Memorie:

 

1)      Si può piangere per un gatto ?

2)      La fonte del passato

3)      La murella della ferrovia

4)      Il maestro di montagna

5)      Campocatino

6)      Gioia di vivere

7)      C’era solo una nuvola

8)      La Garfagnana e le castagne

9)      La Jara

10)  Barba cavallo

11)  Il dopo

12)  La montagna di luce (sogno)

13)  Il caffellatte e il pane americano

14)  Il pontile caricatore

15)  Questo tu manciare

16)  Scuola unica pluriclasse

17)  I merli nel nido

18)  Ricordi antichi

19)  Io e i serpenti

 

 

 

                                                   SI PUO’ PIANGERE PER UN GATTO ?

                                              (dialogo di me con la mia maschera d’uomo saggio)

 

 IO      -  Eri un batuffolo lucido e vivo. Non sei più che un mucchietto di pelo insanguinato.

 MUS  -  Ma sulle strade del mondo muoiono mille uomini al minuto. Non si può piangere per un gatto !

 IO      -  I tuoi grandi occhi gialli avevano una luce amica. E si socchiudevano di felicità. Nella tragica fessura stravolta non

               c’è rimasto che un bianco gelido.

 MUS  -  Ma una continua minaccia di violenza e di guerra incombe sul mondo. Gli uomini sparano e uccidono. Non si può

                piangere per un gatto !

 IO       -  I fasci dei tuoi muscoli felini guizzavano sotto la pelle; nelle sinuosità del tuo corpo tutto era vita, movimento,

                armonia. Ora tutto è immobile, pietrificato, le zampine come raccolte per un balzo verso l’ignoto, il nulla…

 MUS   -  Ma ci sono i corpi sociali in movimento, le lotte sociali non hanno tregua, l’assetto sociale è discusso e va

                trasformandosi. Non si può piangere per un gatto !

 IO       -  Si riempiva di una tiepida ciambella palpitante, si riempiva di te il tuo “puffo” rosa. Scolorito, freddo, immobile,

                dolorosamente vuoto, ora dice di te, che manchi…

 MUS   -  Ma c’è la fame nel mondo. I cicloni. I senza tetto…. Non si può piangere per un gatto !

 IO       -  Il tuo cuscino vicino alla stufa, caldo, era il segno del tuo diritto a vivere e a restare, del tuo diritto ad avere affetto

                e protezione. Ora è scomparso e intorno alla stufa tutto è grigio. Anche i pensieri.

 MUS   -  Ma a intere specie si nega il diritto alla vita. Si temono catastrofi ecologiche. Si paventa la bomba demografica.

                Non si può piangere per un gatto !

 IO       -  Era densa di misteriosi fruscii la tua soffitta. E di rumori noti: rassicuravano le veglie nel tempo della notte. Ma il

                tempo della tua vita è trascorso. E sugli scatoloni vuoti immersi nelle notti troppo quiete e silenti restano ormai solo

                i segni delle tue inutili unghiate.

 MUS   -  Ma il cielo è pieno d’Iddio. E’ lui che protegge e rassicura. E’ a lui che occorre rivolgersi fiduciosi. Non si può

                piangere per un gatto !

 IO       -  Immobile. Sulle ginocchia. Assorbivi i miei pensieri e le mie carezze. Senza consigli. Senza compassione. Senza

                ricatti…. Ora le mie delusioni sono sole. I miei rimorsi. I miei rimpianti.

 MUS   -  Ma ci sono i doveri, gli impegni morali, le responsabilità, la dignità…. Non si può piangere per un gatto !

 IO       -  Gli abeti dell’orto ti erano complici quando li sfioravi furtivo, guardingo, silenzioso, inebriato, felice…. Ora

                ombreggiano una triste piantina di rosa nata su un pugno di terra da poco smossa.

 MUS   -  Ma………………………….

 IO       -  No !

                Passano i giorni e ancora gli uomini muoiono. E’ vero. E soffrono. E ancora incombono minacce di tragedie.

                E’ vero, è tutto vero !

                Ma anche tu hai diritto a una lacrima.

                Qualcuno ti piangerà.

                                                                                                                    Mario Pellegrinetti

 

Pubblicato dal 2/1/05 al 7/3/05 sul sito “Club dei poeti”

 

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                        LA FONTE DEL PASSATO

 

 

C'era come un'attesa nell'aria. La calura estiva si affacciava alla porta della Casetta col suo alito denso e affannoso, pero` nell'ingresso si stava bene. L'ombra del “bersò” di bosso che si protendeva fin quasi alla porta faceva fresco.

 Eravamo comodamente seduti nelle grandi poltrone di paglia intrecciata, io e mio padre. La paglia lasciava circolare l'aria e anche questo faceva fresco. Si stava bene.

E' c'era questa attesa nell'aria.

 Mio padre aveva appena finito di raccontare un episodio di tanto tempo fa, di quando era giovane, prima della guerra quindici-diciotto, quando nel paese non si era ancora mai vista un'automobile.

 Ed io immaginavo nitidamente la piazza, le strade, le persone del racconto appena udito. Le immaginavo con tanta chiarezza perche` i racconti di mio padre erano sempre ricchissimi di particolari, precisi, circostanziati.

 E altri particolari, anche minuti, mio padre mi avrebbe fornito quando io glieli avessi chiesti, perche` aveva una memoria sicura di quei fatti lontani, di quel mondo passato, di quelle persone.

 Aveva questo modo un po' pignolo di raccontare le cose, mio padre, ed anche quando  ripeteva il racconto di un evento gia' piu' volte raccontato, il suo modo era sempre quello , non tralasciava mai nessun dettaglio, era sempre preciso, completo.

 Ricordo che la mamma ridacchiava di questo suo raccontare cosi` meticoloso e ripetuto, e spesso lo prendeva bonariamente in giro.

 Io, invece, non ho mai provato fastidio ad ascoltare i suoi racconti, anche quando li ascoltavo per l'ennesima volta, sempre ugualmente precisi, dettagliati, rifiniti con tutti i particolari.

 Anzi, provavo sempre un grande piacere nell'ascoltarli, perche`sempre, ogni volta, riuscivo a immaginare con estrema nitidezza, gli scenari del racconto.

 Era come ammirare un quadro. Un quadro, infatti, puo` essere guardato piu` volte, puo` essere gustato ripetutamente, senza noia.

 Ed ora avrei fatto delle domande, lo facevo sempre, e mio padre mi avrebbe dato delle risposte, e lo avrebbe fatto volentieri perche` sentiva che ero veramente interessato a questi racconti molte volte sentiti e ogni volta ammirati, come un quadro.

 Ed ogni risposta mi avrebbe consentito di mettere meglio a fuoco un dettaglio qualsiasi, un particolare qualunque di questo mio quadro.

 Il babbo stava sicuramente aspettanto le mie domande, e sono sicuro che anche lui aveva, come me, davanti agli occhi il quadro , lo scenario del racconto, e lo esaminava attentamente preparandosi a rispondere.

 E cosi` c'era quest'aria di attesa.

 Una lucertola fece una rapida comparsa sulla soglia, poi saetto` via, ma non fece rumore.

 Niente faceva rumore. In quel caldo primo pomeriggio estivo tutto taceva, tutta la campagna riarsa che si intravedeva attraverso la porta spalancata era silenziosa, come addormentata.

 Ed io mi preparavo a fare delle domande, con quel quadro davanti agli occhi, con quella nitida immagine di un passato che aveva preceduto la mia nascita ma che io, me ne stavo rendendo conto in quel momento, sentivo mio. Si , effettivamente quel passato mi apparteneva, era come se lo avessi vissuto, era veramente mio.

 Provai un grande benessere, mi sembro` molto bello quello che stavo provando, sentivo che in qualche modo, con l'appropriarmi dei ricordi di mio padre, avevo prolungato all'indietro la mia vita, come se fossi nato molto tempo prima.

 Ed ora avrei fatto delle domande, e mi sarei appropriato di altri ricordi, e avrei arricchito ancora di piu' di ricordi questa mia vita precedente.

 Voltai lentamente il capo e guardai mio padre. Era immobile ,il suo viso scarno era sereno e disteso. Aveva appoggiato il capo alla spalliera della poltrona e guardava fuori, davanti a se`. I suoi capelli candidi tagliati corti , alla tedesca diceva lui, erano ben pettinati. Indossava una camicia chiara, con i polsini slacciati e le maniche leggermente rimboccate. Appoggiava le mani, con tutto l'avambraccio, sui lunghi braccioli di legno della poltrona.

 Guardai il suo capo. Quante memorie, quanti episodi vissuti o uditi o letti erano racchiusi in quella testa ? Quanti dettagli , quanti minuti particolari di tutti quegli episodi potevano da lui essere evocati ?

 E a me bastava fare, come di consueto, qualche domanda, per ottenere informazioni su informazioni.

 Mi resi conto acutamente di quanto questa fonte di informazione fosse importante per me, di quanto fosse stata importante per legarmi cosi` saldamente a quel passato che ora sentivo tanto mio e che certamente aveva contribuito a fare di me quello che ero e che sono.

 Era, per me, la fonte del passato, alla quale potevo continuamente attingere per sapere cio` che era quando io non ero , per sapere dove affondavano le mie radici , per conoscere sempre di piu` mio padre, per conoscere sempre di piu` me stesso.

 Ma nello stesso tempo, e altrettanto acutamente, mi resi conto che prima o poi questa fonte si sarebbe esaurita e provai smarrimento e quasi orrore al pensiero che di tutta quella enorme quantita` di conoscenze racchiuse in quel capo che stavo guardando, prima o poi non sarebbe rimasto assolutamente niente.

 Ora provavo un gran dolore al pensiero che mio padre sarebbe un giorno morto, ma sentivo anche questo senso di smarrimento causato dalla consapevolezza che , allora, non avrei piu` potuto avere risposte, che, allora, lui non avrebbe piu` potuto fornirmi informazioni di nessun genere, che, allora, non avrei piu` potuto contare sui ricordi suoi, ma mi sarei trovato solo con i miei ricordi.

 Che, in quel momento, mi sembrarono terribilmemte pochi.

 Immerso in questi pensieri continuavo a tacere, quando mio padre volse il capo verso di me.

 Allora ebbi paura che potesse leggere i miei tristi pensieri e parlai.

- Papa` - dissi - perche` non provi a scrivere tutti questi tuoi ricordi, via via che ti affiorano alla memoria ? -

 L'avevo chiamato "papa`" , come sempre quando mi rivolgevo a lui.

 Anche quando parlavo di lui con la mamma, lui era il papa`. Mio fratello, invece, lo ha sempre chiamato "babbo", e quando noi parlavamo di lui, lui era il babbo anche per me.

- Eh - rispose - potrei anche farlo.- E mentre parlava sorrideva un po' mestamente,  almeno cosi` mi parve. Forse aveva intercettato il filo dei miei pensieri e anche lui aveva pensato alla sua morte.

 Subito dopo parlammo d'altro , ma il giorno dopo gli portai un grosso quaderno e una penna nuova.

 

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                RICORDI D’INFANZIA: LA MURELLA DELLA FERROVIA

 

La nostra casa era vicinissima alla ferrovia. Infatti quando fu costruita la ferrovia, negli anni venti, una parte della casa dovette essere demolita per fargli posto. Cosi` quel che rimase della casa era proprio vicinissimo alla ferrovia. Praticamente da quel lato la casa aveva solo un marciapiedino largo un metro e, poi, c'era un muro alto forse un metro e venti che segnava il confine con la ferrovia. Era un bel muro di pietra che terminava, alla sommita`, con dei lastroni di arenaria ben squadrati larghi quanto il muro e, quindi, una quarantina di centimetri, lunghi sessanta o settanta e alti almeno dieci o do- dici. Era, quella, la "murella della ferrovia". Non so perche` ma quella murella esercitava un fascino particolare su tutti i ragazzi: era bello starci seduti a chiacchierare, starci a cavalcioni, con una gamba che penzolava verso la ferrovia e una che penzolava verso l'esterno.... Ma, soprattutto, era bello correrci sopra ed anche fare i salti. Saltare dalla murella nel piazzale della nostra casa era un esercizio piuttosto semplice. Piu` avanti, lungo la strada che scendeva verso il passaggio a livello era un po' piu` impegnativo, dato che la "murella" era un po' piu` alta. Ma l'esercizio veramente temerario era quello si saltare sulla massicciata della ferrovia, che si trovava a un livello di circa due metri piu` in basso.

Anch'io, verso gli otto o nove anni, cominciai a frequentare abbastanza assiduamente la murella, salendoci sopra e provando anche qualche salto. Qualche volta osai provare anche il salto piu` difficile, quello sulla massicciata della ferrovia, ma non lo feci spesso poiche` lo ritenevo un atto troppo temerario. In realta`, pero`, non mi era molto facile stare sulla murella, poiche` la mia nonna materna, nonna Mariu`, che era terrorizzata dall'idea che potessi cadere nella ferrovia, magari quando passava il treno, era vigile e, se mi vedeva sulla murella, cominciava a strillare come una disperata, con gli occhi fuori dalle orbite, le mani protese, il viso rosso finche` non mi aveva costretto a scendere. Per dir la verita` la nonna non aveva quasi nessuna autorita` su di me ed io avrei potuto benissimo ignorare le sue richieste di scendere, ma questo suo agitarsi chiassoso che richiamava l'attenzione di tutti mi metteva in imbarazzo al punto che le ubbidivo per farla tacere.

