La difficile ritirata
Riportiamo, qui di seguito, un brano del lungo racconto intitolato De Bello Gotico dell'allora Sotto Tenente Walter Strata della Divisione ITALIA, pubblicato nel II° Volume dell'opera La linea Gotica tra la Garfagnana e Massa Carrara - settembre 1944 - aprile 1945 di Davide Del Giudice e Riccardo Mori, edito da Ritter Milano 2003.
""...........Passiamo ora all'ultimo tratto della vicenda: durante un nostro servizio di durata settimanale, al Posto Avanzato di Le Tese, davanti al paese di Vergemoli, verso il 16 - 17 aprile (1945), ci siamo trovati al mattino con una strana sensazione di calma insolita. Abbiamo volto lo sguardo verso il crinale della nostra linea difensiva e lo abbiamo visto animato da sagome indistinguibili. Poiché il fatto esulava dalla norma, abbiamo cercato telefonicamente il contatto con il nostro comando. Invano, perché nessuno rispondeva. Abbiamo allora cercato di metterci in contatto, comunicando con il paritetico Posto Avanzato laterale, davanti a Calomini. All'ufficiale comandante di questo posto abbiamo riferito le nostre perplessità. Dopo di che, risultando vana ogni comunicazione telefonica, decisi di inviare una pattuglia in ricognizione. Al suo ritorno questa riferiva che la Posizione di Resistenza, ossia prima linea, era percorsa da molti civili che stavano saccheggiando i ricoveri, mentre non c'era traccia di nostri militari, né tanto meno di nostri comandi. Avuta questa notizia, e dopo averla comunicata al mio collega dell'altro Posto Avanzato, decisi di ritirarmi, per il solito percorso, fino alla linea di cresta, per tentare di trovare traccia delle nostre unità. Prima, sempre con la consulenza del nostro maresciallo tedesco, abbiamo abbandonato le armi pesanti di reparto e il munizionamento superfluo, facendoli precipitare in un dirupo; abbiamo poi inscenato una spettacolare azione di mitragliamento, di alcuni minuti, verso le posizioni avversarie, con l'intento di segnalare che la nostra presenza sussisteva ancora e che nulla era cambiato. Giunto in vetta ho constatato di persona la verità di quanto riferito dalla pattuglia. Eravamo stati abbandonati al nostro destino senza alcuna comunicazione né ordini. Rendendomi sempre più conto che dovevamo ormai contare solo su di noi, ho provveduto a disperdere i civili che stavano razziando le nostre cose. Successivamente, poiché si trovava nelle riservette in loco una notevole quantità di munizioni di vario genere, di mine, di inneschi e di bombe a mano e centinaia di bombe da mortaio da 81 mm., le abbiamo accatastate e le abbiamo innescate con una miccia a lenta combustione, discendendo poi verso il vallone sottostante. Dopo circa una decina di minuti, una enorme deflagrazione ha scosso la vallata e una densa nuvola di fumo nero si è alzata alle nostre spalle. Poco dopo siamo stati inseguiti da colpi di artiglieria di grosso calibro che non ci hanno procurato alcun danno perché sparati a casaccio. L'avversario si era forse finalmente accorto che qualcosa era cambiato nel settore. Proseguendo nel nostro cammino, sempre in fila indiana, io in testa, il maresciallo tedesco in coda, mentre percorrevamo un sentiero che costeggiava un burrone sulla sinistra e con una parete a strapiombo sulla destra, abbiamo incrociato un tizio in borghese che portava uno zaino militare e un ombrello e che stava dirigendosi verso le nostre linee avanzate. E' stato giocoforza fermarsi perché lo spazio non permetteva il passaggio di due persone affiancate. Ho intimato al civile di consegnarmi lo zaino militare e, con mia sorpresa, alzata la bandella superiore, ho letto scritto con l'inchiostro di china nero un nome: sottotenente Strata Walter. Si trattava proprio del mio zaino che era stato prelevato in precedenza nel mio bunker e che avevo invano cercato. L'ho trovato privo di tutto il mio vestiario e degli oggetti personali, tra i quali una macchina fotografica, con diversi rullini già impressionati, per me preziosissimi; in compenso, ho trovato una trentina di paia di calze nuove con le quali, successivamente, sono riuscito a giungere fino a casa, con frequenti cambi di pedalini. Ho redarguito l'individuo, che era molto impaurito dalla situazione nella quale era venuto a trovarsi: ma non ha saputo darmi valide spiegazioni per essersi appropriato di oggetti altrui. Con un moto di rabbia, allora, gli ho strappato l'ombrello di mano, scaraventandolo nel burrone. Nel frattempo si era avvicinato il maresciallo tedesco per sapere della sosta e che cosa l'aveva provocata; quando ha saputo del fatto voleva a tutti i costi spingere nel burrone anche il malcapitato al che mi sono decisamente opposto facendo presente al sottufficiale che eravamo dei soldati e non degli assassini, ed ho lasciato proseguire quello sciagurato più morto che vivo dalla paura. Noi che abbiamo vissuto per diverso tempo a contatto con la gente del luogo, che non aveva voluto ritirarsi, malgrado tutti i pericoli del fronte, e con la quale ci siamo aiutati reciprocamente, noi fornendo loro sovente viveri e sigarette, e loro fornendoci i loro servigi remunerati in denaro, noi, ripeto, conoscevamo i brutti momenti che avevano vissuto per la mancanza di cibo sufficiente e per essere continuamente sottoposti al pericolo di essere colpiti anche se defilati. Pertanto il loro desiderio di poter racimolare qualcosa da vendere o indossare, in quelle circostanze, era