Personaggi:
1) Giuseppe
2) Il Trivella
3) Oreste
4) Poldo
(una storia vera)
Non era bravo a scuola. Aveva quindici anni e faceva ancora la quinta elementare. Lo avevano bocciato tutti gli anni: in prima, in seconda, in terza e in quarta. Ora faceva la quinta e si aspettava, rassegnato, di dover fare due volte anche quella.
Ormai non si sforzava nemmeno più di essere un po’ più bravo. Aveva accettato l’idea di essere un somaro, così come era giudicato dal maestro e anche dai compagni. Compagni: si fa per dire. In realtà i suoi compagni di classe erano ancora dei bambini mentre lui era quasi un giovanotto. Raramente, durante la ricreazione, partecipava ai giochi, un po’ perché per lui erano troppo infantili, un po’ perché nessuno lo invitava a partecipare. Lo consideravano un po’ deficiente e anche pericoloso, così grande e grosso come si ritrovava. Infatti quando si lasciava andare a dare quattro calci al pallone insieme agli altri, qualcuno si faceva sempre male. Non lo faceva di proposito, ma era troppo grande rispetto agli altri, e se nella foga del gioco urtava qualcuno, quasi sempre lo faceva cadere. Allora quello si rialzava piangendo, con le ginocchia sbucciate, e per Giuseppe erano rimbrotti, anche insulti e l’invito perentorio a farsi da parte e a non dar noia ai bambini.
Anche in classe Giuseppe era emarginato. Stava all’ultimo banco perché – gli disse il maestro – “tu sei grande e vedi la lavagna anche se hai gli altri davanti”. Ma tutti dicevano che quello era il banco dei somari. Ed effettivamente Giuseppe si comportava da somaro: i compiti a casa non li faceva quasi mai e spesso non faceva neppure quello che c’era da fare a scuola. E quando il maestro gli chiedeva qualcosa o non rispondeva o dava una risposta sbagliata che suscitava l’ilarità di tutta la classe. Anche il maestro si era ormai rassegnato ad avere in classe un somaro irrecuperabile e non lo sgridava neppure più per il suo comportamento svogliato. Insomma Giuseppe era tenuto a distanza e disprezzato da tutti. Anche perché puzzava di stalla.
Già, perché Giuseppe, quando arrivava a scuola, aveva appena finito di aiutare il babbo a levare sotto alle vacche (1), a riempire di fieno le mangiatoie e a fare, insomma, tutto quello che c’è da fare nelle stalle. Al mattino per lui la sveglia era alle sei e alle otto, quando passava lo scuolabus che lo portava a scuola, lui si era già sbafato due ore di lavoro.
Quando, poi, all’una, ritornava a casa, aveva appena il tempo di mangiare un boccone, perché poi c’era sempre qualche faccenda da fare nei campi o nelle selve. Già in ottobre, a scuola appena cominciata, c’era da preparare la terra per la semina del grano e del farro. Poi, appena finite le semine, cominciava la raccolta delle castagne, il loro trasporto al metato (2) dove, per una ventina di giorni, bisognava tenere acceso giorno e notte il fuoco che le avrebbe seccate. Queste, poi, dovevano essere pestate (3) e, infine, portate al mulino per essere macinate. E si era quasi a Natale. Nei mesi invernali la campagna dava un po’ di respiro, ma le bestie andavano governate anche in inverno. E poi quelle giornate invernali che ti costringevano in casa cadevano a proposito per fare ceste, panieri, capagnate (4), rivestire fiaschi e damigiane… con i lunghi e sottili rami di salice raccolti nell’estate. E Giuseppe aveva imparato a fare anche quello. E lo faceva piuttosto bene.
Quando poi le nevi si scioglievano e la terra si asciugava cominciava il lavoro più duro e impegnativo: la semina del granoturco e delle patate, la cura delle viti, la preparazione dell’orto con la semina di tutti gli ortaggi…..Raramente si rientrava a casa prima che facesse buio. E le giornate si facevano sempre più lunghe. Verso maggio, quando il maestro chiedeva agli scolari maggior impegno per una buona conclusione dell’anno, Giuseppe rendeva ancora meno del solito perché stremato dal lavoro e perché la sua mente era impegnata in tutt’altri pensieri: quelli del lavoro da fare appena uscito da scuola, per esempio.
Insomma la vita di Giuseppe era piena di cose e di interessi con i quali le cose che gli facevano fare a scuola non avevano nulla a che fare. La scuola ignorava il mondo di Giuseppe e il mondo di Giuseppe ignorava la scuola.
Poi accadde che, quell’anno, la scuola di Giuseppe diventò più lunga. A mezzogiorno e mezzo non si andava a casa ma si mangiava alla mensa della scuola e si stava a scuola fino alle quattro e mezzo del pomeriggio. La chiamavano scuola a tempo pieno. Il padre di Giuseppe ne fu allarmato. Lui aveva bisogno che Giuseppe lo aiutasse in campagna e quelle ore in più sottratte al lavoro lo impensierivano. Ma quando ci fu l’assemblea dei genitori che doveva approvare il nuovo orario ci furono tanti discorsi sui vantaggi, per i ragazzi, che questo nuovo tipo di scuola avrebbe portato, che lui, il padre, non ebbe coraggio di dire che era contrario e votò a favore come tutti gli altri.