Una volta, dovevo avere sugli otto anni, mi trovai a non avere la nonna alle calcagna e, quindi, nelle condizioni di poter godere tranquillamente la murella. Ci salii sopra e cominciai a correre felice dal piazzale al passaggio a livello e poi indietro e poi di nuovo, e ancora, e ancora... Ero ebbro di liberta`. Questa ebbrezza, pero`, mi distrasse e dovetti commettere un errore, cioe` mettere un piede fuori dalla murella. E`, questa, un'ipotesi che faccio, perche` non mi resi affatto conto, allora, di cio`. Quello che provai fu una curiosissima sensazione : un attimo prima stavo correndo sulla murella e un attimo dopo sentii un forte colpo nella schiena e, davanti a me, vidi il...cielo. Dico deliberatamente "davanti" e non "sopra" perche` in quell'attimo non mi ero ancora accorto di aver cambiato posizione.

Un attimo dopo, pero`, mi resi perfettamente conto che ero sdraiato supino nella strada (per fortuna non ero caduto dalla parte della ferrovia), che il cielo era "sopra" di me e che la botta sulla schiena era quella che avevo ricevuto dal suolo cadendovi proprio con la schiena.

Mi prese il panico. Tutte le cose tragiche....testa sanguinante, ossa rotte, ricoveri in ospedale....che la nonna Mariu` mi prediceva di continuo, mi si affollarono alla mente. Temetti di essermi ferito seriamente, immaginai la gente che accorreva gridando, il medico, le cure dolorose, l'ospedale....e mi sgomentai. Ma fu un attimo. Intorno a me c'era un perfetto silenzio. Mi guardai intorno : nessuno.

 Questo mi tranquillizzo` un po', mi alzai senza fatica, ero un po' "rintronato" ma non sentivo grandi dolori. Comunque dovevo controllare. Allora, come sempre quando avevo qualche problema, mi diressi di corsa verso la fagiolaia che si trovava nell'orto, sul retro della casa e mi imboscai fra i fagioli. Qui, al riparo da occhi indiscreti, cominciai a far l'inventario dei danni subiti : la testa non mi doleva affatto. La toccai, mi guardai le mani e non vidi tracce di sangue. Le braccia e le gambe erano integre e funzionavano bene.

 La botta sulla schiena era stata appena un po' dolorosa li` per li`, ma ormai il dolore era passato. Tutto a posto dunque. Con le mani spazzolai un po' gli abiti che risultavano impolverati e, quindi, lasciai tranquillamente il mio rifugio fischiettando.

 

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                          Il maestro di montagna

 

-         Buon giorno signor maestro

-         Buon giorno Caterina

-         Stamani ha tribolato ad arrivare quassù

-         Ho tribolato tanto. Dopo aver lasciato la strada e preso il viottolo mi sono trovato con la neve così alta che le gambe ci sprofondavano tutte

-         Dalla casa del Grillo la guardavano ed erano pronti a venirle in aiuto se ce ne fosse stato bisogno

-         Per fortuna mia moglie mi aveva dato una fiaschetta di cognac e ogni tanto mi tiravo su con un sorso…Ma ormai non ce la facevo più…Avevo l’ombrello e mi ci aiutavo come se fosse un bastone, ma a un certo punto si è troncato il manico e addio bastone

-         Eh , è colpa nostra che non l’abbiamo avvertito…In quel viottolo lì il vento ci ammucchia tutta la neve e non ci si passa più. Quando c’è la neve bisogna prendere il viottolo del bosco che passa vicino alla capanna dei Discini…

-         Ho capito. E va be’, pazienza. La prossima volta saprò come fare

 Ero entrato nella povera cucina della casa che, al piano di sopra, ospitava la scuola in una stanzetta illuminata da una piccola finestra che guardava l’ultimo tratto di costa prima di arrivare al valico. Ma quella mattina di scolari, che, provenendo dai casolari sparsi per la montagna, dovevano percorrere lunghi tratti a piedi, non c’era neppure l’ombra. La neve era troppo alta e così fresca che ci si sprofondava dentro. Per un bambino sarebbe stato impossibile camminare.

 D’altra parte – avevo dato un’occhiata all’orologio – ormai era mezzogiorno passato. Avevo impiegato quattro ore a percorrere quel benedetto viottolo che, normalmente, percorrevo in un quarto d’ora.

-         Venga qua, si scaldi – e la Caterina mi invitava col gesto a togliermi il cappotto e ad avvicinarmi al grande camino dove era acceso un bel fuoco il cui calore si diffondeva per tutta la cucina

-         Grazie, ho proprio bisogno di scaldarmi e di riposarmi un po’

L’Ulrico, il padrone di casa, stava seduto da un lato e spinse verso di me una sedia, invitandomi a sedere con cordialità. Oltre ad Ulrico e Caterina, la moglie, la  famiglia era composta dal figlio Giovanni,  dalla di lui moglie Rosina e dalla figlioletta di due anni, Maria. Frequentavano la casa, però, ed erano spesso presenti, anche un’altra figlia di Ulrico e Caterina, Carla, sposata con un pastore che abitava poco distante, il di lei marito e i suoi due figli.

 Ulrico e Caterina erano pensionati ma possedevano un po’ di terra della quale si occupava il figlio Giovanni. La nuora veniva da un altro paese e faticava un po’ ad assuefarsi a quella vita di montagna.

 Ed effettivamente la vita lassù non era per niente comoda. La casa era di proprietà ma era un po’ malridotta. I muri erano di pietra ma senza intonaco all’esterno, per cui quando pioveva e tirava il libeccio rivoletti di pioggia si insinuavano attraverso le pietre e colavano all’interno. Le porte e le finestre erano, sì, munite di infissi, ma erano tutt’altro che sigillanti e il freddo filtrava abbondantemente. L’acqua occorreva andarla a prendere alla fonte, cinquanta metri più in basso, e non era per nulla agevole. Ma, soprattutto, non c’era la corrente elettrica. E l’unica fonte di riscaldamento era il grande camino che riscaldava ottimamente la cucina ma ben poco calore mandava al resto della casa che, oltretutto, aveva due piani sopra il pian terreno.

 Nella stanzetta adibita a scuola c’era una vecchia stufa di terracotta che accendevo, ogni mattina, con i fascelli di legna portati da ogni scolaro. Gli scolari erano quindici: due di quinta, quattro di quarta e tre di terza, che frequentavano la scuola tutti i giorni, escluso il giovedì, dalle 9 alle 12. E poi: tre di prima e tre di seconda che frequentavano negli stessi giorni dalle 13 alle 15.

 Mentre Ulrico ed io ci scaldavamo al fuoco chiacchierando di questa grande nevicata, Giovanni era fuori ad occuparsi del bestiame, Rosina accudiva la bimba e Caterina preparava la polenta di neccio (di farina di castagne) armeggiando col paiolo. Io, che il pranzo (un bel panino) me lo portavo da casa e lo consumavo nella scuola, mi alzai per andare su a pranzare, ma i due vecchi e la nuora non vollero sentire ragioni e dissero che questa mattina avrei pranzato con loro. Io feci qualche doveroso complimento ma l’odore della pancetta che sfrigolava nella padella e della polenta che stava cuocendo nel paiolo erano troppo invitanti. Così accettai.

 La polenta fu abilmente gettata sul tavoletto e fatta a fette con uno stecco di frassino arcuato, ciascuno ebbe la sua razione di pancetta nel piatto e si prese, direttamente dal tavoletto steso sul tavolo di cucina, due o tre belle fette di polenta fumante.

 Il pranzo fu allegro ma composto. Il mangiare è un rito importante, da non prendere alla leggera. Ognuno di noi si versava il vino direttamente dal fiasco ma con moderazione. L’Ulrico assaporava la polenta e stava dicendo che la farina di quest’anno era, sì, discreta, ma meno dolce di quella dell’anno scorso. Forse a causa delle eccessive piogge autunnali. Le donne tacevano.

 Terminato il pranzo le donne si alzarono per rigovernare mentre gli uomini rimasero seduti al tavolo a fumare e a sorseggiare un ultimo goccio.

 Nel pomeriggio salii nella scuola per preparare la lezione dell’indomani e rimasi fino a buio. Poi ridiscesi a chiacchierare con l’Ulrico intorno al fuoco. Ma venne presto l’ora di cena – minestra di fagioli e formaggio – ed io fui ancora ospite gradito.

 Il problema era che con quella neve non avrei potuto rientrare a casa per cui avevo chiesto se potevano darmi un letto per dormire. E la Caterina aveva detto che in qualche modo mi avrebbero accomodato.

 Così dopo cena tutti a veglia intorno al camino, alla luce di una lampada ad acetilene, a chiacchierare del più e del meno e ad ascoltare le avventure dell’Ulrico che da giovane era stato in America. Ma l’attualità di cui pure si parlava non riguardava le cose del mondo di cui si occupavano i giornali e la radio (la televisione ancora non c’era). Quel mondo era troppo lontano, la radio lassù non funzionava e i giornali non arrivavano. Cìò che interessava questa gente erano le cose vicine che avevano a che fare con la loro vita: l’andamento delle stagioni e lo stato dei magri raccolti, il rimboschimento del monte Volsci che aveva tolto terreno al pascolo delle pecore, la costruzione della diga nella valle sottostante, la disgrazia che aveva colpito l’Ulisse, che aveva perduto un figlio che lavorava in galleria per una mina esplosa troppo presto…..

 Cercavo di partecipare alla conversazione ma mi accorgevo che avevo ben poco da dire intorno a quegli argomenti per me poco familiari. Mi accorsi, però, e la cosa mi fece molto piacere, che io non ero percepito come estraneo, bensì come un membro non secondario della comunità. La scuola era importante e ne erano consapevoli.

 La serata trascorse molto gradevolmente. C’era molto calore e non solo quello del fuoco.

 Quando fu l’ora da andare a dormire la Caterina mi invitò a seguirla mentre saliva le scale con una candela accesa in mano. Salimmo fino al secondo piano ed entrammo nella camera degli sposi (il figlio e la nuora). La Caterina mi disse che avrei dormito qui. Io tentai di protestare, che non volevo arrecare troppo disturbo….ma la Caterina posò la candela sul comodino, disse che andava bene così e se ne andò.

 La camera era pulita e ordinata ma, naturalmente, fredda. Mi spogliai in fretta e mi infilai sotto le coperte. Avevo con me Il rosso e il nero e provai a leggere qualche pagina alla luce della candela. Ma ci si vedeva poco e le mani mi gelavano. Così soffiai sulla candela e mi accucciai sotto le coperte.

 Tutto era silenzio nella notte. Da un’imposta non chiusa bene filtrava il chiarore immenso della neve che copriva tutta la montagna. Lassù regnava una pace arcana.

 Ed io sentivo l’animo invaso da una grande serenità.

 

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                                                          CAMPOCATINO

 

A Poggio lascio la strada regionale 445 e la valle del Serchio per inoltrarmi nella stretta valle del torrente Edron, affluente del Serchio. La strada si inoltra fra ripe boscose e punta decisamente verso le Alpi Apuane le cui vette si intravedono in alto.

 Si procede lungo un tratto pianeggiante sulla riva destra dell’Edron finchè, in località Ferriera si passa sulla riva sinistra e si comincia a salire. Sulla mia destra, in alto, intravedo il piccolo borgo di Puglianella, appollaiato su una rupe, mentre sulla sinistra, a oltre 800 metri di altitudine, si indovina Careggine, affogata nel verde.

 La strada è sufficientemente larga e asfaltata ma con molte curve.  Eccoci in località Grottone. Davanti a noi si para la massa imponente della diga che sbarra il torrente formando un profondo lago artificiale capace di quaranta milioni di metri cubi d’acqua freschissima.

 Si sale ancora un po’, la strada  raggiunge l’altezza della diga e appare il lago, di un verde cupo, lo stesso verde delle foreste che lo circondano. E’ il lago di Vagli, costruito a suo tempo dalla Società Elettrica Valdarno ed ora gestito dall’ENEL.

 In questo momento il livello dell’acqua è basso e, con immutato stupore, vedo emergere dalle acque un campanile. Proprio così: nel bel mezzo del lago dall'acqua immota si erge una torre campanaria ancora intatta. Posso immaginare lo sbigottimento del visitatore che giunge quassù per la prima volta. Il fatto è che in questa vallata, che costituisce ora il fondo del lago, sorgeva, un tempo, un paesino: Fabbriche di Careggine. La costruzione del lago comportò il suo sacrificio. Gli abitanti furono indennizzati e costretti ad abbandonare le loro case. Poi le acque del lago sommersero tutto. Ora il paesino giace laggiù e solo quando il livello delle acque si abbassa riemerge qualcosa. Ogni dieci anni, però, per effettuare la dovuta manutenzione alla diga, il lago viene completamente svuotato e allora il paese riemerge interamente con le sue case, la sua chiesa, il suo cimitero e, naturalmente, il suo campanile. E allora sono decine di migliaia i visitatori che vogliono vedere il paese fantasma, senza più colori, tutto color del fango.

 Non posso non soffermarmi qualche minuto ad ammirare l'inusitata visione.

