo di non essere poeti, eppure scrivono poesie.

C’è da chiedersi: perché lo fanno ?

 Comincerei col dire che chi possiede una lingua è naturale che la usi. E usarla vuol dire esercitare tutte le funzioni che con la lingua è possibile esercitare. Ora dice Jakobson che una delle funzioni della lingua è la funzione estetica che consiste, potremmo dire, nel produrre bel linguaggio. In altre parole possiamo dire che tutte le volte (ma accade quasi sempre) che ci preoccupiamo degli aspetti estetici di ciò che diciamo o scriviamo, noi esercitiamo la funzione estetica della lingua.

 Ovvero ogni volta che ci compiaciamo di esprimerci in maniera chiara e gradevole, noi esercitiamo tale funzione.

 Ma c’è dell’altro: talvolta veniamo colpiti da fatti che ci appaiono straordinari o particolarmente significativi, ovvero siamo preda di un sentimento particolarmente intenso, ovvero proviamo delle emozioni improvvise di fronte a fatti o cose….e sentiamo il bisogno impellente di parlarne, cercando di esprimere nella maniera più compiuta ciò che si agita all’interno del nostro animo. Molti lo fanno parlandone con la persona che hanno accanto. Altri sentono il bisogno di fissarlo in maniera definitiva sulla carta. E scrivono. Nel farlo ricercano accuratamente quelle parole meno comuni che meglio riescono ad esprimere i sentimenti provati e vissuti come eccezionali. Nascono, così, una o più frasi che illuminano, come sprazzi di luce, quel che vogliamo esprimere. Tali frasi, scritte una dopo l’altra, spesso diventano una poesia.

 A questo punto, in chi si diletta a scrivere poesie, subentra la fase più razionale di messa a punto del testo. Si cerca, allora, di controllare la metrica, di sostituire espressioni più suggestive ad espressini più banali, di curare la musicalità del tutto. E’, questo, un processo rischioso. L’esito, infatti, dovrebbe essere migliorativo del testo definitivo, ma, spesso, questa operazione toglie spontaneità al primo testo e le espressioni risultano fredde. Solo raramente, tuttavia, il primo testo abbozzato non subisce ritocchi. E, questo, lo fanno abbondantemente anche i poeti veri.

 E che fine fanno le poesie scritte dalla gente comune ?

 Talvolta, scritte magari durante un viaggio in treno sul retro di una busta, rimangono per un po’ in una tasca per poi finire in un cestino. Altre volte finiscono in un cassetto, dimenticate per anni. Qualche volta vengono conservate e, periiodicamente, rilette. Chi le conserva lo fa, generalmente, perché le considera ricordi di un certo periodo della vita e, quindi, evocatrici di sentimenti e stati d’animo propri di quel periodo. Raramente le legge ad altri.

 Poi capita, per caso, su un sito come questo ( Club dei poeti) e gli nasce la voglia di provare ad inviare una poesia, con la curiosità di sapere se verrà pubblicata o no.  E poi la meraviglia di vederla publicata. E scoprire che altri la leggono….e la commentano….

 Allora si continua ad inviare e a pubblicare. E’ un gioco. E tale deve rimanere. Guai a credersi poeti !

 

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                                        DALLA PARTE DEI BAMBINI

 

Ho sempre amato i bambini. Come padre, come nonno, come insegnante, come dirigente scolastico.

Ho sempre cercato di fare del mio meglio per il loro bene, per la loro crescita serena e armonica. Vorrei continuare a fare qualcosa.

Qualche tempo fa lanciai un appello agli amici del Club. L’idea era di organizzare un sito internet che avesse lo scopo di aiutare, fornendo consigli, indicazioni, motivazioni sia i genitori sia gli insegnanti, particolarmente quelli che si occupano dei bambini più piccoli e, quindi, più fragili. Particolarmente, dunque, gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria. Senza, però, escludere gli altri.

  Forte di alcune adesioni, alcune delle quali parvero entusiaste, cominciai a organizzare il sito e lo misi in rete, cercando di arricchirlo e di ampliarlo strada facendo.

