Marino Mersenne |
Descartes / Ricerca |
Infanzia,
finitudine e morale nell’opera di Descartes
Intorno all’infanzia, lungo
tutto il corso dell’opera cartesiana*,
si addensano significati, riflessioni, implicazioni che rinviano,
invariabilmente, al rilievo dei limiti delle possibilità umane. Essa
costituisce, senz’altro, una cifra della finitudine. L’unità di senso della
prospettiva cartesiana riguardo all’infanzia deriva dalla sua connessione
all’intenzione filosofica fondamentale del pensiero cartesiano: il tentativo
della fondazione razionale del conoscere e dell’agire umani articola un
criterio per il quale l’infanzia si caratterizza come uno stato di minorità
rispetto all’uso “adulto” delle facoltà conoscitive e pratiche. E, tuttavia,
questo nesso è anche all’origine di un percorso filosofico, apparentemente marginale,
lungo il quale l’infanzia acquisisce significati nuovi e diversi. Dal progetto
della mathesis universalis al cogito e alla distinzione
sostanziale di pensiero e estensione, fino alla identificazione dell’unità
psico-fisica dell’uomo, le opere di Descartes disegnano costellazioni
concettuali e, dunque, contesti interpretativi che declinano accezioni diverse
e plurali dell’infanzia. Il prologo e l’epilogo della vicenda semantica che
articola queste variazioni sono costituiti, per un verso, dalla considerazione
dell’infanzia come ostacolo circostanziale e virtualmente superabile alla
costruzione di un sistema di evidenze e, per l’altro, dalla sua costituzione
come categoria trascendentale dell’umano. Parallelamente, se agli esordi
dell’itinerario di pensiero cartesiano prevalgono i paradigmi biologico della
crescita e pedagogico della formazione con un rinvio pre-filosofico al ritmo
naturale dello sviluppo umano – accettato come un dato – e culturale della
riproduzione della tradizione – valutato criticamente -, nella fase più matura
si afferma il paradigma filosofico dell’interpretazione, comprensione
categoriale e costituzione dell’infanzia. A questo processo di risoluzione
filosofica dell’infanzia corrisponde l’estensione e l’approfondimento della sua
area semantica ma con un esito apparentemente paradossale: la dissoluzione
della sua specificità e diversità nella rete concettuale che articola la sua
interpretazione filosofica e che ricade nel contesto della questione del
rapporto fra pensiero ed estensione e della gestione razionale delle passioni.
Insomma, l’assunzione filosofica dell’infanzia comporta, con il rigetto della
sua accezione comune, la sua scomparsa come termine biologico-culturale
specifico.
Nelle Regole per la guida
dell’intelligenza, ove il contesto è offerto dai problemi - trattati nelle
regg. II e III – riguardanti l’esigenza di circoscrivere la conoscenza a quanto
può essere intuìto o dedotto dall’intelletto, l’infanzia, considerata come fase
“primitiva” dell’umano, esige l’intervento pedagogico e giustifica, ai fini
della formazione, l’impiego educativo anche di procedure conoscitive non
corrispondenti ai criteri dell’evidenza e della certezza, come il sillogismo
probabile:
E
tuttavia non condanniamo, con ciò, quella maniera di filosofare che gli altri
hanno fino ad ora escogitato, e le macchine di sillogismi probabili,
adattissime alla polemica, proprie degli scolastici: poiché esercitano, e stimolano
per via dell’emulazione, l’intelligenza dei fanciulli, cui è di gran lunga cosa
migliore dar forma con opinioni di tale specie, sebbene appaia che sono
incerte, dal momento che sono controverse tra gli eruditi, di quanto non sia lasciarla
libera a se medesima. Ché senza guida essa si spingerebbe forse in precipizi;
ma finché ricalca le orme dei precettori, sebbene si allontani talvolta dal
vero, tuttavia prenderà certamente un cammino, che sarà più sicuro almeno per
questo motivo e cioè che sia stato già sperimentato da uomini più assennati[1].