 Poi proseguo. Ora di fronte a me, sull'altra sponda del lago, su una collinetta morenica che costituisce una piccola penisola, sorge Vagli Sotto, con la bella chiesa del 1300 ma, ormai, con pochissimi abitanti. Dietro il paese, in alto, incombe il monte Sumbra, con il suo possente naso. Poco avanti c'è la località Bivio, dove, appunto, si trova il bivio: a sinistra si va a Vagli Sotto, a destra si va a Vagli Sopra. In questa località, ove si trova una chiesina dell'XI secolo, oggi si è trasferito in gran parte il paese di Vagli Sotto. E' qui che sono stati costruiti il nuovo palazzo comunale e la nuova scuola. Ma io proseguo decisamente verso Vagli Sopra, che sta oltre 100 metri più in alto e che si raggiunge percorrendo una strada ripidissima. Lo raggiungo, lo attraverso e, voltando a destra, imbocco la strada che sale a Campocatino.

 La strada attraversa ombrose selve di  castagni ma più si sale e più il terreno si fa roccioso e impervio. Raggiungo un quadrivio e prendo a sinistra. Ora la strada è veramente impervia e si procede fra le nude rocce. Alzando gli occhi si incontra la massa imponente del Monte Tambura e, vicino a questo, il pinnacolo svettante del monte Roccandagia, che i locali chiamano la Penna di Campocatino.

 Ancora una curva e…..il miracolo ! Si sfocia in un anfiteatro costituito da una arena insospettata, costituita da un prato verdissimo di ragguardevoli dimensioni circondato da gradinate di rocce che portano a collinette sulle quali sorgono miriadi di casette di pietra costruite senza l'uso di cemento e coperte di lastre di pietra. Sono le case dei pastori che un tempo portavano qui innumerevoli greggi ad alpeggiare.

 Ma ancora più spettacolare è la visione se ci si volge a occidente. E' da questo lato, infatti, che la valle è chiusa dalla vertiginosa parete verticale del Roccandagia o Penna di Campocatino. Si tratta di un monte che supera i 1700 metri di altezza, per cui, trovandoci noi ad un'altitudine di circa 1000 metri, possiamo valutare in oltre 700 metri lo strapiombo che ci sovrasta.

Qui è stato girato il film "Il mio West" con Pieraccioni, che trovò qui l'ambientazione adatta.

 Mi inoltro, a piedi (alle auto è vietato l'accesso) nel prato verde di erba freschissima.

 L'aria è frizzante e il cuore è leggero. Tutto ciò che vedo è bello e vorrei poterlo conservare a lungo dentro di me. Salgo su una collinetta e volgo lo sguardo intorno. Là, vicino all'ingresso della valle, una stradicciola prosegue verso l'alto: conduce all'eremo di San Viviano, una chiesina scavata nella roccia. Davanti a me la fantastica parete del Roccandagia. Devo piegare il collo e alzare molto il capo per vedere la cima scolpita sull'azzurro del cielo. Mi volgo e, in lontananza, scopro il profilo pacifico degli Appennini. Indovino, giù in basso, la valle del Serchio.

 Poi discendo di nuovo nel prato e passeggio ancora un po' con i piedi accarezzati dal morbido tappeto verde.

 Ma è ora di tornare e al pensiero mi assale una improvvisa tristezza. Sono consapevole che sto per scendere verso luoghi meno belli e meno buoni. Ma non si può evitare. Questo è il nostro destino.

 

26 giugno 2008

 

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                                                     GIOIA DI VIVERE

 

Ci si trovava in piazza, subito dopo pranzo, Renato, Luciano, Raffaello ed io, con il costume da bagno in mano e tanta voglia di stare insieme. Renato aveva diciassette anni e studiava da geometra. Era uno spilungone alto un metro e novanta, aveva i capelli neri lievemente ondulati ai quali teneva molto. Luciano ne aveva 18 ed era figlio del maresciallo dei carabinieri. Era di fuori ma si era inserito perfettamente nell’ambiente paesano. Sapeva piegarsi all’indietro fino a toccare le mani a terra facendo “l’arco” ed era l’unico a saperlo fare. Era studente liceale. Raffaello aveva diciannove anni ed aveva conseguito la maturità classica. Non sapeva nuotare, non sapeva andare in bicicletta, era fisicamente un disastro ma lo consideravamo un intellettuale. Ed era molto simpatico. E poi c’ero io che avevo soltanto quattordici anni ma ero molto cresciuto in altezza e cominciavo a star dietro alle ragazze. Così ero stato accettato nella banda dove non sfiguravo. Avevo frequentato la terza media ma ero stato rimandato a ottobre per le troppe assenze. Ero un discreto nuotatore e facevo ottimi tuffi. Inoltre se si giocava a far saltare i sassi sull’acqua ero un campione.

 Il tempo di esserci tutti e poi, via, si prendeva la strada del fiume. La stradicciola correva fra i campi, chiusa ai lati da siepi di rovo nereggianti di more e dopo breve tratto scendeva decisamente sul greto del Serchio.

 La nostra meta era una vasta pozza d’acqua limpida denominata “Grotta cavalla” forse perché la pozza, o bozzo,  circondava un enorme macigno – da noi chiamato grotta – che aveva vagamente la forma di un’ampio dorso di cavalla.

 La “grotta” si elevava sull’acqua di circa due metri ed era un ottimo trampolino per fare tuffi spericolati e spettacolari. Ed era così ampia che poteva tranquillamente ospitare tre o quattro di noi sdraiati a prendere il sole.

 Sul greto, a poca distanza dall’acqua, sorgevano innumerevoli “fagiolaie”. Si trattava di modesti orticelli che le famiglie operaie, prive di terra, ricavavano scassando un pezzo di greto, di proprietà demaniale ma di un demanio tollerante che lasciava fare. Era tutta una foresta verdeggiante, irrigata con  un complicato sistema di turni, mediante canali di irrigazione costruiti dai coltivatori in solidale cooperazione.

 In mezzo a queste folte foreste di fagioli ci si poteva spogliare e indossare il costume.

 E poi via a tuffarsi nell’acqua fresca e limpida del Serchio, malgrado le raccomandazioni delle mamme di non bagnarsi prima di due ore dall’ultimo pasto.

 Naturalmente non eravamo gli unici frequentatori della “Grotta cavalla”. Praticamente la frequentavano tutti i ragazzi del paese, in particolare i figli degli operai titolari delle fagiolaie, perché essi, fra un bagno e l’altro, dovevano andare, quando era il loro turno, a irrigare la loro fagiolaia.

 Dopo il primo bagno, con un po’ di nuotate e parecchi tuffi, ci si stendeva al sole o sulla “grotta” o su una breve spiaggetta sabbiosa. Il sole di luglio e d’agosto faceva presto ad asciugarci e a surriscaldarci tanto che, dopo breve tempo, urgeva la voglia di rinfrescarsi tuffandosi di bel nuovo nell’acqua.

 E poi di nuovo al sole, che tingeva le pelli tanto da farci sembrare tanti negretti.

 Accadeva anche che, talvolta, venisse una gran sete. Ma per trovare una sorgente bisognava risalire un buon tratto del pendio, cosa che non sempre si aveva voglia di fare. Allora ci si portava sul fiume a monte della pozza, ove l’acqua era corrente e si recitava il seguente scongiuro:

                                                    Acqua corrente,

                                                    la beve il serpente

                                                    la beve Iddio

                                                    la posso bere anch’io.

Dopo di che ci si dissetava tranquillamente con l’acqua del fiume. Che, all’epoca, era veramente pulita per cui il berla non ha mai provocato inconveniente alcuno.

 Quando si stava in acqua nuotando e sguazzando, si giocava allegramente a chi faceva i tuffi migliori o a chi resisteva più a lungo nuotando sott’acqua o in mille altri modi.

 Ma c’era anche chi sapeva pescare i pesci con le mani. All’epoca il Serchio era molto pescoso e per chi era abile a farlo non era difficile infilare le mani sotto i sassi a sorprendere e ad afferrare con le mani delle bellissime trote iridee e dei grossi barbi. Che poi venivano uccisi sbattendoli violentemente contro i sassi del greto.

 E non erano pochi quelli che riuscivano, così, a procurarsi gustose cenette.

 Sulla spiaggetta, invece, si facevano giochi atletici: il salto, la lotta, esercizi di abilità…

 Ci si dedicava, però, anche alla costruzione di dighe sempre più alte, a valle della pozza, per far alzare il livello dell’acqua e allargare i confini della pozza stessa. Le dighe venivano costruite ammonticchiando grosse pietre e grosse zolle erbose fino a sbarrare il corso del fiume.

 I pomeriggi trascorrevano, così, lentamente, fra un bagno d’acqua, un bagno di sole, molti giochi e un po’ di lavoro.

 E ogni attività era gioiosa in quella calda luminosità. Sentivamo i  muscoli guizzare nelle membra e il sangue fluire impetuoso nelle vene.

 E insieme sentivamo la vita stessa  fluire, piena di gioia e di promesse. E quel nostro stare sdraiati al sole non era pigro abbandono. Era come uno stare raccolti per prepararci al grande balzo verso la vita.  Che ci aspettava e che immaginavamo grande e bella.  E che ci apprestavamo a vivere con gioia e intensità.

 

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                                   C'ERA SOLO UNA NUVOLA

 

C'era solo una nuvola in quel cielo di cobalto e il sole dardeggiava superbo su una campagna già provata dalla siccità. Nei prati l'erba era stata segata da tempo ma non accennava affatto a crescere di nuovo. Il bel verde dei prati primaverili aveva lasciato il posto a quel brutto colore giallastro dei fili d'erba secchi. E fra un ciuffo e l'altro si faceva vedere la terra nuda, percorsa da crepe che si facevano ogni giorno più larghe.

 I frutti sugli alberi erano numerosi ma piuttosto striminziti. Anche le piante cominciavano ad avvertire la mancanza d'acqua.

 Camminando lungo i prati facevo piccole deviazioni per passare sotto a ogni albero da frutto. Non mi fermavo, ma godevo del breve tratto d'ombra.

 Poi i prati finirono e cominciò la selva di castagni. C'era anche una strada sterrata che serpeggiava dentro la selva e scendeva fino al fiume. Ogni tanto un camion andava fin sul greto a caricare sassi o sabbia.

 Ma io lasciai subito la strada e attraversai la selva fuori da ogni tracciato. I grossi castagni secolari intrecciavano i loro rami, in alto, fino a formare una copertura ininterrotta di frasche, che impedivano ai raggi del sole di giungere fino a terra. C'era, quindi, ombra, ma non un'ombra troppo nera e opprimente. Era un'ombra gradevole, colorata di verde, dove non si avvertiva più l'arsura dei prati.

 Un frinire ininterrotto di cicale riempiva il silenzio e qualche uccelletto faceva brevi voli silenziosi da un ramo all'altro.

 Ed io discendevo la breve erta per giungere al fiume. E a un tratto il fiume  mi apparve, con le acque che brillavano sotto il sole e il greto di pietre chiare abbacinanti.

 Discesi sul greto proprio dove, un tempo, il fiume urtava una grande roccia bianca e dove, sostando un attimo prima di deviare a sinistra per riprendere il suo corso, formava una vasta e profonda pozza di acqua limpida e trasparente. La chiamavano la Grotta Bianca e mio fratello ed io scendevamo spesso a bagnarci nella vasta pozza, che noi chiamavamo "bozzo". Fu nell'estate del 1945. Mio fratello era appena tornato dalla guerra ed io, adolescente, amavo stare con questo fratello più grande che sapeva tante cose e aveva fatto tante cose, ma che quando scendevamo al fiume ritrovava l'allegria e la spensieratezza di un ragazzo.

Scendevamo subito dopo pranzo ma aspettavamo almeno due ore prima di fare il bagno. Erano la mamma e la nonna che ce lo raccomandavano caldamente. Così per far passare il tempo andavamo nella fitta ontanaia che era lì presso. Le piante erano molto fitte e crescevano con fusti lunghissimi e sottili. E noi ci inerpicavamo su quei fusti sottili fino a farli piegare lentamente verso terra dove atterravamo dolcemente. Ci sentivamo come Tarzar e azzardavamo anche dei balzi da una pianta all'altra. Proprio come Tarzan delle scimmie. Mio fratello chiamava tutto ciò "fare arborismo" e assicurava che era un'ottima ginnastica, meglio di una palestra.

 E poi quei tuffi nell’acqua limpida e fresca. Ci tuffavamo insieme, io da una estremità della pozza e lui dall’altra, e nuotavamo sott’acqua finchè ci incontravamo a metà del tragitto. Ma anche prima di incontrarci potevamo vederci, in lontananza, attraverso quel liquido così perfettamente trasparente. Ed era una cosa bella, quasi magica, e lo ripetevamo più e più volte.

 Quanti anni sono passati ?  Sessantaquattro anni. Troppi. Una vita.

Mio fratello è morto. A lui ho dato l’ultimo addio in quel freddo obitorio, sostando a guardare il suo profilo classico, dignitoso e composto.  Anche questa volta, come in tutti i traguardi della vita, è arrivato prima di me. Il suo volto era così disteso e sereno che ho provato una punta di invidia

 Ed eccomi ancora qui, davanti a questa pozza, a ricordare.  La corrente del fiume, però, ha cambiato percorso e passa dall'altra parte del greto, cosicchè nel vecchio "bozzo" non arriva più che un piccolo rivolo melmoso e il "bozzo" stesso, ormai, molto ridotto in ampiezza e in profondità, non è più che un piccolo stagno di acqua torbida.