A Giuseppe l’idea di dover subire per quattro ore in più il clima per lui non gradito della scuola piaceva poco. Però – si era in ottobre – il pensiero che sarebbe stato molto meno faticoso starsene a scuola piuttosto che nei campi a stuffare (5) lo consolò, e accettò la novità senza prendersela troppo.
A scuola ci furono subito delle novità. Anzitutto arrivarono nuovi maestri giovani e bravi, poi i ragazzi furono informati che ci sarebbero state delle nuove “materie”, alcune delle quali “opzionali” (a Giuseppe fu spiegato che quella parola lì voleva dire che si potevano scegliere quelle più gradite). Fra le nuove “materie” ce n’erano di piuttosto strane: enigmistica, gioco degli scacchi, intreccio…. Intreccio !!! Giuseppe drizzò le orecchie ! E quando toccò a lui di scegliere, la scelse subito.
Poi ci fu la novità delle “ricerche”. Furono proposti degli argomenti e anche qui i ragazzi furono invitati a scegliere. Un maestro simpatico e che si chiamava Giuseppe pure lui, proponeva una ricerca sull’agricoltura della zona. E Giuseppe drizzò di nuovo le orecchie ! Ma poi, cosa inaudita, il maestro Giuseppe si rivolse al Giuseppe scolaro e gli disse che, poiché lui – il Giuseppe scolaro – sapeva tante cose sull’agricoltura, lui – il Giuseppe maestro – sperava di averlo nel suo gruppo. Tutti gli scolari presenti si volsero a guardare Giuseppe e fecero una faccia molto stupita. Era la prima volta che si sentiva qualcuno dire a Giuseppe che sapeva tante cose. E, forse, il più stupito fu proprio lui, Giuseppe, che, comunque, fu immediatamente conquistato da quel maestro che si chiamava come lui. E disse di sì.
Per Giuseppe le cose cominciarono subito a cambiare in meglio e nel giro di un mese erano cambiate da così a così. Infatti, sia per quel che riguarda l’intreccio, sia per quel che riguarda la ricerca sull’agricoltura, Giuseppe ne sapeva più dei maestri.
Durante l’attività di intreccio la maestra aveva proposto lavori semplici di intreccio con nastri o rafia ma, quando seppe che Giuseppe sapeva fare cesti, cestini e panieri, gli propose di essere lui quello che avrebbe insegnato agli altri come si fa. E lui, che si sentiva sicuro del fatto suo, portò a scuola un bel fascio di rametti di salice e, sotto gli occhi attenti dei compagni e anche della maestra, che quelle cose lì non le sapeva fare neanche lei, in quattro e quattr’otto, con tre legnetti di castagno e i lunghi rametti di salice fece la base di un bel paniere, con i lunghi rametti che sporgevano da ogni lato e coi quali avrebbe poi fatto la parte laterale e il manico del paniere stesso. I ragazzi cominciarono a guardare Giuseppe con occhi diversi mentre la maestra non gli lesinava lodi e invitava gli altri a stare attenti. Insomma era lui che sapeva e che insegnava agli altri. Era lui al centro dell’ ammirata attenzione di tutti. Quando poi anche gli altri ragazzi provarono a fare un panierino, era a lui che tutti si rivolgevano:
- Giuseppe, e ora che devo fare ? –
- Giuseppe, mi aiuti, per piacere che qui non mi riesce ? –
- Giuseppe, guarda: ho fatto bene ?
E non c’era più nessuno che voleva allontanare Giuseppe, anzi, se ne contendevano l’attenzione.
Ma il vero trionfo di Giuseppe ci fu durante le ricerche sull’agricoltura locale.
Giuseppe era cambiato. Ora stava attento quando il maestro leggeva sui libri che aveva portato. Si parlava di semine, di concimazione, di irrigazione….tutte cose che appartenevano al mondo di Giuseppe e che Giuseppe sapeva bene. Tanto che, spesso, era lui che spiegava quello che non appariva molto chiaro, era lui che integrava le cose lette con cose della sua esperienza, era lui che rispondeva al maestro quando gli faceva domande non per vedere se sapeva la risposta, ma per sapere cose che lui stesso, il maestro, non sapeva.
Ormai gli altri alunni vedevano in Giuseppe quasi un insegnante. E lo trattavano con rispetto.
E accadde un giorno che il maestro decise che avrebbe portato il gruppo a visitare una stalla e chiese a Giuseppe se pensava che avrebbero potuto visitare la sua. Giuseppe disse che lo avrebbe chiesto a suo padre. Gli si erano illuminati gli occhi. Era sicuro che il padre avrebbe acconsentito e la cosa lo entusiasmava. Era orgoglioso della sua stalla e delle sue mucche ed era felice all’idea di poterle mostrare al maestro e ai compagni.
Il padre fu d’accordo e si fissò il giorno. Quella mattina Giuseppe non sarebbe sceso con lo scuolabus e avrebbe aspettato a casa il maestro e i compagni. Come al solito si era alzato alle sei, ma quella mattina aveva lavorato con più lena del solito.
Voleva che la stalla fosse pulita e in ordine più che mai.
Poco dopo le nove – e Giuseppe, che attendeva ormai da un’ora insieme al padre, cominciava ad essere impaziente – lo scuolabus arrivò e i compagni del gruppo col maestro scesero e salutarono festosamente Giuseppe e il padre.