A prescindere dal “sapore”
autobiografico della trattazione delle Regole[2],si noterà che qui l’infanzia non è concepita,
di per se stessa, come causa di errore ma come circostanza concorrente al
radicamento e alla diffusione di errori e pregiudizi - come il probabilismo –
che trovano la loro origine nei modi di produzione e discussione del sapere
costituito. L’infanzia è vista come uno stato di radicale soggezione e
passività; è costitutiva esposizione all’errore, poiché nel suo concetto è
assente il riferimento all’io e a ciò che propriamente lo definisce – la
ragione – come all’origine di esperienze, di pensieri e parole e si affida la
conoscenza a ciò che viene da altro – la storia, il sapere costituito – e da
altri – i precettori. L’infanzia si inserisce, quindi, senza residui, nel ciclo
naturale della crescita e nei dispositivi formativi e pedagogici attraverso i
quali la cultura si riproduce. La maturità, al contrario, pur costituendo sotto
il profilo biologico un esito naturale, si annuncia come liberazione dalla
soggezione propria dell’infanzia[3] e
si realizza nel libero esercizio del proprio pensiero: la molteplicità delle
esperienze è ridotta al campo della “mia” esperienza, i pensieri al “mio”
pensiero, giacché posso usare della ragione e conoscere con evidenza tramite
l’intelletto. Il superamento degli errori radicati nell’infanzia non ha
caratteri di drammaticità: è considerato naturale come il passaggio biologico
alla maturità.
Diversamente da quanto
accade nelle Regole, nelle opere successive, l’infanzia, cessa di
apparire come semplice mezzo di riproduzione culturale e viene evocata, di per
se stessa, come causa dell’errore e del pregiudizio. Nelle Risposte alle VI
obiezioni, Descartes afferma di non aver sempre avuto una conoscenza chiara
e distinta della reale separazione fra spirito e corpo e dichiara:
la principale ragione era che, fin dalla mia
giovinezza, avevo fatto molti giudizi intorno alle cose naturali (come quelle
che dovevano contribuire alla conservazione della mia vita, nella quale proprio
allora ero entrato), e avevo sempre in appresso mantenuto le stesse opinioni,
da me altra volta formate, di quelle cose[4].
E ancora, nei Principi
della filosofia, l’enunciato del par. 71 della prima parte recita: «Che la
prima e principale causa dei nostri errori sono i pregiudizi della nostra
infanzia»[5]. La spiegazione degli errori dovuti all’infanzia
si articola poi nei termini acquisiti dalla dottrina metafisica: l’infanzia è
caratterizzata dall’incapacità di distinguere fra pensiero ed estensione.
Questa insufficienza epistemica è ricondotta al dato ontologico della
“prossimità” di anima e corpo in questa fase della vita.
Nelle Risposte alle VI
obiezioni, l’argomento è introdotto da queste considerazioni:
Quando ebbi la prima volta concluso […] che lo
spirito umano è realmente distinto dal corpo, e che è più facile a conoscersi
di esso […] mi sentii, in verità, obbligato a consentirvi […] Tuttavia confesso
che non fui per questo immediatamente persuaso[6].
Lo scarto fra convinzione e
persuasione è dovuto ai pregiudizi causati dall’infanzia che, dunque, si
caratterizza nella mancata percezione della distinzione reale di spirito e
corpo in conseguenza del prevalere di quest’ultimo e della sua stretta
connessione all’anima; ancora nelle Risposte alle VI obiezioni,
Descartes afferma:
E poiché
il mio spirito non si serviva bene, in quella tenera età, degli organi del
corpo, ed essendovi troppo attaccato non pensava nulla senza di essi, così solo
confusamente percepiva tutte le cose[7].
In maniera più netta, nei Principi,
si dichiara:
Ora,
durante i nostri primi anni, la nostra anima o il nostro pensiero era sì
fortemente offuscato dal corpo, da non conoscere nulla distintamente, benché
percepisse molte cose assai chiaramente[8].
Il fatto che, nelle opere
più tarde, l’infanzia sia posta come la causa principale del pregiudizio
capovolge, in qualche modo, la prospettiva delle Regole: non è più il
sapere tradizionale ad inculcare l’errore nell’infanzia, ma è quest’ultima a
spiegare alcuni errori della filosofia della scuola. Si tratta,
presumibilmente, di una conseguenza dell’interpretazione filosofica
dell’infanzia, ravvisabile, tra l’altro, nella sua definizione nei termini
della dottrina metafisica. Infatti, le Risposte alle VI obiezioni
chiariscono la plausibilità delle forme sostanziali, nel caso specifico della gravitas,
riferendole alla confusione di spirito e corpo, propria dell’infanzia:
Ma quel
che rende più evidente che quest’idea della pesantezza era stata ricavata in
parte da quella che avevo del mio spirito, è che credevo che la pesantezza
portasse il corpo verso il centro della terra, come se essa avesse avuto in sé
qualche conoscenza di questo centro: poiché, certamente non è possibile che ciò
accada senza conoscenza, e dovunque v’è conoscenza, è d’uopo che ci sia spirito[9].