Quel povero stagnuzzo popolato da ranocchi mi fece una gran tristezza.

 - E' devastato come le nostre vite - pensai - e come le nostre vite è giunto alla vecchiaia.

 Il rumore di un ranocchio che si tuffò nello stagno interruppe i miei pensieri.

 Sulla superficie si erano formati dei cerchi che si stavano allargando. Era pur un segno di vita. Mi alzai dal sasso sul quale mi ero seduto e mi avvicinai allo stagno. Altri tre o quattro ranocchi si tuffarono prestamente. E furono altri rumori, altri spruzzi, altri cerchi che si andavano allargando e che si intersecavano. La superficie prima morta s'era ora animata.

 C'è vita – pensai – c’è ancora vita. Il tempo cambia tutto, ma non cancella la vita.

 Con questo pensiero mi alzai per andarmene. Il caldo era soffocante. Si avvertiva per mille segni il gran bisogno di pioggia.

 Ma si dovrà attendere ancora – pensai - nel cielo c’è solo una nuvola.

 

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                                 La Garfagnana e le castagne

 

Dopo il 1945 in Garfagnana la superficie occupata dalle selve di castagno si è molto ridotta. Una delle cause di questa riduzione è certamente stata la forte richiesta di legno di castagno per la produzione del tannino. Esistevano fabbriche importanti a Bagni di Lucca-Fornoli e a Castelnuovo Garfagnana (la TANET). Ma la causa vera che ha indotto i proprietari a vendere selve intere è stata la seguente: per la prima volta dopo secoli la farina di castagne ha cessato di essere il prodotto base per l'alimentazione dei garfagnini (il così detto "boccon grosso"). Il progressivo abbandono delle campagne,  il passaggio dei lavoratori dall'agricoltura all'industria e l'aumentato benessere ha modificato progressivamente le abitudini alimentari fino al totale abbandono della farina di castagne e della polenta quale alimento base quotidiano.

  I meno giovani ricordano bene come, fino a quell'epoca, invece, il pasto del mezzogiorno era costituito, pressoché per la totalità dei garfagnini, dalla polenta accompagnata da carne di maiale variamente cucinata (cotechini, biroldo, salsicce, coppa, pancetta, fegatelli e, perfino, le ossa di maiale conservate sotto sale : la famosa "polenta con gli ossi"), oppure, per chi non aveva il maiale, da ricotta, frittata e, per i più poveri, da un salacchino (aringa sotto sale) per tutta la famiglia.

 La polenta di castagne è un alimento nutriente e digeribile, tanto che, un tempo, veniva utilizzato anche per lo svezzamento dei neonati. Poteva anche accadere (l'uso era abbastanza diffuso) che una mamma prendesse in bocca una piccola porzione di polenta, la masticasse leggermente, pre-digerendola, poi la "imboccasse" al piccolo da divezzare. Con buona pace dell'igiene. Però funzionava e non risulta che i neonati ne subissero danno.

 Per l'adulto, poi, essa rappresentava un pasto abbondante e soddisfacente ed era una sicura garanzia contro le carestie che funestavano la popolazione prima della diffusione del castagno.

 Ho detto che la polenta di castagne era il pasto di mezzogiorno per quasi tutti i garfagnini. Bisogna ora spiegare come facevano a procurarsi la farina coloro che non erano né proprietari di selve, né contadini che le coltivavano come coloni mezzadri cui spettava la metà del raccolto.

 Le selve, infatti, quanto iniziava il tempo della raccolta, venivano "bandite" (1) , cioè ne veniva vietato l'accesso agli estranei. La raccolta delle castagne, però, era una faccenda lunga e impegnativa e richiedeva l'aiuto di molti raccoglitori. Così i proprietari delle selve affiancavano ai loro contadini diversi raccoglitori occasionali (2). Si trattava, ovviamente di coloro che non possedevano selve e non erano contadini. Costoro ogni sera, dopo una giornata di raccolto, venivano compensati con un "grembiale" (3) di castagne. Un "grembiale" pieno pesava diversi chilogrammi (certamente più di dieci, forse anche venti) per cui guadagnando un "grembiale" al giorno per una ventina di giorni (tanto, all'incirca, durava il periodo della raccolta) ogni raccoglitore poteva racimolare alcuni quintali di castagne.

 Oltre a ciò, terminato il periodo di raccolta e rese di nuovo accessibili le selve, tutti potevano andare "alla ruspa", cioè a raccogliere, scovandole sotto le foglie e dentro ai cardi, le castagne che erano sfuggite ai raccoglitori. E anche questo era un modo per racimolare buone castagne da arrostire o da bollire e anche, dopo averle seccate in un metato, la farina per la polenta.

 La Garfagnana era, all'epoca, letteralmente ricoperta da selve che andavano dal monte fin alle immediate vicinanze dei paesi (4). Pertanto di castagne se ne raccoglieva in abbondanza, così da poter sfamare tutti i garfagnini. E ce n'era anche da vendere.

 Un ricordo: Nell'autunno del 1944 si ebbe un raccolto di castagne eccezionale per abbondanza e qualità. Era un autunno di guerra, la guerra era vicinissima e rifornimenti ne arrivavano pochi, per cui tutti cercarono di riempire ben bene gli scrigni (5) Cosicché quando cominciarono ad arrivare i massesi e i carrarini (che venivano a piedi attraverso il Passo della Tambura, lungo la Via Vandelli) a cercare disperatamente del cibo portando olio e sale, i garfagnini poterono scambiare la farina che avevano in abbondanza con l'olio e col sale che qui mancava. Quell'anno, insomma, la farina della Garfagnana non sfamò solo i garfagnini (e tutti gli sfollati di Lucca, Pisa e Livorno che si erano rifugiati in Garfagnana) ma anche i massesi e i carrarini che avevano una tremenda scarsità di cibo.

 

 

NOTE:

1)      Negli statuti dei comuni, fin dal medio evo, veniva decretato il giorno di inizio e il giorno di termine del periodo di banditura.

2)      In garfagnino erano detti "cujtori" e, quelli che lo facevano si diceva che "andavano per cujtori"

3)      Il "grembiale" era una specie di grembiule che si legava alla vita e che era formato da una capace tasca nella quale venivano via via deposte le castagne raccolte. Quando il "grembiale" era pieno veniva vuotato in appositi recipienti (bigonce o altro) che, poi, sarebbero stati portati al metato o seccatoio.

4)      Anche Camporgiano era circondato da selve di castagno. La più vicina era la "Selvetta" che si estendeva dietro la rocca, dove ora passa la strada della stazione e la strada per San Romano, fin dove ora sorge il campo sportivo. Essa veniva utilizzata dai paesani come parco. Nella stagione più calda era uso "andare al fresco" nella Selvetta. Anche le piane, dove ora sorge il vivaio, compresa la collinetta che le sovrasta a nord, era tutta una magnifica selva di castagni giganteschi. Qui i tedeschi nel 1944 avevano posto un importante autoparco. Sotto i castagni i veicoli erano invisibili dall'alto.

5)      Lo scrigno era una specie di grande cassa lunga un paio di metri, alta poco meno e larga poco meno di un metro, in genere divisa in due scomparti detti "godi". Tale cassa aveva un coperchio che, sollevato, consentiva di versare in essa la farina che veniva ben pigiata in ciascun "godo" per favorirne la buona conservazione per tutto l'inverno.

 

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                                                      La "Jara"

 

La "Jara" o "Ajara" (letteralmente "ghiaia") è il nome con cui i garfagnini indicano il greto del fiume.

 Oggi la "Jara" ha una scarsissima incidenza sulla vita delle persone.  Salvo qualche pescatore è ben raro che qualcuno si rechi alla "Jara". Il luogo, infatti, è desolato e per niente ameno. La poca acqua rimasta dopo la costruzione delle dighe in alta Garfagnana è piuttosto sporca e non invita alla balneazione. Né ci sono altri motivi che possano invogliare la gente ad andare a passare del tempo alla "Jara".

 Non era così un tempo.

 Fino agli anni cinquanta del secolo scorso la "Jara" era frequentatissima nella stagione estiva e rivestiva notevole importanza per la gente del luogo sia per motivi ricreativi (era luogo di balneazione) ma sia anche per motivi sociali ed economici.

 L'acqua del fiume Serchio, a quel tempo, era così limpida e pulita che talvolta i ragazzi, che passavano al fiume interi pomeriggi, là dove era corrente, la bevevano. (1) E non risulta che qualcuno abbia per questo contratto malattie.

 Era, quindi, estremamente piacevole bagnarsi in quelle acque per poi asciugarsi al sole sulla sabbia di minuscole spiaggette o su qualche "grotta" (2).

 Così la “Jara” veniva ad essere, nella stagione estiva, il luogo privilegiato di ritrovo di tutti i ragazzi del paese. Ogni giorno, subito dopo pranzo, si prendeva la via del fiume, ci si spogliava, ci si bagnava più e più volte, si giocava e si prendeva il sole fino a sera. Si prendeva tanto sole, al punto che le eccezionali abbronzature trasformavano i ragazzi in altrettanti negretti.

 Le grotte (o i sassi) davano il nome ai "bozzi", cioè a quelle pozze d'acqua abbastanza estese da consentire l'esercizio del nuoto e abbastanza profonde da consentire i tuffi.

 Quella più a nord, situata all'incirca sotto il paese di Naggio, era la "grotta dei Naggini" o “il bozzo dei Naggini”. Non era troppo frequentata dai ragazzi di Camporgiano perché era  la più lontana, ma era una pozza notevole che raggiungeva fino a oltre tre metri di profondità e che, quindi, consentiva di fare ottimi tuffi.

 Più a valle c'era (e c'è ancora anche se molto ridotto, proprio sotto il ponte della strada per San Romano) il "Sasso delle botti". Ancora più a valle c'era la "grotta Cavalla" che negli anni quaranta era la più frequentata anche per la presenza di una piccola spiaggetta sabbiosa. Attualmente non c'è più nulla. Poco sotto c'era un'altra pozza con l'acqua non molto alta, chiamata "grotta Colomba". Era molto frequentata dalle ragazze che qui imparavano a nuotare usando, per sostenersi a galla, a guisa di ciambella, due "mannelli" (3) di paglia. Un po' più in giù c'era il "Grotto Nero", che fu molto frequentato in epoche precedenti. Infine, raggiungibile per la strada di Battifollo, c'era la "Grotta Bianca", una bella pozza lunga e profonda. Era frequentata anche dai ragazzi di Sillicagnana.

 Era uso, per far alzare il livello del "bozzo", costruire delle “parate” cioè delle dighe di pietre subito a valle del "bozzo" stesso. E perché l'acqua non filtrasse troppo si usava mettere le "piodole" (4) fra le pietre.

 Una “parata” di particolari dimensioni e accuratezza veniva costruita a valle del "Sasso delle botti", facendo alzare il livello del "bozzo" di poco meno di un metro. E non erano i ragazzi ma gli adulti a farla.

 La ragione di questo lavoro stava nel fatto che, con questo innalzamento di livello dell'acqua, era possibile far scorrere sul lato destro del greto un discreto canale di irrigazione appositamente scavato, che raggiungeva e irrigava le innumerevoli "fagiolaie" che occupavano una buona parte del greto dalla "grotta Cavalla" giù giù fino al "grotto Nero"

 E vengo così a parlare della notevole importanza sociale ed economica che aveva la "jara" per gli abitanti di Camporgiano di quel tempo.

 Bisogna sapere che il greto del fiume è di proprietà demaniale ma nessuno, da tempo immemorabile, si è mai opposto a che gli abitanti del luogo potessero ricavarvi dei piccoli orticelli sabbiosi in cui coltivare soprattutto fagioli.

 La costruzione delle fagiolaie che, salvo casi particolari, andava rifatta ogni anno, era una vera e propria impresa sociale con regole non scritte ma scrupolosamente rispettate.

 La prima era che, dopo le piene invernali che cancellavano quasi tutte le fagiolaie costruite l'anno precedente, il primo che arrivava sceglieva il posto ove intendeva costruire la propria fagiolaia e lo segnava ponendo a ogni angolo del quadrilatero due pietre sovrapposte. Chi arrivava dopo doveva rispettare quei segnali e scegliersi un posto non ancora segnato.

 Ora bisognava costruire la fagiolaia, cioè scassare il terreno fino a una certa profondità, togliendo i sassi e lasciando la sabbia. Coi sassi, che erano molti, si costruivano i muretti (ovviamente "a secco", cioè non cementati) perimetrali che venivano molto alti mentre l'orticello sabbioso veniva a trovarsi a un livello più basso.

 Il lavoro, spontaneamente coordinato, seguiva una sua logica, in modo che nessuno venisse danneggiato dal lavoro degli altri e che la disposizione delle fagiolaie fosse tale da consentire di essere raggiunte dai canali di irrigazione che tutti insieme avrebbero costruito.

 Le coltivazioni su sabbia, infatti,

specie se si tratta di fagioli, richiedono una irrigazione quotidiana, per cui il sistema deve essere razionale e consentire a tutti, mediante una opportuna turnazione, l'accesso all'acqua. Così dal canale principale, costruito col concorso di tutti, si dipartivano canali secondari in modo che tutte le fagiolaie potessero essere raggiunte. Ognuna di esse aveva un accesso al canale chiuso con una piccola saracinesca di legno che veniva aperta quando era tempo di far entrare l'acqua  per l'irrigazione.