Il maestro, prima di entrare nella stalla, raccomandò ai ragazzi di comportarsi bene e di fare attenzione alle spiegazioni che Giuseppe avrebbe dato sulla stalla e sulle mucche. Entrarono. Molti dei ragazzi non avevano mai visto una mucca così da vicino ed erano alquanto timorosi davanti a quei bestioni cornuti. Perciò guardavano stupefatti Giuseppe che, mentre spiegava con grande serietà tutto quello che c’era da spiegare, andava in mezzo alle sue mucche, le accarezzava, le toccava senza mostrare timore alcuno. Disse quello che era il suo lavoro di tutte le mattine, parlò di ciò che mangiano le mucche, di come si mungono, di come nascono i vitellini. E mentre parlava della mungitura mostrò ai compagni le grandi mammelle delle mucche e, preso un capezzolo con una mano mostrò come si fa a mungerle. E mentra parlava delle mucche che sono erbivore aprì la bocca di una di loro perché i ragazzi potessero vedere la dentatura come era fatta. E mentre parlava dei vitellini entrò nel piccolo recinto dove si trovavano tre vitellini nati da pochi giorni e invitò i compagni ad avvicinarsi senza paura per accarezzare quelle dolci bestioline ancora malferme sulle gambette esili. E qualcuno lo fece e accarezzò il vitellino che Giuseppe teneva fermo quasi abbracciandolo.
Quando ebbe detto tutto quello che c’era da dire il maestro dette il via e ci fu un lungo, convinto applauso di tutto il gruppo.
Giuseppe, grande e grosso, col viso colorito di chi è abituato a lavorare all’aria aperta, sorrideva contento mentre il padre, che era rimasto silenzioso sulla porta, aveva le lacrime agli occhi.
Ora Giuseppe andava volentieri a scuola. Certo la sua ortografia non era perfetta, ma scriveva cose sensate e si faceva capire. Leggeva ancora stentatamente ma capiva ciò che leggeva. I problemi più complicati non riusciva a risolverli ma le quattro operazioni le sapeva fare e i metri, i litri, i chili e i metri quadrati non avevano segreti per lui. Nel lavoro di intreccio, poi, e nel lavoro di ricerca nessuno poteva stargli al pari.
Soprattutto – ed è quello che più conta – era stimato ed era felice. Era finalmente caduta la paratia stagna che teneva separata la sua scuola dalla sua vita. E lui era felice.
(Mario Pellegrinetti)
NOTE:
1) Togliere la vecchia “lettiera” di foglie mista a letame e predisporre la nuova “lettiera” pulita.
2) Seccatoio
3) Anticamente le castagne secche venivano poste in un sacco e pestate, cioè sbattute su un ceppo di legno finchè la buccia non si staccava dal frutto. Le bucce secche e sbriciolate costituivano la “pula” che, posta sopra i “ciocchi” ardenti del metato, mantenevano a lungo il fuoco acceso e costante, come doveva essere durante la fase della seccatura.
4) Capagnate = grosse ceste cilindriche, di un metro e mezzo circa di diametro di base e circa 30 o 40 centimetri di altezza, a maglie molto larghe, usate per il trasporto del fieno sulle spalle.
5) Stuffare = rompere i “tuffi”, cioè le grosse zolle di terra dei campi vangati o arati. E’ il lavoro di erpicatura che oggi si fa con gli erpici e che un tempo si faceva spesso anche a mano, con la zappa.
(storia vera con nomi fittizi)
Era la guardia comunale del mio paese e lo chiamavano “Il Trivella” . Non si sa perché lo chiamassero così, fatto sta che il suo nome vero nessuno lo ricordava. Per tutti era soltanto il Trivella.
Era un uomo di altezza normale, piuttosto rotondetto, con un viso paffuto eternamente sorridente, che tutti conoscevano e che conosceva tutti. Amava bere un buon “bicchierotto” alla bottega e fare delle merendine con cose saporite. Per esempio con delle acciughe intere sotto sale alle quali bastava dare una scrollatina per far cadere il sale in eccesso, poi, con una bella fetta di pane di grano impastato con le patate e cotto nel forno a legna erano una merenda da re. E la “mezzetta” di vino si vuotava senza che te ne accorgessi. E bisognava ordinarne subito un’altra.
Il Trivella aveva un carattere burlone e amava organizzare scherzi di ogni genere. E, a volte, esagerava anche un pochino. Come quella volta che doveva portare al manicomio il Chiorba. Il Chiorba non era certo un pazzo furioso. Era un disgraziato che viveva solo e non sapeva badare a se stesso. Mangiava quello che gli dava la gente e beveva quello che gli offrivano gli amici dell’osteria. E questo era il guaio, che gli amici dell’osteria lo facevano bere più del giusto per divertirsi alle facezie che quello diceva quando era brillo. Il che sarebbe stato un male da poco. Ma il guaio era che lui, giunto a quel punto, aveva più sete di prima e voleva ancora bere, e ancora bere, e ancora bere, fino a che non era in grado di tornare a casa e si addormentava sul primo mucchio di ghiaia che lo aveva fatto inciampare. Questo fatto non era molto grave in estate ma in inverno diventava veramente pericoloso per lui. Così, dopo quella volta che lo trovarono semi assiderato nella neve, il dottore e il sindaco decisero che bisognava fare qualcosa. E decisero di mandarlo al manicomio, perché a quell’epoca era l’unico modo per assicurargli un po’ di assistenza.