  Quello che chiedevo nell’appello era collaborazione. Si poteva (e si può) collaborare inviando contributi di carattere psicologico, pedagogico, metodologico e didattico ma anche inviando descrizioni di esperienze positive di docenti o di genitori.

  In realtà qualche contributo è giunto, ed è stato puntualmente pubblicato sul sito. Però la cosa si è rapidamente esaurita e non è arrivato più nulla.

  Forse il sito è apparso una cosa troppo modesta, o forse una cosa poco utile, o forse inadeguata.

  Il fatto è che esso avrebbe dovuto crescere con la collaborazione e l’entusiasmo di molti, sia di insegnanti (nel Club ce ne sono molti) che di genitori. La mia speranza (illusione ?) era che l’occasione di poter riflettere criticamente sulle proprie esperienze, l’occasione di descriverle e di presentarle ad altri ed , eventualmente, di discuterle, sarebbe stata apprezzata.

  Per qualche motivo questo non è accaduto ed io stesso ho finito con il perdere il mio entusiasmo e con lo scoraggiarmi del tutto.

  Però il sito è in rete, riceve qualche visita (anche grazie all’amica Marilena Rodica che lo segnala nel suo sito italo-rumeno) e anche qualche apprezzamento.

 Così ho deciso di riprovarci. Ho cercato di arricchirlo ancora un po’. Ho cercato di migliorarlo. Ho ricominciato a cercare collaborazione.

 Così mi auguro che qualcuno legga queste righe e qualcuno si interessi al progetto.

 Quello che mi spinge a riprovarci è la constatazione che nel mondo di oggi la serenità dell’infanzia è minacciata da diversi fattori.

 Quello che mi colpisce è che sia la condizione della famiglia che la condizione della scuola appaiono sempre meno in grado di garantire uno sviluppo veramente sereno ai nostri bambini.

 Le famiglie, anche quelle più coese, sono alle prese con problemi economici e organizzativi che assorbono molte energie e generano tensione e inquietudine. Tutti parlano molto delle famiglie e dei loro bisogni, ma in concreto si riesce a fare ben poco per aiutarle veramente. Mancano gli asili nido, il fisco non riesce ad essere giusto con chi ha carichi familiari, si fanno pochi figli e quei pochi rischiano di essere percepiti più come un problema che come una gioia.  Questo clima influenza negativamente la serena crescita dei bambini.

 La scuola è sempre più in affanno nel cercare di svolgere al meglio il proprio ruolo. Gli insegnanti, molti dei quali sono precari, sono pagati poco e sono infastiditi da continui cambiamenti (riforme che si fanno e poi si disfanno, norme che si accavallano e che spesso si contraddicono….) che generano insicurezza e demotivano. Gli assalti di questi ultimi decenni a ogni forma di autorità, in nome di una mal intesa libertà, hanno portato a una perdita quasi totale di autorità sia dei genitori che della scuola e questo ha creato non pochi problemi all’educazione dei bambini. Si è, fra l’altro, determinata una perdita di armonia fra scuola e famiglia. Scopertesi entrambe pressochè impotenti di fronte al manifestarsi di problemi caratteriali, sempre più frequenti nei bambini, scuola e famiglia, anziché collaborare, si accusano l’un l’altra di commettere errori e di non fare ciò che sarebbe necessario fare.

 E’ necessario, a questo punto, che ognuno di noi  - e non solo insegnanti e genitori perché il problema dell’educazione dei giovani è un problema che riguarda il futuro della società e, quindi,  tutti - faccia un esame di coscienza e non eluda il problema.

 Perché il problema va affrontato, va discusso, occorre confrontarsi, occorre mettersi insieme e insieme cercare delle soluzioni.

 Nessuno pensa che questi problemi siano di facile soluzione, ma non c’è dubbio che occorre, per cominciare, rendersi conto che nessuno di noi può ritenersi non interessato.

 Qualche anno fa fecero un certo clamore alcuni pedagogisti che furono chiamati “descolarizzatori” i quali, in poche parole, sostenevano che non una istituzione come la scuola doveva occuparsi dell’educazione delle giovani generazioni bensì la società nel suo complesso. Possiamo convenire che tale idea, nella società attuale, è alquanto utopica.