 Ed era, questa, una faccenda riservata spesso proprio ai ragazzi. Essi, che trascorrevano spesso interi pomeriggi al fiume, facevano il bagno, prendevano il sole e si divertivano ma, arrivato il loro turno, correvano alla fagiolaia per irrigarla.

 Come ho detto le fagiolaie erano molte. Praticamente ogni famiglia operaia, che non disponeva di terreno coltivabile, aveva la fagiolaia. Ed era, questa, una risorsa economica tutt'altro che risibile. Basti pensare che ogni famiglia poteva raccogliere qualche decina di chili di fagioli, sufficienti a garantire una minestra per tutti i giorni del lungo inverno. E a garantire, così, il fabbisogno di proteine vegetali fornite proprio dai fagioli, vera "carne dei poveri".

 Oltre a tutto ciò questa vera e propria foresta di fagiolaie geometricamente ordinate dava alla “Jara” un aspetto domestico e gradevole.

 Le fagiolaie, infine, folte e impenetrabili, servivano anche da spogliatoi. Era là in mezzo, infatti, che ci si poteva spogliare e rivestire in tutta tranquillità.

 Non c’è dubbio che le persone di una certa età ricordano quei tempi con piacere e anche con un po’ di nostalgia, e conservano della “jara” un ricordo sereno e gradevole.

 

NOTE:

(1)               Prima di bere si usava pronunciare il seguente

       scongiuro: “Acqua corrente, la beve il serpente, la 

       beve Iddio, la posso bere anch’io”.

(2)               Col termine grotta si intende, in garfagnino, grosso macigno.

(3)               Una volta il grano, che si mieteva col falcetto, veniva legato in fascelli detti "mannelli". Sulle aie, poi, questi "mannelli" venivano battuti contro una tavola in modo che i chicchi di grano fuoriuscissero e si raccogliessero sull'aia. Al termine dell'operazione i "mannelli" non venivano buttati ma conservati accuratamente. Con essi, infatti, si copriva il tetto delle capanne. Ed era una copertura molto funzionale, leggera  e perfettamente impermeabile. Ogni qualche anno, però, tale copertura doveva essere rivista e la paglia, almeno in parte, sostituita.

(4)               Piodole = zolle erbose.

 

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                                                          BARBA CAVALLO

In tempo di guerra anche nel mio paese ci sono stati i tedeschi. Era l’estate del 1944 e in una folta selva di castagni poco fuori dal paese era stato sistemato un vasto autoparco che occupava tutto il vasto pianoro della selva. C’erano macchine di tutti i tipi e non solo militari.  Infatti molte auto o camioncini erano stati sequestrati a privati e utilizzati dai militari. Numerosi meccanici si davano da fare per tenere in efficienza quel grande parco macchine, ma la difficoltà a reperire pezzi di ricambio per tutta quella varietà di veicoli faceva sì che spesso qualche mezzo non poteva essere riparato. Allora quel mezzo veniva spinto ai margini del pianoro e precipitato nello scoscendimento che scendeva a precipizio verso il fiume. E i mezzi irrecuperabili si ammonticchiavano in fondo allo scoscendimento simulando un incidente stradale catastrofico.

 Ma i tedeschi avevano anche delle carrette trainate da cavalli che, talvolta, facevano sosta nella piazza del paese. Allora i cavalli venivano staccati dalle carrette e condotti a bere nella vasta pila della fontana seicentesca.

  Bisogna sapere che nella stessa piazza si apriva l’unica “barberia” del paese. Era un piccolo locale all’interno del quale c’erano due poltrone davanti agli specchi dove sedevano i clienti che volevano sbarbarsi, più diverse sedie tutto intorno alle pareti dove sedevano i clienti in attesa e anche qualcuno che non attendeva nulla e andava lì soltanto per fare quattro chiacchiere. Così, oltre ai due barbieri, l’Aldo e il Remo, in “barberia” c’era sempre un discreto numero di persone a chiacchierare tranquillamente del più e del meno.

 E anche quel giorno in “barberia” c’era una abbondante decina di persone.

 Ora accadde che, all’improvviso, si fece sull’uscio un tedesco tenendo il suo cavallo per la cavezza. Il tedesco era visibilmente ubriaco e, fra lo sbigottimento dei presenti, insieme a parole incomprensibili, riuscì a farfugliare in italiano: “Barba…cavallo”. Dopo di che cominciò a tirare il cavallo per la cavezza per farlo entrare in “barberia”.  Ma il cavallo, forse spaventato dagli specchi o dalla gente che era all’interno, cominciò a sbuffare e a nitrire e a tirarsi energicamente indietro.

 Allora il tedesco fece arretrare il cavallo di qualche metro poi, tirandolo ed esortandolo con la voce lo fece di nuovo correre verso la porta della “barberia” per farvelo entrare d’impeto. Ma il cavallo, giunto sulla porta, si arrestò bruscamente e cominciò a sbuffare, a nitrire e a tirarsi indietro come prima.  Ma il tedesco, che continuava a blaterare “Barba..cavallo”, ricondusse indietro il cavallo per ripetere il tentativo.

 A quel punto, però, la gente che era dentro, spaventata dalla pazzia del tedesco ubriaco,  cominciò a precipitarsi fuori. Un paio di persone riuscirono ad infilare la porta prima che il cavallo fosse di nuovo davanti ad essa e la ostruisse. Le altre si prepararono a farlo approfittando dell’attimo in cui il cavallo veniva fatto arretrare.

 Così, fra un tentativo e l’altro del tedesco e del suo cavallo,  tutti riuscirono a sgattaiolare fuori, compresi i due clienti che si stavano facendo la barba e che uscirono con l’asciugamano ancora intorno al collo e la faccia mezza sbarbata e mezza ancora bianca di schiuma di sapone.

 Le persone che in quel momento si trovavano in piazza assistettero alla scena comica divertendosi assai. Perché i tentativi del tedesco continuarono a lungo. Ogni volta lo faceva arretrare di qualche metro, poi, a volte tirandolo, a volte spingendolo dal di dietro, cercava di farlo entrare in “barberia”. E sempre invano. Fino a che, finalmente, un collega del tedesco lo convinse a rinunciare al proposito di far fare la barba al cavallo e lo condusse via.

 E la “barberia” potè essere rioccupata dai legittimi proprietari e dai clienti che poterono finire di essere sbarbati.

 

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                                                           IL DOPO

 

Non c’è proprio nessuna ragione perché io debba pensare alla mia morte. Perché diavolo dovrei farlo ? Ho tanti anni, è vero, ma sto bene. Cammino spedito, con passo svelto. E tutti, anche Marisa e Mirella, dicono che non riescono a starmi dietro. Anche quel doloretto all’alluce del piede destro e al ginocchio non rallentano la mia andatura. Dirò di più: quando cammino non li sento neppure. Stranamente il ginocchio mi da più noia quando sono a letto. Comunque i massaggi con quella schiuma spray mi hanno fatto bene.

 L’altro giorno sono andato a ritirare la macchina nuova. Si comprerebbe una macchina nuova uno che sta pensando alla sua morte ? Penso proprio di no. Era una giornata schifosa. Pioveva e c’era una nebbia che si tagliava a fette. Quando, finalmente, ho sistemato tutte le cose e sono partito era notte. Si camminava male sulla strada e ci vedevo poco per la nebbia e per i vetri appannati. Ho alzato il riscaldamento per disappannarli ma, dopo qualche minuto, grondavo sudore. Ho faticato ad arrivare a casa. E ho faticato anche a mettere l’auto in garage. Entro sempre a marcia indietro per avere la macchina pronta a una partenza rapida ma anche gli specchietti erano appannati e ci vedevo poco. Il risultato è stato che ero molto stanco. E la sera, alla TV, ho sonnecchiato. Per dire la verità da un po’ di tempo mi accade di sonnecchiare alla TV. Credo sia colpa dei programmi sempre più noiosi. Ma, forse, dipenderà anche dal fatto che la notte dormo poco. Certamente effetto dell’età.

 Comunque sto bene e non ho proprio nessun motivo di pensare alla mia morte. Come ho detto cammino come un veltro e la prossima estate voglio fare qualche capatina in montagna. Ci sono dei sentieri così belli nelle mie montagne, la Alpi Apuane. Potrei andare sulla Pania della Croce e, poi, fermarmi a pranzo al Rifugio Rossi. Oppure sul Monte Tambura: E’ meraviglioso raggiungere quelle vette e scoprire, sotto di se, il mare azzurro e, se non c’è foschia, lontano, la Corsica. Sono sicuro che ce la farei senza problemi. Due anni fa sono salito, con Davide, fin sulla Pania Secca e non ho avuto problemi di sorta. L’anno prima, con lui e con Giovanni, eravamo andati sul Macina e lì, nel salire la costa ripidissima, per la verità qualche problema l’avevo avuto: un muscolo della gamba destra aveva cominciato a dolermi forte e con una certa sofferenza avevo potuto tornare alla macchina. Ma, poi, era passato tutto.

 Se c’è una cosa che mi da proprio fastidio quando penso alla mia morte è il pensiero della fine che faranno le mie cose: la mia casa, i miei libri, le cose che ho letto, le cose che ho scritto, il mio orto, le mie viti…..

 Il mio orto e le mie viti lo so già: la natura ne riprenderà possesso e diventeranno una giungla inestricabile. Lo so. E’ sempre stata una lotta senza quartiere quella che ho combattuto per tenere a bada le siepi e la boscaglia. Basterà un anno di abbandono per rendere quel terreno irriconoscibile.

 Le altre cose non so, ma temo che non interesseranno nessuno. I miei figli, i miei nipoti, presi dalla loro quotidianità, avranno altro cui pensare. Ed è molto triste pensare alla polvere che si abbatterà sulle mie cose. E sul mio ricordo. Quando non ci sarò più.

 Ma io sto bene. Perché diavolo continuo a pensare alla mia morte ?

 

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                                          LA MONTAGNA DI LUCE

                                                         (sogno)

 

Mi sono lasciato alle spalle la piccola stazione ferroviaria di un piccolo centro termale e mi sono avviato lungo la valle stretta in fondo alla quale scorre un torrentello spumeggiante. Il sentiero, stretto e piuttosto accidentato, corre sulla sponda destra del torrente, vicinissimo ad esso. Di quando in quando è attraversato da rigagnoli che supero con un salto. I rigagnoli scendono dalla costa ripida che sta alla mia sinistra e finiscono nel torrente alimentandolo.
In alcuni punti la costa si fa verticale o, addirittura, sporgente verso il torrente e il sentiero si fa stretto e malagevole. A questo punto il sonno si fa agitato, perché il passaggio si fa difficile e temo di non poter superare le difficoltà.
E’, questo, un sogno ricorrente, con una prima fase agitata e difficoltosa e una seconda fase, invece, meravigliosa fino ad essere esaltante.
Ecco, infatti, che il difficile sentiero finisce ed io giungo ai piedi di una montagna di non grandissime dimensioni e che appare subito, quindi, accessibile. Essa ha una forma quasi perfettamente conica ed è ricoperta da una fitta foresta di abeti attraverso i quali scende dall’alto una luce forte e chiara. Si intuisce che è la luce del sole che si insinua fra gli aghi degli abeti rendendoli preziosi. Mi soffermo, incantato, ad ammirare questo bellissimo effetto luminoso.
Davanti a me si apre un sentiero largo e comodo che sale a spirale, girando intorno alla montagna, fino a raggiungere la cima.
Mi avvio lungo il sentiero. E’ ampio e agevole. Salgo senza nessuna fatica, immerso in questa fantastica luminosità che infonde sicurezza e tanta serenità. Non provo nessuna curiosità per quello che potrebbe esserci sulla cima della montagna. Non c’è nessuna attesa. Proseguo sereno, immerso in quella variegata luminosità che penetra attraverso gli aghi delle piante.
Via via che salgo si allarga il panorama. C’è una grande campagna intorno, inondata di sole, che vedo attraverso gli alberi. Ma non è importante. Importante è quella montagna luminosa che salgo così facilmente, che sembra invitarmi e aprirsi alla mia conquista.
Salgo e salgo, in piena beatitudine. Ogni lato di questa montagna, ogni suo angolo è caratterizzato da una grande bellezza e infonde inesprimibile serenità.
Salgo fino alla cima e non accade nulla di particolare. Sono ancora immerso nella foresta e la luce che filtra attraverso i rami è ancora la stessa, gradevole e apportatrice di serenità. Sento intensamente il piacere che si prova ogni volta che si raggiunge una vetta e mi guardo intorno con beatitudine per non perdere neppure un’immagine di quella montagna, di quella foresta….
………
Al risveglio sono ancora su quella montagna.
Da quella montagna non sono mai disceso.