Una volta fatte le carte necessarie, il Trivella fu incaricato di accompagnarlo al manicomio insieme al Giulio, applicato di segreteria. In realtà sarebbe bastato il Trivella, ma la regola era che per accompagnare un matto al manicomio bisognava essere in due.
Così chiamarono il Rossi col calessino e, un mattino, partirono tutti e quattro: il Chiorba, il Giulio, il Trivella e il Rossi, che guidava il calesse. Durante il viaggio il Trivella raccontava barzellette e diceva cose amene. Il Chiorba ascoltava senza dire nulla e il Giulio sorrideva senza scomporsi. Era un uomo serio e preciso e considerava il Trivella un po’ volgare. Lui, ben vestito e molto compassato, si considerava diverso e migliore.
Giunti al manicomio, furono fatti accomodare su una panchina in attesa che fossero pronti quelli che li dovevano ricevere.
I tre si sedettero e si misero a parlare tranquillamente. Il Chiorba, che, naturalmente, era sobrio, non parlava molto - non parlava mai molto - però si comportava normalmente e nessuno avrebbe potuto immaginare che quello era il “matto”.
Intanto l’attesa si prolungava e, un po’ perché quella mattina si erano svegliati presto, un po’ per la quiete di quell’ambiente e per il dolce tepore primaverile che conciliavano il sonno, tutti furono presi da un certo torpore e il Giulio chiuse gli occhi e si appisolò.
Passò ancora qualche minuto, poi si presentarono due infermieri in camice bianco per prendere il consegna “il matto”. Giunti davanti ai tre seduti sulla panchina, rivolsero uno sguardo interrogativo al Trivella per sapere qual era “il matto” e…..fu in quel momento che lo spiritello bizzarro e burlone che covava dentro di lui suggerì al Trivella il brutto scherzo.
Si alzò in piedi e, senza parlare, indicò il Giulio, ancora appisolato. I due infermieri, allora, afferrarono il malcapitato uno per un braccio e uno per l’altro, e lo sollevarono. Naturalmente il Giulio si svegliò di soprassalto e, vista la situazione, cominciò a protestare energicamente e a divincolarsi per liberarsi dalla presa. Al che i due infermieri lo strinsero con ancora maggior energia e cominciarono a trascinarlo verso la sua destinazione. D’altra parte il Chiorba, seduto compostamente, non faceva certo sospettare di essere lui “il matto”.
E più il Giulio si infuriava e si dimenava, e più energicamente i due infermieri lo tenevano e lo trascinavano.
Finché, prima che la cosa degenerasse, il Trivella intervenne dicendo che c’era stato un errore e che il “matto” era l’altro.
Al che gli infermieri mollarono il Giulio e, brontolando qualcosa all’indirizzo del Trivella, afferrarono il Chiorba che, senza fiatare e senza protestare, li seguì docilmente.
Rimasti soli il Giulio e il Trivella, vedendo il Giulio aleggiare sul viso paffuto del Trivella un sorrisetto ironico, si rese conto che costui c’entrava in qualche modo con la sua disavventura, e cominciò ad inveire contro di lui.
Ma il Trivella si schermì serafico, poi lo prese per un braccio e si avviò all’uscita dicendogli: “E’ meglio che andiamo prima che ritornino gli infermieri !” Il Giulio, naturalmente, continuò a protestare e a dare del mascalzone al suo compagno, ma questo non se ne dava per inteso e sorrideva sotto i baffi.
Saliti in calesse, ripresero la via di casa e al Rossi, che vedendo la faccia scura del Giulio volle sapere cosa era successo il Trivella disse: “C’è mancato poco che mettessero dentro anche il Giulio”. E il Giulio, rosso come un tacchino, ricominciò a inveire mentre il Trivella, e ora anche il Rossi, se la rideva sotto i baffi.
30.11.2005
Oreste amava la vita.
La sua casetta era posta su un pendio protetto dai venti del nord e al mattino il primo sole batteva sulla sua finestra e gli illuminava l’esistenza.
Non era solo. Aveva Guizzo, il pastore tedesco, che lo acccompagnava dovunque e dormiva davanti alla porta della sua camera. Aveva Nerina, la capra dalle corna argentate, che viveva libera negli ampi spazi della montagna (i terreni di Oreste non erano recintati) ma puntualmente tornava ogni sera per farsi mungere e per dormire nella sua stalla accogliente. E aveva anche un gatto, che lui chiamava Lollo, che viveva in perfetta armonia con Guizzo e con Nerina, tanto che frequentava con regolarità sia la stalla di Nerina che la cuccia di Guizzo.
Per la verità c’era quasi sempre anche un maiale nel porcile, ma questo non era per la compagnia. Era per fare, verso la metà di gennaio, prosciutti , salami e salsicce nonché ottimi mattoni di lardo. E c’erano anche le galline, ma anche queste non erano per la compagnia ma per le uova e per la carne.