 Tuttavia nella società di qualche anno fa era normale che ogni adulto intervenisse per riprendere e correggere un bambino sorpreso a commettere qualcosa di sconveniente. Perché, appunto, ogni adulto si sentiva investito dell’autorità per educare le giovani generazioni.

 Questo oggi non accade più perché ognuno “si fa gli affari suoi”. Ed anche perché, se accadesse, probabilmente i genitori del ragazzo la considererebbero una interferenza indebita.

 E allora parliamo di queste cose. Parliamone ovunque. E, quindi - perché no ? – anche in questo piccolo modesto sito. Servirà a qualcosa ?  La risposta è Sì, se riuscirà a far riflettere su questi temi anche soltanto dieci persone.

L’indirizzo del sito è : digilander.libero.it/faredirepensare

 

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                                            L’essenziale e l’accessorio

                                                                     ovvero

                                                  Saper fare il riassunto

 

Da qualche giorno i bambini di seconda elementare erano impegnati in un gioco proposto nel quadro di una sperimentazione di educazione linguistica elaborato da un istituto di Milano.

 Il gioco consisteva nel mettere in ordine una serie di quattro o cinque illustrazioni che rappresentavano i diversi momenti di una storia. Una volta capita la storia e messe in ordine le illustrazioni, bisognava mettere sotto a ogni illustrazione una lunga didascalia che raccontava quel momento della storia. Alla fine, mettendo insieme le quattro o cinque didascalie, la storia risultava raccontata anche con le parole oltre che con le illustrazioni.

 I bambini dicevano che quel gioco era divertente e lo facevano volentieri.

 Un bel giorno – era di lunedì - la maestra propose ai ragazzi di raccontare per scritto quello che avevano fatto la domenica e i bambini si accinsero a farlo.

 Ma Giuseppe, cui lo scrivere pesava un poco mentre amava molto disegnare, alzò la mano e chiese:

-         Maestra, prima di scriverla potrei disegnarla la mia storia ? –

-         E perché ti è venuto in mente di disegnarla ? –

-         Perché a scrivere sotto le figure mi riesce meglio. –

 La maestra, che era accorta, capì le ragioni di Giuseppe e – subito accomodante – disse:

-         Va bene, però devi fare soltanto cinque disegni per illustrare la tua storia. Poi scriverai le didascalie sotto a ogni illustrazione come nel gioco delle storie da ricostruire che facciamo sempre. E guarda che la storia si capisca bene anche solo dai disegni. – E gli consegnò cinque bei fogli bianchi.

-         Va bene – disse, felice, Giuseppe. E si mise all’opera.

  Passò un po’ di tempo e tutta la classe taceva ed era intenta al suo lavoro.

  Ma, a un tratto, il silenzio fu rotto dalla voce piagnucolosa di Giuseppe che, con le lacrime agli occhi, diceva:

-         Maestra, ho finito i fogli ! –

 La maestra, sempre accorta, si avvicinò e guardò i disegni pensierosa.  Nel primo disegno si vedeva Giuseppe che veniva svegliato dalla mamma. Nel secondo si vedeva Giuseppe che si lavava il viso. Da solo. Nel terzo si vedeva Giuseppe che si vestiva. Da solo. Nel quarto si vedeva Giuseppe che faceva colazione. Nel quinto si vedeva Giuseppe che si lavava i denti.

 La maestra disse: - Bene. Vedo che hai voluto raccontare il tuo inizio di giornata. Ora puoi raccontarlo con le parole –

-         Ma io ieri sono andato a pescare col babbo e ho pescano una bellissima trota. Era quello che volevo raccontare –

-         Ho capito – disse allora la maestra – ma eravamo d’accordo che i disegni dovevano essere cinque e non più –

-         E ora come faccio ? –

   E la maestra, sempre più accorta: - I disegni debbono essere cinque e non di più, pertanto non ne puoi aggiungere altri –

-         E allora ? –

-         Allora possiamo fare una cosa: questi cinque disegni li mettiamo via ed io ti do altri cinque fogli bianchi. Così puoi riprovare da capo –