Questa spiegazione sarà poi
ripresa nella Lettera alla principessa Elisabetta del 21 maggio 1643[10],ma in un contesto diverso, dove, in base
anche alle acquisizioni dei Principi, si riconosce, a pieno titolo, la
nozione dell’unione dell’anima col corpo, accanto a quelle che li considerano
separatamente e, fatto degno di nota, non più in diretto riferimento
all’infanzia. Questa circostanza induce a rilevare alcune differenze fra
l’interpretazione dell’infanzia offerta nelle Risposte alle VI obiezioni
e quella dei Principi. Nelle primo scritto, per chiarire gli errori
dell’infanzia, si fa genericamente appello alla confusione fra spirito e corpo
a causa della quale la mente, offuscata dal pregiudizio, non riesce a
considerare nulla di puramente spirituale senza immaginare anche qualcosa di
corporeo e viceversa[11]; nel secondo, la spiegazione del
pregiudizio fa perno sul fatto che nell’infanzia prevale, su ogni altra
considerazione, il principio “corporeo” di conservazione[12]: così a causa della sua strettissima
connessione al corpo, l’anima «…non considerava ancora se queste impressioni
fossero cagionate da cose che esistessero fuori di sé, ma solamente sentiva
dolore, quando il corpo ne era offeso, o piacere, quando ne riceveva utile» e
quando, un po’ più avanti nell’età, il corpo «…ha incontrato cose utili e ne ha
evitato di nocive», essa riflette innanzi tutto sulle cose che il corpo
perseguiva o evitava, attribuendo loro un’esistenza esterna, ma anche delle
qualità fittizie, come i colori, gli odori ecc.; infine, considerando le cose
«…se non in quanto servivano al suo [del corpo] uso», ha, ad esempio, giudicato
più o meno reale ciascun oggetto «…secondo che le impressioni che questo
produceva le sembravano più o meno forti»[13].
La rilevanza esplicativa
accordata al principio di conservazione è direttamente proporzionale alla sua
importanza per la tutela del complesso anima-corpo. Ciò orienta in senso
pratico il contesto interpretativo dell’infanzia e conduce alla considerazione
che i pregiudizi derivanti da essa non possono essere totalmente estirpati –
poiché sono causati da uno stato essenziale alla condizione umana – e che,
anche se rivelati come tali, non per questo cessano di condizionare
convinzioni, conoscenze e scelte. L’anima dell’uomo è, infatti, sempre connessa
al corpo e, per quanto la filosofia, con l’applicazione del dubbio, insegni a
distinguere la mente dal corpo, non potendosi operare nei fatti la separazione,
se non, forse, con la morte, il pensiero è sempre esposto al rischio di
“ingerenze” corporee e, dunque, al pregiudizio.
I Principi, dunque, documentano
un diverso atteggiamento di Descartes riguardo alle difficoltà connesse al superamento
dei pregiudizi dell’infanzia. Le Risposte alle VI obiezioni, infatti,
hanno ancora qualcosa del giovanile entusiasmo delle Regole e
condividono con esse un certo ottimismo circa il definitivo accantonamento dei
pregiudizi dell’infanzia. Lo testimoniano la sicurezza e, quasi, la baldanza
con cui Descartes dichiara di aver dissipato l’errore tramite le conoscenze
chiare e distinte della metafisica:
Ma dopo
che ebbi sufficientemente considerato tutto questo, ed ebbi distinto l’idea
dello spirito umano dalle idee del corpo e del movimento corporeo […] non durai
molta fatica a disfarmi di tutti i dubbi che sono qui proposti […] Ed infine
non temo più di essermi fatto sorprendere e prevenire dalla mia analisi,
quando, vedendo che vi sono dei corpi che non pensano, o, piuttosto, concependo
con piena chiarezza che certi corpi possono essere senza il pensiero, ho
preferito dire che il pensiero non appartiene alla natura del corpo, anziché
concludere che esso ne è un modo perché ne vedevo alcuni (cioè quelli degli
uomini) che pensano[14].
