Lo sfollamento

Quando si racconta di una guerra accade che si parli quasi esclusivamente di chi la guerra la fa combattendo o, comunque, dei fatti più cruenti e appariscenti. Pare giusto, però, parlare anche di chi la guerra non l’ha fatta con le armi in pugno ma l’ha subita sopportando disagi a volte superiori a quelli degli stessi combattenti.

Fin dai primi anni della seconda guerra mondiale la Garfagnana diventò luogo di rifugio per gli abitanti delle città colpite dai bombardamenti anglo-americani, prevalentemente Pisa e Livorno ma anche La Spezia ed altre. E i garfagnini li accolsero volentieri sia perché chi poteva affittò case vuote o parte delle loro stesse case ricavandone un reddito, sia perché il notevole aumento di popolazione portò lavoro per gli artigiani (sarti, calzolai, ecc.) e clienti per i commercianti e per i contadini allora numerosissimi (a quel tempo la Garfagnana era dedita pressoché esclusivamente all’agricoltura ed era intensamente coltivata. Tutto il territorio era diviso in poderi condotti a mezzadria e perfino la cosiddetta “iara” , cioè le zone sabbiose del greto del Serchio erano intensamente coltivate soprattutto a fagioli  dagli operai o da chi comunque non aveva altra terra da coltivare).            Naturalmente i paesi preferiti furono quelli di fondovalle, che erano collegati da una strada carrozzabile provinciale e, soprattutto, avevano  la ferrovia e che, quindi, consentivano un facile accesso. Tali paesi, inoltre, avevano delle case abbastanza moderne e non troppo vecchie poiché buona parte di esse era stata costruita o ricostruita dopo il terremoto del 1920. In definitiva, quindi, gli sfollati avevano potuto sistemarsi – malgrado qualche inevitabile adattamento – abbastanza bene, nel senso che tutti avevano, come minimo, un luogo dove cucinare e una camera dove dormire. E così le cose andarono avanti abbastanza tranquillamente fino alla primavera del 1944.                                                                                                  Purtroppo, però, le cose cambiarono rapidamente e drasticamente dopo che gli an glo-americani, superato il fronte di Cassino, cominciarono a risalire la penisola e, quindi, ad avvicinarsi. Nel giugno i treni della linea Lucca-Piazza al Serchio cominciarono ad essere mitragliati e distrutti, tanto che con l’11 giugno il servizio ferroviario su questa linea cessò di funzionare. Verso la metà di giugno venne bombardata la ferrovia nei pressi di Camporgiano, il 29 giugno fu bombardato Piazza al Serchio e furono uccise 13 persone, ai primi di luglio fu bombardato Castelnuovo e anche qui ci furono dei morti….                                                                                  Stante questa situazione la gente capì che anche i paesi della Garfagnana, almeno quelli di fondovalle, non potevano più considerarsi sicuri.  E anche da questi paesi si cominciò a sfollare verso le frazioni  che stavano più in alto. Così non solo gli sfollati dalle città ma anche gli stessi garfagnini dei paesi di fondovalle si misero alla ricerca di nuove sistemazioni abitative. Ma non fu assolutamente una cosa facile. Le frazioni, spesso minuscole, non avevano case sufficienti per ospitare tutta questa gente, per cui, esaurita la possibilità di trovare una casa, ci si adattò a situazioni che si potrebbero definire drammatiche. Fin che ce ne furono di disponibili furono utilizzati anche i metati come abitazioni. I metati, o seccatoi sono costruzioni che si trovano, spesso, in mezzo alle selve di castagno e che vengono utilizzati, appunto, per seccare le castagne che, una volta seccate, vengono macinate e diventano farina. Essi sono costituiti da un unico locale – quattro muri senza intonaco e un tetto - nel mezzo del quale, sulla nuda terra, viene acceso un fuoco il cui calore deve far seccare le castagne che vengono distese sopra un “soffitto” fatto di canne (i cannicci) Lo spazio disponibile è quello vicino ai muri perimetrali tutto intorno al fuoco. Parte di questo spazio, fra l’altro, era solitamente occupato da mucchi di “pula”, cioè la buccia secca delle castagne dell’anno precedente, che viene buttata intorno al fuoco per far bruciare la legna più lentamente e farla durare più a lungo. Gli sfollati nei metati, quindi, dovevano vivere il quello spazio angusto, dormendo spesso sdraiati direttamente sui mucchi di “pula” e cucinando in qualche modo sul fuoco del metato. I più fortunati avranno forse potuto disporre di un fornellino a carbone. Insomma una vita ai limiti della sopportabilità.                                             