La sua casa non era grande, tuttavia era accogliente, fresca d’estate per le sua larghe mura di pietra e calda d’inverno per il camino dove ardeva da mattina a sera un gran fuoco alimentato senza risparmio. E al mattino non occorrevano fiammiferi per suscitare la fiamma. La forte legna selvatica di cerro, infatti, manteneva la brace accesa sotto la cenere. Per cui bastava scoprirla, porvi sopra qualche stecco di fascina e soffiarvi sopra. Bastava poco ed ecco che la fiamma guizzava subito allegra e scoppiettante.
Al piano terreno aveva, oltre all’ampia cucina, un’altra stanza che Oreste usava come dispensa e magazzino. Al piano di sopra aveva due camere: quella di Oreste e quella dei suoi genitori che erano morti da anni ma che Oreste aveva mantenuto pronta e ordinata come se essi la abitassero ancora. Nel piccolo armadio c’erano ancora, lavati e stirati, i loro abiti, così come li avevano lasciati. Ma non era una specie di sacrario. No. Era una stanza come tutte le alttre e Oreste la teneva pulita, apriva la finestra per dare aria e non era triste quando vi entrava. Si vive e si muore, si sa, e la morte fa parte della vita. Quindi non c’era motivo di essere tristi per un accadimento naturale della vita.
Sotto la dispensa c’era anche una piccola cantina semi-interrata, dove Oreste conservava i salumi e il vino asprigno della sua vignetta.
Dalla dispensa si accedeva per una porta-finestra a un minuscolo terrazzino su un lato del quale era costruita una minuscola latrina collegata, per mezzo di un lungo tubo, con il pozzo nero, preziosa riserva di fertilizzante.
Vicino alla casa c’era il forno e un grande pozzo di acqua piovana. A poche centinaia di metri c’era una fonte di acqua purissima che Oreste attingeva per bere e per cucinare. Ma per tutto il resto c’era l’acqua del pozzo
Oreste viveva lavorando la terra di sua proprietà. Aveva la vigna che gli forniva il vino, aspro e acidulo e poco alcoolico, ma che toglieva ottimamente la sete.
Aveva i grandi campi di patate, all’Alpe, ove raccoglieva patate a quintali, per sé e per vendere. Non riusciva mai ad accontentare tutti i compratori che si affollavano perché le sue patate dell’Alpe erano di qualità eccellente, erano dure a germogliare e si conservavano fino alla primavera avanzata.
Aveva l’orto che produceva verdure a volontà. E aveva le grandi selve di castagni che gli fornivano quintali e quintali di farina di castagne che lui chiamava “farina di neccio”. E anche per questa i compratori erano più di quanti ne potesse accontentare.
Una volta al mese scendeva in paese per acquistare la farina per fare il pane e il sale. E anche un po’ d’olio per condire l’insalata. Ma, per tutto il resto, viveva di quel che produceva.
Le sue giornate, tutte uguali, erano semplici ma interessanti. Estate e inverno si alzava alle sei e, recatosi al pozzo, ne traeva un ampio secchio d’acqua e si lavava abbondantemente viso e mani. Poi rientrava in casa e accendeva il fuoco per prepararsi la colazione. In genere mangiava pane e salame o pane e prosciutto, ma non si faceva mai mancare un bella ciotola di latte caldo. Talvolta mangiava un gran piatto di minestrone avanzato dalla sera avanti e riscaldato sul fuoco. E, altre volte, qualche fettadi gustosa polenta arrostita sulla brace e inzuppata nel vino.
Alle sette era già in piena attività. Il lavoro non gli mancava. A seconda della stagione vangava, sarchiava, curava le viti, potava le piante, raccoglieva le castagne, levava le patate dalla terra, seminava….. Ma si prendeva anche le sue pause di riposo, durante le quali osservava la natura intorno a sé, ne ammirava i prodigi, ne benediceva la generosità. Spettacoli che lo incantavano erano le albe e i tramonti. Ma anche le nevicate avevano per lui un fascino particolare, e stava a lungo ad ammirare il paesaggio reso candido da una nevicata.
Viveva la maggior parte del suo tempo fuori, all’aria aperta. Solo nel pieno dell’inverno, durante le nere giornate di pioggia o di tormenta rimaneva in casa. Ma anche qui difficilmente stava con le mani in mano. Riparava gli attrezzi, impagliava le sedie, intrecciava vimini a farne ceste e panieri….. La sera ascoltava un vecchio apparecchio radio, ma non per molto, perché le sue mani non riuscivano a stare in ozio a lungo.
Malgrado avesse già passato i quarant’anni, a metter su famiglia non aveva ancora pensato. Non è che avesse deciso di non farlo. Però aveva sempre rimandato in attesa di qualcosa che lo decidesse a farlo. Per esempio trovare una ragazza che ti facesse rimescolare il sangue e aumentare i battiti del cuore. Ma non era ancora capitato. C’era tempo !
D’altra parte non si sentiva solo. Aveva i suoi animali che gli facevano compagnia e il lavoro che gli riempiva la vita.
Ed era felice.
Perché per lui vedere spuntare dalla terra le prime foglioline verde scuro delle patate era felicità, sentire il rumore del latte della sua capra che schizzava dentro il secchio era felicità, vedere i grappoli d’uva farsi turgidi e prendere colore era felicità, incontrare lo sguardo fedele di Guizzo mentre gli parlava come a un cristiano era felicità, bagnarsi i piedi all’alba nell’erba rugiadosa era felicità.