 

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Il caffellatte e il pane americano

La guerra era stata lunga e difficile. In qualche modo avevamo sempre avuto notizie del babbo che riusciva a farci pervenire le sue lettere spedendole a La Spezia all’avvocato Nutini che, poi, riusciva a farcele avere per mezzo di un operaio che frequentemente veniva in Garfagnana a piedi. E, con lo stesso mezzo noi facevamo avere a lui le nostre lettere. Ma di Guido, che si era ripresentato alle armi a Camporgiano poco prima del Natale 1944, non avevamo saputo più nulla. Solo dopo una sempre più angosciosa attesa, e mentre la mamma ed io stavamo per partire alla sua ricerca, egli era ricomparso a Minucciano, dove noi eravamo sfollati, lacero e stanco, ma felice di essersi ricongiunto con noi.
Quasi subito, dopo il suo arrivo, decidemmo di far ritorno a Camporgiano dove il babbo ci stava aspettando alla Casetta, a casa di Azelio.
Alla Casetta fummo ospitati tutti dallo zio Azelio ma in condizioni disagiate perché in casa c’erano anche i contadini e Azelio aveva solo tre stanze. Così non ricordo bene come si sistemarono il babbo e la mamma, forse in capannina, mentre io e Guido dormivamo con Leone (non ricordo Giannetto che, forse, era già tornato nei carabinieri) nello stesso letto. Ma si trattò di pochi giorni. Poi, avuta in affitto la “casina del Rumito” (si trattava di un edificio situato nella vigna dell’Arnaldo che aveva al piano terra la cantina e al primo piano una stanza abbastanza grande dotata di caminetto) la arredammo in modo sommario e ne facemmo la nostra cucina di giorno e la camera di Guido e mia per la notte.
Fu così che, finalmente, sentimmo di avere una casa tutta per noi (anche se la mamma, il babbo e la nonna, che nel frattempo era venuta da Minucciano insieme alla Delfina e alle sue figlie, dormivano ancora in capannina).
E di questa riconquistata casa ho un ricordo bellissimo. Fu la prima volta che ci sedemmo intorno a un tavolo mamma, papà, Guido ed io e nessun altro, dopo la bufera della guerra. Altrove ho raccontato del primo pranzo, ma sono sicuro che della casa prendemmo possesso in un pomeriggio del maggio 1945 e, quindi, la prima volta che ci sedemmo a tavola tutti insieme fu per la cena.
Una nostra vecchia abitudine (all’epoca piuttosto diffusa) ci faceva prediligere, per il pasto serale, una bella tazzona si caffellatte nella quale inzuppare pane in abbondanza. E anche quella sera fu così. La mamma aveva acquistato una grande forma di pane (credo da un chilo) fatto con farina bianchissima che arrivava dall’America e molto lievitato, tanto che era alto in maniera inconsueta. Nel nostro vecchio e malandato laveggino avevamo scaldato il latte delle nostre mucche con il caffè (forse di orzo) e la mamma ne riempì le nostre tazze. Poi divise la forma di pane in quattro con un taglio in croce e ne dette una per ciascuno. A quel punto, religiosamente, spezzettammo il pane e lo immergemmo nella tazza, facendone una enorme zuppa che mangiammo avidamente. L’atmosfera era quella che ho descritto altrove per il pranzo a base di polenta (che certamente fu quello del giorno dopo): saranno state le sette di sera e la luce entrava abbondante dalle due finestre. Eravamo tutti sorridenti e fiduciosi nell’avvenire. Eravamo contenti di quella piccola casa fatta di un’unica stanza, priva di acqua corrente e perfino di acquaio, ma nostra. La sera scese lentamente e c’era una grande quiete e una grande serenità. Stavamo seduti, dopo cena, sulla soglia della porta aperta sulla campagna dove impazzava il canto dei grilli. Eravamo soli e avevamo davanti un avvenire incerto e difficile. Ma eravamo uniti, tutti e quattro salvi e dentro il mio cuore c’era una felicità immensa.

 

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                                        IL PONTILE CARICATORE

 

Tutte le mattine dopo colazione facciamo una passeggiata, Marisa ed io, fino in fondo al molo di Forte dei Marmi. Noi, come tanti, lo chiamiamo molo ma il vero nome, il nome storico, è “Pontile caricatore”. Ora è tutto in cemento, asfaltato e, per tutta la sua lunghezza, di circa 250 metri, ha una quantità di lampioni, da un lato e dall’altro, che gli fanno corona. Ma la prima costruzione, siamo nel 1877, era tutta in legno, con grossi pali incatramati piantati sul fondo e grossi travi e grossi tavoloni che ne costituivano il piano. Su qual piano poggiavano dei binari, estremo prolungamento della T.A.V. (Tranvia Alta Versilia)  che trasportava i marmi fino al mare. Ma il pontile non avrebbe sopportato il peso della locomotiva, per cui i carri carichi di marmo, sul pontile, venivano trainati da una coppia di buoi fino al punto di imbarco.

 Ora il nuovo pontile è bello da vedersi, ed è meta abituale delle passeggiate di turisti e gente del luogo. Venendo dal centro, dopo aver attraversato il Viale Italico in corrispondenza del grande semaforo, si percorre un giardino in mezzo al quale, al di qua e al di là della via che conduce al pontile, ci sono due grandi vasche di marmo larghe un paio di metri e lunghe dieci o dodici, piene d’acqua limpida e con una diecina di spettacolari getti d’acqua per ogni vasca, che salgono in alto dalla superficie dell’acqua stessa creando una sensazione di freschezza veramente gradevole. Al di là delle vasche alcune panchine tutte di marmo e, al di là di queste, grandi aiuole con piante di vario tipo, verdi e ben curate. Lasciando il giardino, si entra in una graziosa piazzetta artisticamente pavimentata di marmo, circondata da un muricciolo che funge anche da lungo sedile, sul quale poggiano, a distanze regolari, quattro statue in bronzo rappresentanti busti di donna. Nel mezzo, su basamento cubico di marmo, una statua più grande, pure in bronzo, che ha per titolo “Ulisse”. Rappresenta un uomo bendato con una gamba sollevata e appoggiata a una ruota di timone su cui poggia anche una mano. “E’ bendato perché la rotta l’ha ben chiara dentro di sé.” Dicono, presso a poco, alcuni versi incisi su una lastra di bronzo fissata sul basamento

 Da qui si entra sul pontile. Lo si percorre con gli occhi pieni di mare, che si estende a destra  verso la Punta Bianca e il golfo de La Spezia, con le isole Palmaria e Tino che si intravedono fra le brume, e a sinistra verso Viareggio che si immagina là in fondo, dopo un ininterrotto susseguirsi di stabilimenti balneari. Alla sua estremità il pontile si allarga un poco formando una minuscola piazzetta. Qui sostano i visitatori sedendo su alcune panchine di ferro rivolte verso il mare, da una parte e dall’altra. Frotte di pescatori, uomini anziani, meno anziani e anche ragazzi, gettano le lenze e stanno in paziente attesa. Non ho mai visto delle grandi pescate. I pesci che vengono pescati più di frequente sono le aguglie, pesci lunghi anche trenta centimetri ma sottili come un’acciuga o poco più. Pare, tuttavia, che vengano pescati anche pesci pregiati come spigole e orate. Due mattine fa un tale ha pescato un’orata di quasi un chilo. Per un po’ è divertente osservare questi pazienti pescatori che, dentro un apposito contenitore, hanno una ricchissima attrezzatura. Essi cercano di attirare i pesci gettando in acqua manciate di vermetti (malgrado un avviso bene in vista avverta che questa pratica è vietata perché spesso il mare spinge questi vermetti fin sulla spiaggia disgustando i bagnanti). Qualcuno ha addirittura una speciale fionda con la quale getta i vermetti più lontano, proprio là dove poi scaglierà l’amo. I pesci pescati, poi, li mettono dentro un sacco a rete legato ad una lunga corda. Tale sacco viene tenuto dentro l’acqua, tirato fuori per immetterci il pesce pescato e, subito dopo, calato ancora in acqua per mezzo della lunga corda. Penso sia per tenere i pesci al fresco, immersi nell’acqua.

 A lato del pontile, un po’ prima della sua estremità, dal lato sud, c’è una piattaforma alla quale si accede con una scala perché si trova più in basso. Qui, d’estate, esattamente alle 9,30 ogni mattina attracca il vaporetto che, partendo da Viareggio, tocca tutti i porticcioli della costa per giungere, infine, a Monterosso. Alle 18,30 è di ritorno. Al suo arrivo, al mattino,  viene ormeggiato con una corda da abilissimi marinai, quindi viene spinta sulla piattaforma la passerella attraverso la quale i turisti, sempre numerosi, salgono sul vaporetto. Qualcuno ha paura, perché la passerella si muove un poco se il mare è un po’ mosso. Allora un marinaio gli va incontro, lo prende per mano e l’aiuta a fare la traversata della passerella. Poi il vaporetto si ritira a marcia indietro fin oltre il pontile, si volta verso nord, accelera e si allontana varso Marina di Massa, prossimo approdo.

 La sosta all’estremità del pontile, di fronte al mare immenso, provoca delle particolari suggestioni. Dentro c’è un po’ di esaltazione e un po’ di malinconia. Esaltazione per l’istinto dell’avventura che viene eccitato dall’immensità del mare e dalla sconfinatezza degli orizzonti. Malinconia che l’uomo di terra prova al pensiero che forse non solcherà mai quel mare e non esplorerà mai le terre lontane, oltre i più lontani orizzonti. Il tutto circonfuso da una sensazione di bellezza diffusa entro cui ci si perde. Ma bisogna amare intensamente il mare per provare tutto questo.

 Qualche sera fa siamo andati fino in fondo al pontile anche dopo cena, quando era ormai notte. I lampioni sono, ovviamente, tutti accesi e illuminano perfettamente tutto il pontile. Anche le acque del mare più prossime vengono illuminate, ma poco oltre c’è il buio completo. E questo essere chiusi dal buio che ci circonda crea una strana sensazione di luogo più intimo, più riservato.

 Abbiamo passeggiato fino in fondo, in mezzo ai moltissimi pescatori che anche di notte popolano il pontile. Ci siamo affacciati al parapetto e, inaspettatamente, ci si è presentato uno spettacolo straordinario. Sotto di noi, nelle acque illuminate dai lampioni, centinaia e centinaia di piccoli fantasmi bianchi solcavano le acque, vicino alla superficie e in profondità, creando un’immagine veramente suggestiva. Erano meduse, che quest’anno hanno invaso il mare surriscaldato da questa estate torrida.

 Tornando indietro e, poi, uscendo dal pontile, si prova un sottile disagio, un appena avvertito dispiacere. Deriva dal fatto che si sta lasciando a malincuore un luogo tanto bello e suggestivo.

 

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                            Questo tu manciare

 

Era ottobre avanzato e si cominciava a stare bene davanti al caminetto. Quel tardo pomeriggio anche mia nonna, mia madre ed io ce ne stavamo al calduccio davanti al bel focolare acceso.

In quel triste 1944 vivevamo da sfollati in una vecchia casa che una vecchia signora ci aveva affittato nel paese di Camporgiano in Garfagnana.

 La guerra era arrivata anche lassù e il fronte era a poco più di dieci chilometri. Così era un continuo passare di soldati tedeschi che andavano e venivano. Spesso si fermavano in paese prima di affrontare l’ultima tappa. E qualcuno risiedeva stabilmente lì perché in paese c’era un ospedale militare e, subito fuori dal paese, un grosso autoparco.

 Così quella sera, mentre, come ho detto, ce ne stavamo tranquillamente al fuoco, a un tratto sentimmo bussare e, subito dopo, vedemmo entrare un giovane soldato tedesco. Era disarmato e aveva un aspetto per nulla minaccioso. Così non ci allarmammo ma ci levammo in piedi per chiedergli cosa volesse.

 Egli ci mostrò un cartoccio che conteneva dodici uova di gallina e, arrangiandosi alla meglio con le poche parole di italiano che conosceva, ci fece capire che aveva bisogno di una padella per poterle friggere.

 La nostra piccola cucina aveva anche una modesta attrezzatura, molto vecchia ma efficiente, fra cui una grossa padella di quelle da appendere alla catena del caminetto, sopra il fuoco.

 Mia madre la mostrò al soldato che assentì vivacemente, mostrandosi molto soddisfatto. Allora la padella fu messa sul fuoco e mia madre ci versò una piccola quantità di olio. Un po’ troppo piccola, forse.

 Ma bisogna sapere che dal giugno, allorchè l’ultima locomotiva fu distrutta dagli aerei americani, la ferrovia aveva smesso di funzionare e la Garfagnana era pressochè isolata. E i negozi erano sprovvisti di tutto. Così l’olio e il sale lo portavano i massesi che, attraversando a piedi le Alpi Apuane passando per la storica Via Vandelli (non carrozzabile) che le valicava al Passo della Tambura, venivano in Garfagnana a rifornirsi di farina di castagne barattandola con olio e sale. Bisognava stare attenti ai furbastri che – per esempio – mescolavano al sale un po’ di marmo tritato in modo da farlo pesare di più. Ma, insomma, in un modo o nell’altro quei generi li portavano ed erano preziosi.

 Al soldato quel poco olio parve sufficiente e, sedutosi anche lui davanti al camino, cominciò a scocciare le uova e a metterle in padella a friggere. E, davanti alle nostre facce stupefatte, ne mise a friggere undici. Ora aveva in mano la dodicesima, ma si fermò. Alzò lo sguardo dalla padella e lo fissò su di me. Io ero un ragazzo di quattordici anni, magro come un salacchino, con un aspetto che non era certo quello di una persona ben pasciuta. Il tedesco si fermò un attimo ad osservarmi con occhi amichevoli, poi mi porse il dodicesimo uovo dicendomi nel suo scarso italiano:

-         Questo tu manciare ! –

Poi, con noi tre che lo guardavamo sempre più stupiti per tutte quelle uova, prese una forchetta e

si mise tranquillamente a divorarle senza neppure toglierle dalla padella.