-         Sì, sì, grazie maestra ! –

 Non appena ebbe i cinque fogli Giuseppe si mise all’opera. Nel primo foglio disegnò se stesso mentre, con una gran bocca a mezzaluna sorridente, stava sulla riva del lago e reggeva una lenza dalla quale pendeva una enorme trota col corpo punteggiato di rosso. Poi, con calma, decise di iniziare la sua storia illustrata disegnando Giuseppe e il padre che partivano in macchina con tutto l’armamentario fatto di lenze, cestini, barattoli con le esche, eccetera. Come seconda illustrazione disegnò Giuseppe e il babbo che, giunti in riva al lago, gettavano gli ami e pescavano, tutti intenti. La terza, quella centrale, era quella disegnata per prima, cioè Giuseppe che pescava la trota. Come quarta illustrazione Giuseppe disegnò se stesso e il padre che mostravano il cestino con tutte le bellissime trote pescate. A questo punto – gli restava un solo foglio – pensò a cosa disegnare per concludere degnamente la storia. E prese la sua decisione. Girò il foglio per il lungo e disegnò una grande tavola imbandita. Su di essa giganteggiavano i piatti su ciascuno dei quali faceva bella mostra di sé una grossa trota fritta. Intorno al tavolo stavano seduti Giuseppe, il babbo Carlo, la mamma Lucia e la sorellina Cleta, di soli quattro anni.  In alto una grossa lampada irrorava di luce gialla tutta la scena.

 Appena ebbe dato l’ultimo tocco Giuseppe corse dalla maestra a mostrare l’opera. La maestra fu prodiga di lodi e disse che si capiva benissimo la storia e anche la grande gioia che Giuseppe aveva provato nel pescare la trota. Poi trasse da cassetto i cinque disegni precedenti e insieme convennero che essi non erano affatto essenziali per raccontare la storia della pesca sul lago. In fondo ogni mattima succede che tutti si alzano, si lavano, si vestono, fanno colazione e si lavano i denti. Per cui non vale la pena di raccontarlo.

-         Però – aggiunse la maestra – non li buttiamo via. Non servono a raccontare la storia della pesca, è vero. Però, in fondo, raccontano in modo particolareggiato cosa fa, ogni bambino, nelle prime ore di ogni giorno. Potrebbe essere un’altra storia intitolata “Le prime ore di un bambino” –

 Giuseppe riprese anche quei fogli e fu contento di quello che la maestra aveva detto. In fondo aveva lavorato con impegno anche per disegnare quei disegni.

 Poi si mise di gran lena a raccontare con le parole l’avventura della pesca. Avendo davanti le illustrazioni veniva facile raccontare quello che stava davanti agli occhi. Ne venne una storia lunga cinque pagine e Giuseppe per primo si stupì di aver scritto tanto.

 Quando portò il quaderno alla maestra si vide che anche la maestra era stupita della lunghezza di quel racconto. Lo lesse sorridendo e alla fine disse che era bello ed era anche abbastanza corretto.

 Da quel giorno Giuseppe disegnò sempre le sue storie prima di raccontarle con le parole. Diceva che così trovava quali erano i punti importanti della storia dei quali bisognava parlare per forza. Poi si poteva anche abbellire il racconto con dei particolari meno importanti. E le sue storie risultavano sempre ben raccontate. Perché ben progettate. Infatti la scelta delle illustrazioni da disegnare non era altro che un vero e proprio progetto, una sorta di schema della vicenda da narrare.

 E, cosa notevole, da quel momento seppe anche fare i riassunti, cosa che non aveva mai saputo fare.

  Di fronte a un racconto da riassumere egli immaginava di doverlo illustrare con cinque disegni e, quindi, decideva quali erano le cinque illustrazioni necessarie per rappresentare la storia in modo comprensibile. Ed erano, quelli, i punti essenziali dei quali bisognava parlare nel riassunto. Aveva, infatti, capito cosa è essenziare per capire una storia e cosa è, invece, accessorio. E aveva capito che per fare un riassunto bisogna concentrarsi sulle cose essenziali trascurando quelle accessorie.