Come quella mattina d’aprile, mentre andava verso la sua vigna a controllare i nuovi germogli. Il cielo era completamente sereno, non c’era vento e l’aria frizzante cominciava ad annunziare i tepori della primavera. Oreste respirava a pieni polmoni e si riempiva gli occhi di quei monti, di quei boschi, di quegli orizzonti che gli erano così familiari e che tanto amava.
Uscendo aveva notato che Nerina non era più nella stalla e aveva pensato che era stata molto mattiniera. Senza pensare altro. Così la prima reazione alla visione di Nerina sdraiata immobile sotto la grande rupe fu di stupore. Ma quell’immobilità era così totale da suggerire irrimediabilmente l’idea di morte. E fu un’idea sconvolgente. Si avvicinò di corsa e non ci fu bisogno di troppo tempo per constatare che la povera capra era morta: il corpo insanguinato, insanguinate le pietre aguzze sulle quali evidentemente il corpo era caduto, gli occhi aperti ma opachi. Oreste si avvicinò e le sollevò il capo. Il cranio era sfondato e le mani furono bagnate dal sangue. Guardò in alto, verso la sommità della grande rupe e immaginò che da lassù Nerina doveva essere caduta. Ma ne allora ne mai seppe capacitarsi di come la capra, così esperta nei cammini di montagna, avesse potuto cadete. Forse si era portata troppo sul ciglio per cogliere qualche buon bocconcino e la roccia si era sgretolata sotto i piedi. Chissà.
Solo per pochi minuti Oreste rimase immobile a guardare il corpo di Nerina. Il viso era serio ma gli occhi erano asciutti. Improvvisamente si riscosse, tornò rapidamente indietro, a casa prese gli attrezzi necessari e ritornò alla rupe. Qui si mise a scavare quasi con frenesia e non si fermò se non quando ebbe scavato una fossa abbastanza capiente e profonda. Subito dopo vi trascinò il corpo della capra e affannosamente lo ricoprì di terra. Poi si fermò e con la manica della giacca si terse il sudore dalla fronte. Sedette su una pietra e considerò quello che aveva appena fatto. Era come se quell’accanirsi furiosamente a scavare e a seppellire volesse nascondere al mondo la disgrazia che era accaduta. Perché non si sapesse, perché si potesse dimenticarla in fretta, perché si potesse quasi considerarla come non accaduta. Ma dentro al suo cuore c’era tanta pena. – In fondo era solo una capra – provò a dirsi. Ma sapeva che non era così. Nerina non era solo una capra. Era Nerina, la sua Nerina, la compagna della sua solitudine. E sapeva che non l’avrebbe dimenticata e che la sua vita sarebbe stata un po’ meno felice.
Si accorse allora che, accucciato vicino a lui, c’era il fedele Guizzo, che gli era stato vicino tutto quel tempo, silenzioso e discreto. Gli passò una mano sul capo facendogli una carezza e Guizzo lo guardò, fedele e comprensivo. Poi Oreste si alzò, riportò a casa gli attrezzi e riprese la via per la vigna.
E la sua vita continuò sempre uguale. La sua colazione, però, da allora fu senza latte. Diverse volte si recò al mercato di bestiame di Locullo con l’intenzione di acquistare un’altra capra. Ma non lo fece mai. Nerina era insostituibile e non fu sostituita.
E il tempo passò. E le cose continuarono ad accadere come sempre erano accadute. Venne l’estate, venne il tempo della vendemmia, venne il raccolto delle patate e quello delle castagne… E si fece di nuovo inverno.
A gennaio non potè cucinare il suo maiale perché verso Natale questo si ammalò e morì. E il veterinario disse che bisognava seppellirlo perché quella carne non era commestibile. Così dovette acquistare dal salumiere una buona scorta di lardo , di prosciutti e di insaccati. Parienza ! Andrà meglio il prossimo anno.
Quel gennaio fu freddissimo e Lollo si buscò la bronchite. Oreste lo trovò nella stalla di Nerina che tossiva penosamente. Allora lo portò in casa e lo pose nell’angolo del caminetto sempre acceso. Poi gli mise davanti un pezzetto di salsiccia, ma il gatto, oppresso dalla tosse, non riuscì a mangiarla. Era tardi, era ora di coricarsi….e allora Oreste mise altra legna sul fuoco e se ne andò a letto, pensando che al mattino il gatto sarebbe stato meglio. Ma al mattino la salsiccia era ancora davanti al gatto, intatta. Allora Oreste andò in paese, comperò alcune bottiglie di latte e, tornato a casa, ne scaldò un poco e lo mise davanti al gatto in una picola ciotola. Il gatto lo annusò, poi cominciò a lambirlo piano piano, interrotto frequentemente dalla tosse che lo squassava. Ma riuscì a berlo tutto. E il calore del fuoco ravvivato sembrò farlo riprendere vigore. Stava così vicino al fuoco che il bel pelame nero cominciava a bruciacchiarsi. Più tardi riuscì anche a mangiare un poco di salsiccia. Ma, soprattutto, ogni tanto lambiva un po’ del latte che Oreste non mancava di versargli nella ciotola. Rimase tre giorni nel cantuccio del camino, si bevve un buon litro di latte e si mangiò tre “cornocchi” di salsiccia. Poi ricominciò a muoversi per la casa. Ogni tanto tossiva ancora ma molto meno e, alla fine, smise del tutto e fu guarito. Ma il bel pelo sbruciacchiato non fu mai più nero lucido come prima. Oreste diceva che ora aveva il pelo color topo.