      In due o tre minuti ripulì la padella di tutte le uova, quindi si alzò, fece un cordiale cenno di saluto e se ne andò, lasciandomi attonito, col mio uovo ancora in mano. Paralizzato dallo stupore non ero riuscito a dire neppure una parola.

 

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                                         SCUOLA UNICA PLURICLASSE

 

Ero al mio sesto anno di insegnamento come insegnante elementare quando fui traferito in quel minuscolo paesino di montagna a soli 4 chilometri da casa mia. Ne fui felice perché era vicino, ma anche perché lì sarei stato l’unico insegnante di una “scuola unica pluriclasse”. Il che significava che io avrei dovuto insegnare a tre bambini di prima elementare, a tre di seconda, a una di terza, a quattro di quarta e a cinque di quinta, per un totale di sedici scolaretti.

 Non sapevo, allora, che sarei rimasto dieci anni in quella scuola e che avrei considerato quei dieci anni i più produttivi  della mia attività professionale ma anche fra i più felici. Per questo li ricordo così volentieri

 Il mio primo anno di insegnamento lo avevo fatto in un’altra “scuola unica pluriclasse” situata a oltre mille metri di altitudine. La scuola, composta da quell’unica piccola aula, era situata al primo piano di una casa privata e per raggiungerla bisognava passare per la cucina dei proprietari da cui partiva la scala di legno per salire. Il comune si limitava a pagare un piccolo affitto per quella stanzetta, quindi non c’era una bidella e la legna per la vecchia stufa di terracotta la portavano i bambini. Un fascelletto per ognuno, ogni mattina. Era stato, quindi, un anno pieno di difficoltà, ma quell’essere l’unico protagonista adulto, l’unico responsabile dell’organizzazione dell’attività scolastica non mi era dispiaciuto. Anzi ! Ed ora mi accingevo a ripetere quell’esperienza.

 Le condizioni erano decisamente molto migliori. La scuola aveva a disposizione un edificio scolastico di recente costruzione, con un bel portico davanti all’ingresso, un atrio di discrete dimensioni, doppi servizi igienici , una vasta e luminosissima aula e un piccolo terreno recintato tutto intorno all’edificio. Neppure qui c’era una bidella, però la legna la forniva il comune.

 All’epoca la scuola iniziava il 1° ottobre, San Remigio, e i bimbi di sei anni che venivano a scuola per la prima volta erano detti “remigini” e c’era anche una canzoncina che diceva: “”E’ il primo ottobre e a scuola si va – e ci accompagnano mamma e papà….””

 Quell’anno era una bellissima giornata serena.  Io mi recai a scuola e mi presentai ai bambini che mi attendevano nel cortile. E loro si presentarono a me, graziosamente, anche se con la timidezza che costituiva, all’epoca, la caratteristica dei figli dei contadini. Il paese era, infatti, un piccolo paese di contadini che vivevano dignitosamente perché avevano dei buoni e fertili terreni ben esposti a sole.

 Entrammo in classe e cominciammo la nostra avventura. La classe aveva l’arredamento fornito dallo Stato negli anni trenta, quando vennero istituite nei piccoli centri le cosiddette “scuole rurali”.

 Era un arredamento funzionale e grazioso, ancora in buone condizioni, composto da una ventina di banchi singoli a tavolinetto con la loro sediolina, da una cattedra, una lavagna e un armadietto, tutto dipinto di un verde tenero. Mi piacque. Fra l’altro nell’armadietto c’era una bibliotechina per l’insegnante composta da testi di pedagogia ma anche da qualche buon romanzo e da qualche opera di divulgazione scientifica. Erano tutte pubblicazioni degli anni trenta, di quando fu istituita la “scuola rurale”, ma erano ben tenuti e interessanti, perché molti di quei testi, per esempio le opere del Pestalozzi, erano ormai praticamente introvabili. Ne fui entusiasta. Immaginai quanto preziose fossero state quelle letture per le maestre di un tempo, costrette a vivere nel paesino - che allora non aveva una via di accesso carrozzabile e mezzi di trasporto – l’intera settimana.

 Avviammo serenamente la nostra attività scolastica, parlando molto di quello che avremmo fatto come attività didattica ma anche di quello che avremmo potuto fare per rendere la nostra scuola sempre più bella e accogliente.

 I bambini erano affettuosi e cordiali e mi resi conto che apprezzavano molto quel nostro parlare anche di cose non strettamente legate all’attività didattica ma riferite piuttosto alla loro vita. Tutti, anche i più piccoli, aiutavano in qualche modo i genitori nei lavori agricoli. Non posso far a meno di ricordare Nello, di seconda, che si alzava alle sei per andare nella stalla ad accudire le mucche “levandogli sotto” cioè ripulendo gli stalli dal letame e riempiendo le mangiatoie di fieno. Quando veniva a scuola aveva già fatto tutto il suo lavoro.

 Mi resi conto che eravamo soli, splendidamente soli, e che toccava a noi e solo a noi organizzare la nostra vita scolastica.

 Discutemmo del fatto che non c’era una bidella ma la scuola aveva comunque bisogno di manutenzione, per cui sarebbe stato necessario organizzarci per provvedere.

 Fummo d’accordo sul fatto che l’aula doveva essere spazzata ogni giorno, che la stufa doveva essere accesa ogni mattina, che i fiori dovevano essere curati (la vecchia insegnante aveva lasciato alcuni vasi con dei fiori ancora vivi)…..

 L’aula l’avevano sempre spazzata le bimbe e dissero che avrebbero continuato a farlo loro. I maschietti accendevano la stufa e la alimentavano secondo necessità e pure loro avrebbero naturalmente continuato a farlo. Il fatto è che queste cose venivano fatte durante la prima parte della mattinata e sottraevano tempo prezioso all’attività didattica.

 Discutemmo la cosa e tutti si dichiararono disposti a venire prima dell’inizio delle lezioni per fare quelle cose purchè qualcuno…..aprisse loro la porta.

 Dopo alcuni giorni di meditazione e dopo essermi fatto convinto di quanto gli scolaretti, anche quelli più piccoli, fossero seri e responsabili, presi la decisione che di questa serietà e senso di responsabilità potevo e dovevo fidarmi.

 Così proposi ai ragazzi una molto seria organizzazione della nostra attività anche extra-didattica invitandoli a dividersi equamente i compiti responsabilizzandosi al massimo. I ragazzi si mostrarono interessatissimi e curiosi assai ed io esposi la mia idea.

 Per prima cosa avrei nominato capo-classe il più serio e responsabile dei ragazzi di quinta. A lui avrei consegnato la chiave della scuola e lui si sarebbe assunto la responsabilità di aprire la scuola mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni e di vigilare sul funzionamento della nostra macchina organizzativa. Che consisteva nello stabilire dei turni settimanali duranti i quali due o tre (a seconda della disponibilità) bambine si sarebbero assunte il compito di pulire la scuola (spazzarla ogni giorno e lavare i pavimenti una volta la settimana), due o tre maschietti si sarebbero assunti il compito dell’accensione e dell’alimentazione della stufa, due o tre avrebbero avuto la cura dei fiori in vaso e altri due o tre si sarebbero occupati del cortile che decidemmo subito di chiamare giardino, dove preparammo delle aiole entro cui, a primavera, avremmo seminato fiori.

 Per rendere visibile la nostra organizzazione preparammo un bel cartellone sul quale erano indicate le varie funzioni sotto a ciascuna delle quali, entro apposite fessure, potevano essere posizionati dei cartellini coi nomi di coloro che “erano di turno”. Era il capoclasse che, ogni lunedì, aggiornava il cartellone assegnando gli incarichi.

 Lo so che aver lasciato la chiave al capo-classe e aver consentito che gli alunni entrassero in scuola senza sorveglianza era una cosa azzardata e che non andava fatta. Ma il mio innato ottimismo, la mia assoluta fiducia nel senso di responsabilità degli alunni e, non ultimo, il sostegno dei genitori che, da gente pratica, apprezzava incondizionatamente sia il fatto di aver recuperato tempo per l’attività didattica vera e propria ma anche – e, forse, soprattutto – il fatto di spingere i ragazzi ad organizzarsi e a responsabilizzarsi.

 E - debbo assolutamente dirlo – in dieci anni non si è mai verificato il benchè minimo inconveniente derivante da questa mia azzardata scelta.

 Avrei mille episodi belli e anche commoventi per illustrare questi meravigliosi anni vissuti con quella che era per me un’altra grande famiglia. E forse un giorno li racconterò.

 Per concludere voglio raccontarne uno piccolo, ma per me di grande significato, da cui si ha una idea di quelli che erano i rapporti fra me e quella buona gente.

 Nella notte era venuta una eccezionale nevicata e stava ancora nevicando. Per raggiungere la scuola occorreva salire notevolmente, ma io avevo una cinquecento munita di robuste catene e, in genere, non c’era mai stata nevicata che mi avesse fermato. Per cui partii fiducioso. Ma, giunto a metà strada, la neve era talmente alta che non fu possibile andare avanti. L’idea di non andare a scuola per me non era neppure concepibile, per cui, lasciata la macchina, proseguii faticosamente a piedi.

 Arrivai con una buona mezz’oretta di ritardo ma i bambini avevano la certezza che io – neve o non neve - sarei certamente arrivato, per cui erano in classe, avevano pulito la scuola e acceso la stufa e stavano tranquillamente aspettando. Ci salutammo sorridendo, poi una bambina mi mostrò, vicino alla stufa, un paio di calzettoni di lana che la sua mamma le aveva detto di portarmi. Da casa sua mi aveva visto arrancare nella neve e aveva immaginato che sarei arrivato coi piedi bagnati e gelati.

 Ringraziai la bambina e la pregai di ringraziare la sua mamma. Poi mi tolsi le calze bagnate e mi infilai, con enorme sollievo, i bei calzettoni caldi. Avevo voltato le spalle ai bambini che stavano seduti nei loro banchi e che, perciò, non videro i miei occhi umidi.

 

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                                       I     M E R L I     N E L    N I D O

 

 La casa dei miei vecchi è in campagna. E’ sempre stata chiamata “la Casetta” ed è sempre stata, per me e per i miei figli, un luogo gradevole, un luogo di vacanza, un luogo sereno. Anzitutto per i nonni, sempre felici di vedere i nipotini e molto, molto permissivi. E poi per il boschetto di querce e di lecci che era lì vicino, per le folli corse nei prati, per i mille giochi da inventare nei prati, nei campi e, giù giù, fino al fiume dalla limpida acqua gorgogliante e, lì presso, l’ombroso vetriciaio. Il vetriciaio era un boschetto di salici da vimini lasciati crescere a protezione dei terreni retrostanti minacciati dalle piene del fiume. Più in su c’era anche l’ancor più ombrosa ontanaia e, subito sotto, la famosa “grotta bianca”, una grande pozza d’acqua entro cui era delizioso tuffarsi e nuotare.

  Ora alla Casetta non c’è più nessuno, anche se tutto è rimasto com’era. Ma tutto è invecchiato e tutto sembra più fragile. Anche la terra è abbandonata. C’è solo il Paolo della Roncaiana che viene d’estate con la sua falciatrice, taglia l’erba nei prati e la porta alle sue vacche.

 Poi ci sono io che mi ostino a non lasciar morire alcune piante di vite, a fare un po’ d’orto, a tenere sufficientemente puliti e un po’ in ordine gli immediati dintorni della casa. Ma ogni anno mi costa maggior fatica.

 Davanti alla casa c’è, da sempre, una bella siepe di bosso, che noi chiamiamo bussolo, aperta nel mezzo per consentire l’accesso al minuscolo giardinetto che sta subito sotto. Naturalmente è necessario, ogni tanto, potarla affinchè mantenga la sua forma originaria e continui, quindi, a dare un’idea di ordine e di non abbandono.

 Anche quest’anno l’ho fatto. Ho preso il mio tagliasiepi elettrico e, piano piano, ho pareggiato il davanti, il dietro, i lati e il sopra. E’ un lavoro che faccio volentieri, come tutti i lavori che danno la sensazione di passare da una condizione di disordine a una condizione di ordine. Quello che non amo è il necessario lavoro successivo, cioè la raccolta e l’eliminazione di ciò che è stato tagliato.

 Tuttavia anche questa volta mi sono accinto con rassegnazione a farlo giacchè inevitabile.

 Ho cominciato dal giardino perché tutto l’abbondante frascame era caduto sull’azalea che quest’anno preannuncia una eccezionale fioritura, sulle rose, sui narcisi, sulla piccola agave, sull’aucuba….e rischiava di soffocarle.

 Mentre stavo procedendo col lavoro, a un tratto ho alzato gli occhi sulla siepe, anche per vedere come era riuscito il mio lavoro e….sono rimasto di stucco. In bella vista c’era un nido di merlo con quattro merlotti appena usciti dal guscio. Mi sono reso conto che il nido si era salvato per miracolo. Il tagliasiepi, infatti, lo aveva sfiorato. Bastava che fossi andato un centimetro più in là e il nido sarebbe stato distrutto. Mi rallegrai per questo, ma mi resi conto che ora il nido era troppo visibile ed esposto ai predatori dell’aria e della terra. Allora sistemai alcuni rametti in modo da rendere meno visibile il nido e i suoi occupanti.