 

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                                       SCUOLA UNICA PLURICLASSE

 

Ero al mio sesto anno di insegnamento come insegnante elementare quando fui traferito in quel minuscolo paesino di montagna a soli 4 chilometri da casa mia. Ne fui felice perché era vicino, ma anche perché lì sarei stato l’unico insegnante di una “scuola unica pluriclasse”. Il che significava che io avrei dovuto insegnare a tre bambini di prima elementare, a tre di seconda, a una di terza, a quattro di quarta e a cinque di quinta, per un totale di sedici scolaretti.

 Non sapevo, allora, che sarei rimasto dieci anni in quella scuola e che avrei considerato quei dieci anni i più produttivi  della mia attività professionale ma anche fra i più felici. Per questo li ricordo così volentieri

 Il mio primo anno di insegnamento lo avevo fatto in un’altra “scuola unica pluriclasse” situata a oltre mille metri di altitudine. La scuola, composta da quell’unica piccola aula, era situata al primo piano di una casa privata e per raggiungerla bisognava passare per la cucina dei proprietari da cui partiva la scala di legno per salire. Il comune si limitava a pagare un piccolo affitto per quella stanzetta, quindi non c’era una bidella e la legna per la vecchia stufa di terracotta la portavano i bambini. Un fascelletto per ognuno, ogni mattina. Era stato, quindi, un anno pieno di difficoltà, ma quell’essere l’unico protagonista adulto, l’unico responsabile dell’organizzazione dell’attività scolastica non mi era dispiaciuto. Anzi ! Ed ora mi accingevo a ripetere quell’esperienza.

 Le condizioni erano decisamente molto migliori. La scuola aveva a disposizione un edificio scolastico di recente costruzione, con un bel portico davanti all’ingresso, un atrio di discrete dimensioni, doppi servizi igienici , una vasta e luminosissima aula e un piccolo terreno recintato tutto intorno all’edificio. Neppure qui c’era una bidella, però la legna la forniva il comune.

 All’epoca la scuola iniziava il 1° ottobre, San Remigio, e i bimbi di sei anni che venivano a scuola per la prima volta erano detti “remigini” e c’era anche una canzoncina che diceva: “”E’ il primo ottobre e a scuola si va – e ci accompagnano mamma e papà….””

 Quell’anno era una bellissima giornata serena.  Io mi recai a scuola e mi presentai ai bambini che mi attendevano nel cortile. E loro si presentarono a me, graziosamente, anche se con la timidezza che costituiva, all’epoca, la caratteristica dei figli dei contadini. Il paese era, infatti, un piccolo paese di contadini che vivevano dignitosamente perché avevano dei buoni e fertili terreni ben esposti a sole.

 Entrammo in classe e cominciammo la nostra avventura. La classe aveva l’arredamento fornito dallo Stato negli anni trenta, quando vennero istituite nei piccoli centri le cosiddette “scuole rurali”.

 Era un arredamento funzionale e grazioso, ancora in buone condizioni, composto da una ventina di banchi singoli a tavolinetto con la loro sediolina, da una cattedra, una lavagna e un armadietto, tutto dipinto di un verde tenero. Mi piacque. Fra l’altro nell’armadietto c’era una bibliotechina per l’insegnante composta da testi di pedagogia ma anche da qualche buon romanzo e da qualche opera di divulgazione scientifica. Erano tutte pubblicazioni degli anni trenta, di quando fu istituita la “scuola rurale”, ma erano ben tenuti e interessanti, perché molti di quei testi, per esempio le opere del Pestalozzi, erano ormai praticamente introvabili. Ne fui entusiasta. Immaginai quanto preziose fossero state quelle letture per le maestre di un tempo, costrette a vivere nel paesino - che allora non aveva una via di accesso carrozzabile e mezzi di trasporto – l’intera settimana.

 Avviammo serenamente la nostra attività scolastica, parlando molto di quello che avremmo fatto come attività didattica ma anche di quello che avremmo potuto fare per rendere la nostra scuola sempre più bella e accogliente.