Altri optarono per una soluzione ancora al limite della sopportabilità:  le gallerie della ferrovia. In alta Garfagnana, nel tratto fra Castelnuovo e Piazza al Serchio ci sono più di dieci gallerie e quasi tutte furono utilizzate come rifugio sia dai soldati (prima tedeschi, poi italiani della RSI) sia, appunto, da civili che non avevano trovato da sistemarsi altrove. Il gruppo di famiglie che aveva deciso di occupare una galleria, dunque, provvedeva anzitutto a costruire, con le “traversine” di legno divelte dai binari e pietre, dei robusti “paraschegge” ai due imbocchi, a protezione di eventuali bombe che avessero ad esplodere proprio davanti all’imbocco (almeno in un caso è accaduto anche questo). Poi ciascuna famiglia provvedeva a costruire, dentro la galleria una capanna entro cui vivere. A seconda delle capacità e della industriosità di ciascuno si avevano delle baracche di legno abbastanza confortevoli o delle misere capannucce di paglia piccole e mal chiuse e, quindi, tutt’altro che confortevoli perché, fra l’altro, mal riparavano dalla abbondante umidità del luogo.  Come è facile immaginare all’interno delle galleria c’era il buio pressoché totale per cui all’illuminazione si provvedeva con lampade ad acetilene (molto diffuse perché all’epoca c’erano molti minatori), mancando le quali si usavano candele o, addirittura, ci si accontentava della luce del fuoco che, in genere, veniva acceso dentro le “nicchie” e serviva anche per cucinare cibi caldi. In certi casi è accaduto anche che si facesse fuoco con le “traversine” opportunamente fatte a pezzi. La resa calorica era ottima ma, essendo quel legno fortemente impregnato di catrame, ne usciva un fumo denso che anneriva tutto, compreso i visi di chi usava tale combustibile. La disponibilità di acqua non era molta perché bisognava attingerla con secchi alla fonte più vicina che spesso non era affatto vicina. Così ci si lavava alla meglio e accadeva di vedere uscire gli abitanti della galleria col viso così nero da sembrare africani.                                                                                                                   Ad aggravare la già grave situazione sopra descritta sopravvenne, dopo la interruzione del servizio  ferroviario e, soprattutto, quando il fronte di guerra si fermò nel bel mezzo della Garfagnana, la grave difficoltà di approvvigionamento di generi alimentari. Le amministrazioni locali non possedevano mezzi di trasporto e, comunque, le strade che conducevano verso la Lunigiana e verso l’Emilia erano molto pericolose sia per i bombardamenti e mitragliamenti aerei, sia per le frequenti imboscate e sparatorie fra i soldati e i partigiani. Così furono i soldati (prima gli alpini della “Monterosa” e poi i bersaglieri dell’ “Italia”) che portarono in Garfagnana anche per la popolazione un po’ di farina di grano  e del formaggio parmigiano. Che, comunque, non arrivava proprio in tutti i paesi.  I negozi, essi pure “sfollati” e sistemati precariamente nei paesini, erano aperti ma sprovvisti quasi di tutto. Anche i generi “tesserati” spesso mancavano. Bisognava, pertanto, contare quasi esclusivamente sulle produzioni locali. Fortuna volle che quel 1944 dette un raccolto di castagne veramente eccezionale. Tanto eccezionale che divenne l’alimento fondamentale che salvò dalla fame non solo i garfagnini  e gli “sfollati” non garfagnini ma anche i massesi e i carrarini che venivano a piedi attraverso i passi delle Apuane portando sulle spalle olio e sale che scambiavano, appunto, con la farina di castagne di cui così abbondantemente disponeva quell’anno la Garfagnana. Fu solo a fine aprile 1945, dopo oltre sei mesi, che il dramma si concluse e gli “sfollati” tornarono alle loro case che molti trovarono distrutte e, ancora con molti disagi, tentarono di ricominciare a vivere.

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