E anche questa era passata. Tornò la primavera e le cose ripresero ad andare come al solito. Ma l’inverno successivo Lollo si ammalò di nuovo e, questa volta, non ce la fece. Una mattina Oreste lo trovò morto nel suo cantuccio. La seppellì e si sentì triste. Continuava a pensare che la morte è un evento naturale nella vita di tutte le creature, ma non riusciva a non essere triste. La natura là fuori era sempre bella e serena, la vita era sempre bella, ma ampie parentesi di tristezza si insinuavano, ora, ogni tanto, a rendere meno felice la vita di Oreste.
Intanto anche per Guizzo passavano gli anni. Ne aveva, ormai, quasi sedici e mostrava i segni della vecchiezza: si muoveva stancamente e rimaneva volentieri sdraiato a lungo. E quando Oreste andava all’Alpe lo seguiva ancora, sì, ma bisognava ogni tanto fermarsi per farlo riposare. Inesorabilmente sarebbe venuto presto il momento di dover perdere anche quel compagno. E anche questo accresceva la tristezza dell’uomo.
L’inverno seguente venne, se possibile, ancora più freddo dei precedenti. Gli animali selvatici si aggiravano intorno alle abitazioni alla ricerca disperata di cibo.
E, una notte, uno di loro, certo una volpe, riuscì a scardinare la porta del pollaio che, forse, non era stata chiusa bene, e si portò via tutte le galline. Al mattino lì intorno c’era rimasta una grande spennata e qualche traccia di sangue sulla neve.
Oreste ne fu dispiaciuto e pensò che avrebbe dovuto proteggere meglio il pollaio prima di riprendere altri polli. Ma, intanto, bisognava lasciar passare l’inverno.
E l’inverno passò. E venne la primavera. E l’attività di Oreste riprese alacremente come sempre. Quelle uscite mattutine nella rugiada, quel cielo senza una nube, quel sole che accarezzava la pelle mettevano allegria e tenevano lontana la tristezza. A Oreste pareva persino che la vita avesse ripreso ad essere bella come una volta.
Finchè un pomeriggio, subito dopo aver fatto il desinare, si accorse che Guizzo non era vicino alla sua ciotola. Provò a chiamarlo ma il cane non venne. Allora uscì all’aperto e lo vide acciambellato sotto il melo che stava davanti alla casa. Sembrava che se ne stesse lì a farsi riscaldare dal sole di aprile. Ma, invece, era morto.
Era morto nel sonno, serenamente e senza soffrire, unicamente di vecchiaia.
Oreste si chinò su di lui e lo accarezzò a lungo sul capo, dicendogli cose amichevoli, come faceva quando era in vita. Non voleva cedere alla commozione, ma le lacrime scendevano senza freno e, alla fine, si lasciò andare e singhiozzò a lungo.
Gli fece bene. Dopo un po’ si sollevò ed era calmo. Con calma prese un piccone e un badile e lo seppellì sotto il melo, proprio lì dove era morto.
Quando ebbe finito ripose gli attrezzi e andò a fare i lavori della giornata. Ma sapeva che la sua vita sarebbe stata diversa e che la tristezza non lo avrebbe abbandonato forse mai più.
La sera, quando si ritirò in casa, avvertì acutamente il senso di solitudine. Non aveva più nessuno. Era solo in quella casa ora così silenziosa, e non sarebbe stato facile sostituire i compagni che gli erano venuti a mancare e che, forse, erano insostituibili come Nerina.
Andò a dormire con il cuore gonfio di tristezza. E il dolce mattino primaverile non riuscì a rasserenarlo. Si guardò in giro: la stalla vuota, il porcile vuoto, il pollaio vuoto, vuota la casa di Lollo e Guizzo…..La sua solitudine era ormai totale e sentì una gran pena. Non ebbe voglia di far colazione e si sedette sulla soglia della porta. C’erano le cose di ogni giorno che avrebbe dovuto fare, ma gli mancò la volontà di alzarsi da quella soglia. Il sole raggiunse il suo culmine e venne l’ora di pranzo. Ma Oreste rimase seduto sulla soglia. Il sole declinò e venne sera. Ma Oreste era ancora lì. Solo a notte ormai fonda si alzò e si gettò sul letto senza spogliarsi. Ma non dormì. E i suoi pensieri furono di rovina e di morte. Al mattino si levò, ma solo per andarsi a sedere sulla soglia.
I suoi pensieri erano funerei. Non aveva più nessuna voglia di continuare a fare le cose di sempre. Avvertiva la perdita dei suoi compagni come un segno del destino. Un destino di morte.
- Se questo è il destino, così sia – si disse. E non mangiò più.
Passarono i giorni e Oreste li passò seduto sulla soglia, con lo sguardo sempre più spento, con la mente via via più offuscata, come immerso in una nebbiolina che gli sfumava il contorno delle cose. Ogni mattina faceva più fatica ad alzarsi dal letto e ogni sera a salire in camera per gettarsi sul letto.
Finchè una sera, mentre cercava di salire, non resse allo sforzo e svenne. Si riprese il mattino dopo che era già giorno fatto, e si ritrovò sdraiato ai piedi della scala.