 Conclusi il mio lavoro e lasciai il giardino. Mi auguravo che la madre non si fosse spaventata troppo e che tornasse a nutrire i suoi piccoli.

 Il giorno dopo mi affacciai silenziosamente per vedere se la madre era tornata. Lo era, ma al mio apparire era volata via. Comunque ero ormai certo che non aveva abbandonato i piccoli.

 Ogni giorno mi affacciavo per dare un’occhiata e la merla subito volava via. Finchè una mattina al mio prudente e silenzioso affacciarmi, la merla rimase nel nido. Forse si era resa conto che io non ero un pericolo. Ed io, immobile, continuai a guardare mentre lei mi fissava con occhi duri e battaglieri. Sono sicuro che se mi fossi avvicinato di più mi avrebbe attaccato per proteggere i suoi piccoli, che ora erano rapidamente cresciuti e avevano messo le prime piume. Scattai alcune belle foto e anche un video di queste quattro fameliche  boccucce sempre spalancate in attesa di cibo.

 Ogni giorno andavo a dare un’occhiata e vedevo i merlotti crescere a vista d’occhio. La madre non era nel nido. Era su un ramo del vicino sambuco e “chioccolava”. Pensai che stava esortando i suoi piccoli a lasciare, ormai, il nido. E, infatti, stamani il nido era vuoto. Sicuramente la madre li avrà condotti a imboscarsi in qualche siepe più lontana e più sicura.

 Ero contento. In realtà io, per fortuna e involontariamente, ero riuscito a non ucciderli. E non avevo fatto altro. Ma, chissà perché, mi sembrava di aver avuto una parte nella felice conclusione della loro avventura. Quasi come se li avessi cresciuti io. Li ho amati e forse qualcosa di questo sentimento è stato percepito. E, forse, ha contribuito a far sì che il mondo apparisse loro meno ostile e meno pericoloso.

 

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                                                      RICORDI ANTICHI

 

 Ho sempre avuto molta cura dei ricordi della mia vita, cercando di salvarli dall’oblio col raccontarli a figli e nipoti e anche fissandoli sulla carta.

 Ora sento il bisogno, quasi l’urgenza, di scavare ulteriormente nei miei ricordi, per far uscire dall’ombra quelli ancora sommersi, per precisare i contorni di quelli più vaghi….

 Forse è un bisogno più o meno inconscio, di lasciare qualcosa che, almeno nella mente di chi mi ha conosciuto, sopravviva alla mia morte.

 Ed ecco che è emerso quello che credo sia il piu` antico ricordo della mia vita e che  risale a quando ancora la mia famiglia abitava al Ponte, nella casa di Mario Giannetti. Poichè ci trasferimmo da quella casa quando io avevo tre anni, il fatto che sto per narrare risale a quando avevo meno di tre anni. Verosimilmente dovevo avere intorno ai due anni.

 Era, dunque, una sera e stavamo tutti : mia nonna Mariuccia, mio nonno Giovanni, mio padre, mio fratello Guido ed io , seduti intorno al grande camino acceso. Mia madre, invece, stava trafficando intorno ai fornelli che si trovavano, come ho appurato parlandone con mio fratello, perche` su questo punto il mio ricordo non era chiaro, nella cucina attigua alla stanza dove era il camino e dove noi ci trovavamo. C'era, però , una porta di comunicazione fra le due stanze, sicuramente aperta, ed io dovevo trovarmi, evidentemente, in posizione tale da  riuscire a vedere la mamma mentre, come ho detto, stava trafficando intorno ai fornelli. Stava essa, esattamente, controllando ciò che stava cuocendo dentro un piccolo forno portatile consistente in un treppiede di ferro fatto in modo che su di esso, posto sopra il fornello, potesse collocarsi una teglia, ed in una specie di grossa campana di alluminio, recante in vetta un pomello di bachelite per poterla afferrare, che veniva posta sopra la teglia per trattenere il calore del fornello e convogliarlo tutto sulla teglia stessa.

 Si trattava certo di uno sformato o di un dolce.

 Ad un tratto, mentre ce ne stavamo lì come ho detto, venne a mancare la corrente elettrica e rimanemmo al buio. Immediatamente tutto l'ambiente assunse, ai miei occhi, un aspetto misterioso e vagamente minaccioso. La fiamma e le brace del camino erano ora l'unica fonte di luce, per cui le facce, illuminate dal basso, avevano acquistato un colore rossastro e un aspetto inconsueto, per le vaste e profonde zone d'ombra che si disegnavano su di esse.

 Le nostre ombre, poi, si proiettavano sulle pareti della stanza ingigantite e tremolanti. Malgrado tutto cio`, tuttavia, la mia inquietudine era controllabile, in virtù anche del fatto che tutti continuavano a parlare con calma e senza mostrare preoccupazione.

 Riuscivo ancora a vedere mia madre, ombra scura che continuava a muoversi intorno ai fornelli, e questo era abbastanza tranquillizzante, anche se un po' di inquietudine mi veniva dal fatto di vederla quasi completamente inghiottita da quel mare d'ombra.

 A un certo punto però mia madre, che verosimilmente, aveva sentito puzza di bruciato o, almeno, aveva temuto che qualcosa non funzionasse a dovere nella cottura del suo sformato o dolce che fosse, sollevo` il coperchio del forno.

 Rimasi agghiacciato dal terrore.

 Davanti a mia madre delle cose rosse sfrigolavano e scintillavano in modo che a me parve terribilmemte minaccioso. Ebbi la sensazione che qualcosa di diabolico, di infernale fosse sorto davanti a mia madre e stesse per portarmela via in modo sconvolgente. Mi rannicchiai in attesa dei clamori che pensavo si sarebbero levati da tutti gli altri di fronte alla grave minaccia. Pensai che mio padre sarebbe sorto fulmineamente e si sarebbe gettato in disperato soccorso della mamma. E mi preparai a piangere, per unirmi al coro delle grida altrui.

 Ma non accadde nulla. Tutti mostrarono la piu` grande indifferenza per quello che stava accadendo e continuarono a parlare con molta calma. E mentre io, sconcertato, notavo tutto questo, e ansiosamente guardavo mia madre continuando a temere per lei, essa, con mossa decisa, abbasso` il coperchio che teneva in mano e imprigionò sotto di esso le fiammeggianti forze infernali che la minacciavano, facendole così inghiottire dalle stesse tenebre dalle quali prima erano  improvvisamente emerse.

 Dopo un attimo tornò anche la luce facendo riemergere intatti gli oggetti e le persone della mia casa. La mamma era salva, tutto era al suo posto, non c'era piu` nulla da temere. E cosi`, piano piano, anche in me tornò la calma e la tranquillita`. A lungo, pero`, continuai a pensare che una grave minaccia c'era stata , anche se i "grandi" della mia casa non si erano lasciati intimorire da essa e la avevano sventata con forza e decisione.

 Soltanto molto tempo dopo ho saputo che lo sfavillare minaccioso che mi aveva tanto intimorito era dato dal fatto che i ferri del treppiede che reggeva la teglia, per un eccesso di calore, si erano arroventati fino a divenire incandescenti.

 

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                                                               IO E I SERPENTI

 

Nella mia vita ho ucciso tre serpenti. Bisogna che dica che non ho mai amato i serpenti. Mi fanno ribrezzo e anche un po’ di paura. Tuttavia non gli ho mai dato la caccia . Quando ne incontro uno aspetto che se ne vada per la sua strada mentre io vado per la mia. Tanto più se si tratta di una vipera che, timida e paurosa com’è, è più interessata di me a scappare per mettersi al sicuro.

 Però tre serpenti li ho uccisi e voglio raccontare come e perché.

 Ecco come si svolsero le cose la prima volta: Quel giorno – era una bella giornata estiva - con mia moglie e i miei figli eravamo stati invitati dai miei genitori che abitavano in campagna a fare un pic-nic nel prato delle Cannelle, un grande prato pianeggiante che aveva proprio nel mezzo un noce gigantesco che faceva una gran bella e gradita ombra. Doveva essere a fine giugno o ai primi di luglio perché l’erba era già stata falciata ed ora stava ricrescendo morbida e fresca.

 Seduti sull’erba avevamo mangiato di gusto il pollo ruspante che mia madre aveva fatto arrosto con le immancabili patatine ed ora stavamo chiacchierando felici e rilassati mentre i figli giocavano lì intorno. Ad un tratto udimmo Cinzia, che aveva circa due anni e si era allontanata di qualche metro, gridare con una vocina tremolante e indicare con un ditino un grosso ontano che cresceva presso il margine del prato e aveva dei rami anche molto bassi. Ed ecco che, guardando là dove la bimba indicava, vidi un grosso serpente lungo, a occhio e croce, oltre due metri che aveva raggiunto il ramo più basso e, da questo, si era issato, con una parte del corpo,  su un ramo ancora più alto.

 Si trattava di un colubride, sicuramente non velenoso, uno di quei serpenti molto diffusi nelle nostre campagne, che noi chiamiamo “torchioni” i quali – si dice, ma forse è una leggenda – se disturbati si avvinghiano alle gambe e le frustano con la coda (cioè le “torchiano”. Da noi, infatti, i lunghi e sottili rami dei salici, che si usano anche per legare le viti, sono detti “torchi” e un tempo le gambe dei ragazzini che l’avevano fatta grossa venivano, per punizione, frustate con uno di questi “torchi” e, quindi “torchiate”.)

 Alla vista di quella serpe provai subito il consueto senso di ribrezzo e repulsione, ma anche rabbia per lo spavento patito dalla mia piccola, tenerissima bimba… Il fatto sta che afferrai un bastone, mi avvicinai e colpii con grande violenza il corpo del serpente che si trovava fra i due rami. Il colpo scosse violentemente anche i rami e le foglie dell’ontano che oscillarono creando scompiglio. In quello scompiglio il serpente scomparve ed io mi allontanai pensando che, forse, il serpente era fuggito. Infatti non lo avevo colpito con la delibetata intenzione di ucciderlo. Solo dopo, quando gli altri stavano avviandosi per rientrare a casa tornai sul luogo e, esplorando sotto la ramaglia, trovai il serpente morto, con la spina dorsale troncata dalla mia bastonata. Non me ne dolsi più di tanto, ma non ne fui neppure fiero.

 Il secondo serpente, ancora un innocuo “torchione”, lo uccisi proprio sul marciapiedi della Casetta, la mia casa di campagna. In quel tempo stavo eseguendo dei lavoretti in muratura e, nel piazzale davanti alla casa, proprio accanto alla porta di ingresso, avevo fatto scaricare un mucchio di sabbia che avevo poi coperto – affinchè la pioggia non la disperdesse – con una lamiera ondulata.

 Quel giorno – erano arrivati i primi tepori di primavera – dovevo usare della sabbia per cui sollevai la lamiera che la copriva. Sotto di essa, beatamente arrotolato sulla sabbia tiepida, eccoti un bel serpentone lungo un metro abbondante. Quella vista scatenò in me la consueta reazione di ribrezzo, paura e rabbia proprio per questa sgradevole reazione che quella presenza aveva scatenato.

 Il “torchione”, per parte sua, fu certo più spaventato di me e perse la testa. Infatti, invece di dileguarsi nell’erba subito fuori dal marciapiedi, voltò l’angolo della casa e si avventurò lungo il marciapiedi laterale che, oltre ad essere incassato fra la casa e un muretto, finiva con una scaletta che avrebbe dovuto superare. Oltre a ciò sul cemento del marciapiedi scivolava per cui non riusciva a procedere con la massima velocità. Ed io, istintivamente, afferrata una zappa che era lì presso, gli corsi dietro lungo il marciapiedi laterale. Il serpente si sforzava di correre, con la testa sollevata ed emetteva dei soffi sibilanti e disperati. Fu un attimo. Lo raggiunsi e lo colpii con la zappa. Fu un colpo solo che tagliò il serpe in due tronconi che continuarono per un po’ a contorgersi.

 Quella volta alla vista di quei resti provai subito vero dolore e rimorso. Avevo ancora negli occhi quel suo arrancare disperato e negl’orecchi quel soffiare affannoso. Mi resi conto di aver infierito crudelmente su una creatura innocente che cercava disperatamente di fuggire e salvarsi, evitando la morte. Quel dolore e quel rimorso sono ancora dentro di me. Dopo quarant’anni.

 Il terzo serpente lo uccisi senza rimorso perché era una vipera ed era proprio davanti alla Casetta, ora frequentata anche dai miei nipotini.

 Stavo facendo la pulizia del piazzale e stavo rimuovendo delle grosse mattonelle che eravo avanzate dalla pavimentazione di una stanza ed erano state appoggiate al muro esterno della casa.

 Dietro una di esse trovai la vipera. Era ancora giovane, lunga non più di trenta o quaranta centimetri ed era ancora intorpidita giacché eravamo al principio della primavera. Si muoveva lentamente per cui ebbi modo di osservarla bene fino ad essere sicuro che si trattava proprio di una vipera. Allora la uccisi schiacciandole la testa, convinto di fare la cosa giusta.

 E con questo si conclude la mia storia di assassino di serpenti pentito.

 Ma sono sicuro che li ritroverò quei tre serpenti, perché in questo incommensurabile spazio-tempo che è l’universo prima o poi tutto ritorna. Li ritroverò e saremo sereni, perché saremo consapevoli che tutto quanto ci è accaduto era solo e semplicemente il nostro destino.

 

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