Nei Principi,
Descartes è più cauto; l’orientamento valutativo generale sembra essere
cambiato: il valore pratico della relazione psico-fisica derivante dalla sua
adeguatezza alla conservazione della vita si sostituisce, in certo senso, al
disvalore teoretico per il quale il corpo è soltanto “interferenza” e principio
di confusione rispetto alla conoscenza chiara e distinta. La lotta all’errore e
al pregiudizio non può essere vinta in modo definitivo; l’enunciato del par. 72
della prima parte ricorda che la seconda causa degli errori consiste nel fatto
che i pregiudizi dell’infanzia non possono essere dimenticati e ammonisce che
si può avere grande difficoltà a liberarsene anche dopo aver conosciuto le
verità dettate dalla ragione:
Questo è
talmente vero che, poiché, sin dalla nostra infanzia, abbiamo immaginato, per esempio,
che le stelle erano piccolissime, non sapremmo disfarci ancora di questo
pregiudizio, benché conosciamo dalle ragioni dell’astronomia che sono
grandissime, tanto potere ha su di noi un’opinione già ammessa[15].
L’atteggiamento di pensiero
riguardo all’origine dei pregiudizi dell’infanzia e alle difficoltà di
emancipazione da essi, emerso nei Principi, è indice di una maggiore
attenzione verso la problematica specifica suscitata dalla nozione dell’unione
dell’anima col corpo. E’ per questa via che i Principi preparano i temi
che occuperanno gli ultimi scritti di Descartes.
Nelle Passioni, dopo
che è stata operata la distinzione delle funzioni del corpo e dell’anima, si fa
ricorso, al fine di spiegare le relazioni psicofisiche, alla nozione
dell’unione dell’anima col corpo e, stavolta, senza alcun riferimento
all’infanzia, segnata dal pregiudizio e dall’errore. Ciò che costituiva
l’elemento essenziale della definizione filosofica dell’infanzia – l’unità
psico-fisica – si rende autonomo fino a costituire un oggetto specifico di
interesse teorico. L’unione dell’anima col corpo non produce più
“offuscamento”, ma funge da principio esplicativo di tutti quegli eventi che
implicano interazione psicofisica:
Per
intendere più compiutamente tutte queste cose, bisogna tuttavia sapere che
l’anima è veramente congiunta a tutto il corpo, e che non si può dire in senso
proprio che essa sia in qualcuna delle sue parti piuttosto che in altre, perché
il corpo è uno e, in qualche modo, indivisibile, per via della disposizione dei
suoi organi, talmente collegati gli uni agli altri che la perdita di uno di
essi rende difettoso tutto il corpo[16].
Non si possono non rilevare
le difficoltà implicite in queste considerazioni qualora le si commisuri alle
acquisizioni della metafisica. Per poter pensare un principio di omogeneità fra
le due sostanze, un principio che renda pensabile la nozione della loro unione,
Descartes è costretto ad interpretare la funzionalità organica delle diverse
parti del corpo come una sorta di unità ed indivisibilità. Solo che questi
caratteri appartengono propriamente ed esclusivamente all’anima, sicché diviene
di nuovo impensabile come essa possa inerire al corpo. Né la difficoltà viene risolta
supponendo che vi sia un punto del corpo – la ghiandola pineale – in cui
«…l’anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle altre
parti»[17] poiché ciò significherebbe, in qualche
modo, contravvenire alla “impossibilità” – posta nell’art. 30 – «di concepire
la metà o il terzo dell’anima, o il posto che essa occupa»[18].
Al di là delle
contraddizioni cui Descartes va incontro, è notevole il tentativo di rendere
ragione di un campo “conoscitivo” costitutivamente oscuro. Ciò che fin dalle Meditazioni
era associato al pregiudizio viene ora assunto come oggetto del discorso
razionale al fine di spiegare non il generarsi degli errori ma il complesso dei
fenomeni – le passioni – connessi all’interazione psicofisica. La stretta
connessione di anima e corpo che caratterizzava l’infanzia e i suoi pregiudizi,
assume un valore più generale poiché riguarda l’uomo considerato anche nella
sua maturità, impegnato nell’uso quotidiano della vita e rinvia al discorso
morale del dominio sulle passioni: il suo uso teorico non è più circoscritto
all’interpretazione dell’infanzia ma è liberato alla comprensione dei limiti e
delle condizioni cui sono soggetti l’agire e il conoscere umani. La
congiunzione dell’anima col corpo non è soltanto il principio di errori e pregiudizi
che devono essere trascesi e superati nell’evidenza della conoscenza
metafisica, ma è dichiarata indispensabile per comprendere ciò che caratterizza
l’uomo nella sua totalità e non soltanto in quanto impegnato conoscitivamente.
Inoltre, essa costituisce il fondamento di un discorso morale che, riferendosi
all’effettiva “condizione umana” e a quelle ragioni, legate all’interazione
dell’anima col corpo, che impediscono «…all’anima di disporre completamente
delle sue passioni»[19], non sia mera ingiunzione in base a
principi razionali.