più comprensibile, almeno per noi italiani. Chiusa questa parentesi, e sempre dirigendoci verso nord-ovest, siamo finalmente riusciti a raggiungere la sede del nostro comando. Quando abbiamo lamentato la mancanza di ogni comunicazione, sia telefonica sia a mezzo staffetta, della ritirata delle truppe dalla Posizione di Resistenza, ai Posti avanzati di Calomini e Vergemoli, lasciati abbandonati al loro destino, ci è stato risposto in maniera evasiva, ma che non ricordo bene, perché la situazione stava precipitando e c'era altro a cui pensare. Il Comando Battaglione nel bailamme in cui si viveva, con episodi bellici frazionati e senza più direttiva univoca e ben precisa per tutti i reparti dipendenti, decise di costituire un caposaldo, credo sulle alture di Soliera, con tutti i rimasugli delle forze che che erano arretrate, per tentare di bloccare l'avanzata degli americani che di lì a poco si sarebbero presentati. In quest'ottica il comando mi ordinò di partire, con quello che rimaneva del mio plotone, in perlustrazione per ricercare il contatto visivo con il nemico ed in seguito riferire. La partenza avvenne di notte, senza carte topografiche e senza un preciso itinerario da seguire; dovevamo procedere a caso. Pur rendendoci conto della gravità della situazione e del momento particolare che stavamo vivendo, siamo stati molto delusi dalla mancanza di organizzazione e dal senso di smarrimento che si notava nei comandi. Sempre in virtù del senso del dovere e della disciplina nell'obbedire agli ordini ricevuti, abbiamo intrapreso il nostro cammino, percorrendo un lungo tratto di strada per sentieri e viottoli diversi, non rendendoci neanche conto di dove stavamo andando e perché. Verso le prime luci dell'alba, quando un incerto chiarore è riuscito ad illuminare il terreno circostante boscoso e scosceso, ci siamo ancora infiltrati fino a raggiungere un canalone asciutto. Qui abbiamo fatto una breve sosta per orientarci con la luce del giorno. Improvvisamente abbiamo udito il classico rumore, proveniente da un'altura sovrastante circa un centinaio di metri, dei colpi di partenza di mortaio. Dopo una decina di secondi, preceduta da uno sfarfallamento d'aria, una prima salva ci è esploza, senza conseguenze, alle spalle. I mortai entrati in azione dovevano costituire circa due sezioni, contando la successione dei colpi in partenza. Ho ordinato immediatamente agli uomini di mettersi al riparo sotto il ciglio, perché mi ero reso conto di essere rimasto imbottigliato in una situazione estremamente pericolosa. Dopo pochi secondi, altra salva in partenza, questa volta corta davanti alle nostre posizioni. Dopo un brevissimo periodo, terza salva in partenza e obiettivo centrato in pieno. Il sottoscritto ed il gruppo di uomini a me vicini, colpiti in varie parti del corpo da una miriade di schegge, siamo rimasti per un attimo annichiliti e indecisi sulla decisione da prendere. Io, in particolare, ho avuto la fortuna di avere, oltre l'elmetto in testa, anche il famoso fucile Garand di preda bellica, che portavo sempre con me, per cui la bomba, centrando letteralmente il fucile, messo per traverso sul mio capo, lo spezzò, ma mi salvai dallo scoppio diretto sul corpo. Sono stato inondato di schegge dalla testa al torace, in tutta la parte destra del corpo. Il sangue usciva copiosamente da tutte le ferite e mi annebbiava la vista; però riuscivo a muovermi. Lo scoppio, inoltre, era stato talmente vicino che mi procurò la rottura del timpano all'orecchio destro (tempo dopo soffrii di una tremenda emorragia con dolori lancinanti). Considerata la situazione e prima di essere investiti immobili da altre salve di colpi, ho ordinato a tutti i miei uomini di ripiegare velocemente verso posizioni più riparate. A questo punto il racconto diventa quanto mai difficile perché il plotone si è frazionato, disperdendosi in varie direzioni nei folti gruppi di castagneti della zona. Io con altri due bersaglieri, pure loro feriti, ci siamo diretti verso una valletta boschiva, dove abbiamo avuto la fortuna di incappare in un nostro posto di medicazione, sistemato in un metato. Siamo stati sommariamente medicati, con l'estrazione delle schegge più superficiali, fasciati, e ci è stata inoltre praticata una dose di vaccino antitetanico. Abbiamo sostato in quel posto fino al primo pomeriggio, mentre il fronte di guerra, quanto mai frazionato in varie zone, ci oltrepassava e le pattuglie americane ci sfilavano tutto intorno senza accorgersi di noi. Mi ricordo che in un angolo del locale, per terra, giaceva un giovanissimo soldato tedesco, quasi un bambino, esangue per la perdita degli arti inferiori, stroncati dallo scoppio di una granata, che continuava a gemere: "Mutter! Mutter!". Nel pomeriggio abbiamo ripreso il nostro cammino; non abbiamo più incontrato né reparti alleati, né reparti nostri che, nel frattempo, si erano sicuramente ritirati in cerca di una via di scampo. Per noi la guerra era finita: finita male, ma finita ! Eravamo in tre, come precedentemente detto: il Serg.Magg. Creazzo Libero di Roma, il caporal maggiore Cutter Tullio di Brescia ed il sottoscritto, tutti più o meno gravemente feriti......""
Successivamente i tre verranno catturati dai partigiani, poi ricoverati all'Ospedale di Soliera e, infine, lasciati liberi e muniti di lasciapassare per rientrare alle loro case. Una storia, malgrado tutto, finita bene.