Tentò di alzarsi, ma la testa gli girava vorticosamente e ricadde carponi. Ebbe desiderio di uscire all’aperto e, sempre carponi, andò alla porta, l’aprì e uscì.
La luce del mattino lo stordì e dovette chiudere gli occhi. Ma la carezza del solo sembrò rinvigorirlo un poco. Così riaprì gli occhi e, sempre carponi, si portò sotto il melo, vicino a Guizzo, e qui si sdraiò supino. A occhi chiusi si rilassò. Si sentiva calmo e sereno. Allungò un braccio e sentì sotto la mano il pelo di Guizzo. Gli cercò la testa e prese ad accarenzarlo delicatamente. La vicinanza di Guizzo gli infuse una grande dolcezza. Si sentì protetto e pensò che non c’era nulla di più bello che starsene lì, riposato, accarezzando il proprio cane sul capo. Gli sembrò persino di avvertire la lingua di Guizzo che gli lambiva la mano. Poi fu il buio.
Poldo era un uomo tranquillo. Aveva una cinquantina d’anni ma viveva ancora con il vecchio padre e con la vecchia madre nella loro vecchia casa. Aveva avuto un fratello che, quello sì, s’era sposato. Però c’era stata la guerra e lui aveva dovuto andare a fare la guerra in Russia e non era più tornato, lasciando la moglie e un figlio che non aveva mai conosciuto.
Poldo, invece, non era andato a fare la guerra perché non era stato giudicato abile alla visita di leva. Però il tempo della guerra, con i suoi disagi e i suoi pericoli, aveva lasciato tracce indelebili nella sua memoria. Tanto che nei suoi discorsi un po’ arruffati parlava spesso della guerra. E ne parlava come se essa fosse stata la causa di tutto ciò che nel mondo era successo anche dopo.
Così la gente aveva cominciato a chiamarlo “il Guerra” e il suo vero nome non lo ricordava nemmeno più.
Abitava in un minuscolo paesino dove lavorava stancamente un fazzolettino di terra insieme al padre. Il padre, però, aveva lavorato come operaio ed aveva una pensioncina che permetteva alla famiglia di sopravvivere.
La gente non lo considerava proprio scemo ma, insomma, non lo riteneva proprio del tutto normale. Tuttavia nessuno lo trattava male o lo derideva. Quel suo eterno sorriso, quel suo mostrarsi sempre tranquillo e sereno ispirava simpatia e tutti lo salutavano festosamente e spesso lo invitavano a bere un bicchierotto nelle botteghe del paese.
Nessuno, però, parlava veramente con lui. Un saluto, qualche battuta scherzosa e niente più.
- Guerra, come va ? L’hai trovata la morosa ? –
- Guerra, che dici, ci sarà la guerra ? - …..
E lui rispondeva al saluto con qualche parola un po’ arruffata che nessuno si sforzava di capire.
Quasi quotidianamente andava nel capoluogo del suo comune – un paesotto un po’ più grande – e anche qui tutti lo conoscevano e lo trattavano con simpatia. E, purtroppo, lo invitavano troppo spesso a bere qualche bicchiere di vino.
Mi accadde, una sera, di fare un pezzo di strada con lui che rientrava al suo paesello. Dopo il solito saluto scherzoso e la sua risposta amichevole fatta più di “Eh ! Eh!” che di parole, prendemmo a camminare fianco a fianco lungo la strada polverosa. Ed io, abbandonato il tono scherzoso del saluto, gli feci una domanda parlando normalmente. E lui, pure parlando normalmente e in modo chiaramente comprensibile, mi dette la risposta. Allora gli feci altre domande e lui mi dette sempre delle risposte pertinenti e sensate. Scoprii, così, che il Guerra non solo sapeva parlare normalmente, ma era perfettamente informato di quello che accadeva intorno a lui. E non intendo soltanto nel suo piccolo e limitato mondo ma anche nel grande mondo, compresi i problemi internazionali e i fatti della politica. Seppi, così, che egli leggeva i giornali e forse anche altro, e si teneva informato su tutto. La cosa mi lasciò stupito e, da quella sera, guardai il Guerra con altri occhi.
Purtroppo le offerte di un bicchier di vino si moltiplicavano ed egli ben volentieri accettava. Così accadde che spesso si ritrovò ubriaco e, questo, non fu bello da vedersi.
Una sera, mentre tornava a casa piuttosto brillo, inciampò in un mucchio di ghiaia e vi cadde sopra.
Non riuscì a rialzarsi e dormì lì fino al mattino. Qualcuno lo vide, la voce si diffuse e qualcuno cominciò a pensare che il Guerra stava diventando un problema.
Io non so come fu e chi si fece carico della cosa. Ma un giorno seppi che il Guerra era stato portato al manicomio. A quell’epoca i problemi del genere si risolvevano così. Disgraziatamente.
Come avrà vissuto questa esperienza ? Probabilmente non in modo traumatico ma con rassegnazione e con la sua solita serenità.
Poi i manicomi vennero chiusi, ma il Guerra non aveva più nessuno che potesse occuparsi di lui. I suoi genitori erano morti e lui era invecchiato. Così fu accolto da una casa di riposo per anziani.
Chi l’ha visto dice che non era cambiato. Era sempre il solito Guerra, sereno e tranquillo.
Ora è morto e tutti lo ricordiamo, provando anche un pizzico di rimorso.