 I bambini erano affettuosi e cordiali e mi resi conto che apprezzavano molto quel nostro parlare anche di cose non strettamente legate all’attività didattica ma riferite piuttosto alla loro vita. Tutti, anche i più piccoli, aiutavano in qualche modo i genitori nei lavori agricoli. Non posso far a meno di ricordare Nello, di seconda, che si alzava alle sei per andare nella stalla ad accudire le mucche “levandogli sotto” cioè ripulendo gli stalli dal letame e riempiendo le mangiatoie di fieno. Quando veniva a scuola aveva già fatto tutto il suo lavoro.

 Mi resi conto che eravamo soli, splendidamente soli, e che toccava a noi e solo a noi organizzare la nostra vita scolastica.

 Discutemmo del fatto che non c’era una bidella ma la scuola aveva comunque bisogno di manutenzione, per cui sarebbe stato necessario organizzarci per provvedere.

 Fummo d’accordo sul fatto che l’aula doveva essere spazzata ogni giorno, che la stufa doveva essere accesa ogni mattina, che i fiori dovevano essere curati (la vecchia insegnante aveva lasciato alcuni vasi con dei fiori ancora vivi)…..

 L’aula l’avevano sempre spazzata le bimbe e dissero che avrebbero continuato a farlo loro. I maschietti accendevano la stufa e la alimentavano secondo necessità e pure loro avrebbero naturalmente continuato a farlo. Il fatto è che queste cose venivano fatte durante la prima parte della mattinata e sottraevano tempo prezioso all’attività didattica.

 Discutemmo la cosa e tutti si dichiararono disposti a venire prima dell’inizio delle lezioni per fare quelle cose purchè qualcuno…..aprisse loro la porta.

 Dopo alcuni giorni di meditazione e dopo essermi fatto convinto di quanto gli scolaretti, anche quelli più piccoli, fossero seri e responsabili, presi la decisione che di questa serietà e senso di responsabilità potevo e dovevo fidarmi.

 Così proposi ai ragazzi una molto seria organizzazione della nostra attività anche extra-didattica invitandoli a dividersi equamente i compiti responsabilizzandosi al massimo. I ragazzi si mostrarono interessatissimi e curiosi assai ed io esposi la mia idea.

 Per prima cosa avrei nominato capo-classe il più serio e responsabile dei ragazzi di quinta. A lui avrei consegnato la chiave della scuola e lui si sarebbe assunto la responsabilità di aprire la scuola mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni e di vigilare sul funzionamento della nostra macchina organizzativa. Che consisteva nello stabilire dei turni settimanali duranti i quali due o tre (a seconda della disponibilità) bambine si sarebbero assunte il compito di pulire la scuola (spazzarla ogni giorno e lavare i pavimenti una volta la settimana), due o tre maschietti si sarebbero assunti il compito dell’accensione e dell’alimentazione della stufa, due o tre avrebbero avuto la cura dei fiori in vaso e altri due o tre si sarebbero occupati del cortile che decidemmo subito di chiamare giardino, dove preparammo delle aiole entro cui, a primavera, avremmo seminato fiori.

 Per rendere visibile la nostra organizzazione preparammo un bel cartellone sul quale erano indicate le varie funzioni sotto a ciascuna delle quali, entro apposite fessure, potevano essere posizionati dei cartellini coi nomi di coloro che “erano di turno”. Era il capoclasse che, ogni lunedì, aggiornava il cartellone assegnando gli incarichi.

 Lo so che aver lasciato la chiave al capo-classe e aver consentito che gli alunni entrassero in scuola senza sorveglianza era una cosa azzardata e che non andava fatta. Ma il mio innato ottimismo, la mia assoluta fiducia nel senso di responsabilità degli alunni e, non ultimo, il sostegno dei genitori che, da gente pratica, apprezzava incondizionatamente sia il fatto di aver recuperato tempo per l’attività didattica vera e propria ma anche – e, forse, soprattutto – il fatto di spingere i ragazzi ad organizzarsi e a responsabilizzarsi.

 E - debbo assolutamente dirlo – in dieci anni non si è mai verificato il benchè minimo inconveniente derivante da questa mia azzardata scelta.

 Avrei mille episodi belli e anche commoventi per illustrare questi meravigliosi anni vissuti con quella che era per me un’altra grande famiglia. E forse un giorno li racconterò.

 Per concludere voglio raccontarne uno piccolo, ma per me di grande significato, da cui si ha una idea di quelli che erano i rapporti fra me e quella buona gente.

 Nella notte era venuta una eccezionale nevicata e stava ancora nevicando. Per raggiungere la scuola occorreva salire notevolmente, ma io avevo una cinquecento munita di robuste catene e, in genere, non c’era mai stata nevicata che mi avesse fermato. Per cui partii fiducioso. Ma, giunto a metà strada, la neve era talmente alta che non fu possibile andare avanti. L’idea di non andare a scuola per me non era neppure concepibile, per cui, lasciata la macchina, proseguii faticosamente a piedi.

 Arrivai con una buona mezz’oretta di ritardo ma i bambini avevano la certezza che io – neve o non neve - sarei certamente arrivato, per cui erano in classe, avevano pulito la scuola e acceso la stufa e stavano tranquillamente aspettando. Ci salutammo sorridendo, poi una bambina mi mostrò, vicino alla stufa, un paio di calzettoni di lana che la sua mamma le aveva detto di portarmi. Da casa sua mi aveva visto arrancare nella neve e aveva immaginato che sarei arrivato coi piedi bagnati e gelati.

 Ringraziai la bambina e la pregai di ringraziare la sua mamma. Poi mi tolsi le calze bagnate e mi infilai, con enorme sollievo, i bei calzettoni caldi. Avevo voltato le spalle ai bambini che stavano seduti nei loro banchi e che, perciò, non videro i miei occhi umidi.

 

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                                             IN AIUTO DEI BAMBINI

 

Alcuni anni fa segnalai, su queste pagine, la mia intenzione di iniziare l’allestimento di un sito web nel quale raccogliere alcune notizie essenziali su quelle che sono le principali tematiche dell’educazione (in forma semplice, rivolte non solo agli insegnati ma anche ai genitori) nonché esperienze di insegnanti e di genitori che evidenziassero problematiche su cui discutere. Il tutto allo scopo dichiarato di fornire un piccolo aiuto a tutti coloro che si occupano della educazione e della crescita dei bambini, onde farli crescere sani e felici.

 Il sito fu cretao e messo in rete con – in bella evidenza – l’avvertimento “sito in allestimento”.

 L’iniziativa trovò diversi consensi fra gli amici del Club Poeti e furono inviati anche alcuni contributi che vennero subito pubblicati nel sito.

 La cosa, però, non ebbe il seguito sperato, i consensi si affievolirono fino ad esaurirsi. E nessun contributo è più giunto.

 La cosa mi ha, comprensibilmente, scoraggiato, tanto che non ho più trovato motivazioni per tentare di rivitalizzare l’iniziativa.

 Il sito, però, è ancora in rete (e riceve anche qualche visita) ed io continuo a credere che l’idea non era poi così male. Specialmente quella di raccogliere esperienze da commentare e discutere.

 E’ accaduto poi, recentemente, che ho ritrovato quattro copie di un giornalino scolastico a stampa che mi è sembrato carino. Si tratta di un’esperienza lontanissima, risalente addirittura all’anno scolastico 1957-1958.

 Così, pensando che qualche insegnante potesse gradire di vederle, anche solo per curiosità, sono ritornato al vecchio sito ed ho inserito i quattro giornalini nella sezione “Esperienze”.

 La speranza è che qualcuno  trovi l’idea un po’ meno che pessima e che, magari, decida di fornire qualche contributo sia di natura professionale (pedagogica e didattica) anche critica, sia di natura esperienziale. E sarebbero gradite esperienze di genitori oltre che di insegnati.

 Se il mio sogno si avverasse si potrebbe, forse, arrivare a togliere l’avviso “sito in allestimento”.

 L’indirizzo del sito è sempre il solito:  digilander.libero.it/faredirepensare

 

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