E’ questo il contesto
teorico che articola il riconoscimento di una terza nozione accanto a quelle
del pensiero e dell’estensione, riconoscimento che, lo si è visto, rende
problematica la netta divisione della realtà in due regni ontologici distinti e
separati[20]: l’unione sostanziale dell’anima col
corpo. Quest’ultima, d’altro canto, non viene impiegata nella delimitazione
dell’area semantica dell’infanzia, ma nella definizione di una proprietà
trascendentale dell’umano; così, in un altro contesto, Descartes potrà
affermare:
Ma vi
sono due specie di piaceri: gli uni appartengono solo allo spirito, mentre gli
altri appartengono all’uomo, e cioè allo spirito in quanto unito col corpo[21].
Ed è a quest’uomo che si
volge la morale delle Passioni e delle Lettere ad Elisabetta;
certo, Descartes non manca di rilevare il disvalore dei piaceri del corpo e
delle illusorie indicazioni delle passioni, ma rileva anche la loro necessità
ed utilità:
Con tutto
questo io non credo affatto che si debbano disprezzare interamente, e neppure
che si debba fare in modo da non aver passioni; basta renderle soggette alla
ragione, e così addomesticate esse sono talora tanto più utili quanto più
grandi esse sono[22].
Del resto, Descartes manifesta espressamente la sua
avversione per il rigorismo della morale stoica:
Egli
[Zenone] tuttavia ha rappresentato questa virtù così severa e così nemica del
piacere, considerando tutti i vizi uguali tra loro, che, a mio parere, solo dei
melanconici, o degli spiriti interamente staccati dal corpo hanno potuto essere
suoi seguaci[23].
Malgrado Descartes stesso, in quest’ultima considerazione,
non c’è solo ironia verso gli stoici la cui dottrina morale ha convinto,
probabilmente, più i folli che gli angeli. C’è ironia anche verso quella
dottrina metafisica che ha stabilito la reale e radicale distinzione di
pensiero ed estensione e che, salvo identificare l’uomo con quest’ultima, avrebbe
richiesto una morale “angelica”. C’è ironia verso quel pensiero che, dopo
essersi dedicato, secondo i principi della chiarezza e della distinzione, al
reperimento dei fondamenti assoluti della realtà, contravvenendo ai rigori
della propria coerenza, non ha potuto ricavare una teoria etica altrettanto
assoluta e che, per volgersi alla concretezza della vita pratica, ha dovuto, in
certo senso, arrestarsi di fronte alla datità del condizionato, capovolgere la
prospettiva metafisica e incominciare a riflettere sulla finitudine dell’uomo
per indicargli la via non del Bene ma del meglio:
E neppure
è che la nostra ragione sia sempre nel vero; basta che la coscienza ci attesti
che noi non abbiamo mancato di risoluzione e di virtù nell’eseguire quanto
avevamo giudicato essere il meglio; e così la virtù sola non basta a renderci
felici in questa vita[24].
In conclusione, si può
affermare che, fin quando Descartes è impegnato a stabilire i principi della
conoscenza vera e della metafisica, deve porre “i seri proponimenti” della
ricerca filosofica nel compito del superamento dell’infanzia, caratterizzata
dall’eccessiva “prossimità” dell’anima al corpo. In ciò, vi è una certa
continuità dalle Regole ai Principi. Per ben filosofare, si
tratta sempre di acquisire l’uso completo della ragione, di cancellare gli
errori e i pregiudizi dell’infanzia; o, meglio, si tratta di liberarsi
dall’offuscamento dovuto all’eccessivo attaccamento dell’anima al corpo e, per
dirla con le Meditazioni, di abducere mentem a sensibus.
Tuttavia, c’è, nel corso
dell’opera cartesiana, un graduale cambiamento di atteggiamento nei confronti
dell’infanzia e di ciò che, propriamente, la caratterizza, ossia, dell’unione
dell’anima col corpo. Se le Meditazioni, al riguardo, sono ancora molto
vicine allo spirito che anima le Regole, i Principi,
interpretando il primato infantile della corporeità in funzione della
conservazione della vita, cominciano a definire l’unità psico-fisica come un
carattere non più dell’infanzia ma dell’«umanità» in genere. Accade così che,
per quanto l’umanità venga acquisita con l’uso corretto e completo della
ragione, gli errori dell’infanzia sono dichiarati difficilmente superabili, in
quanto la loro causa non è tolta ma soltanto limitata nella sua azione e nei
suoi effetti. L’unione dell’anima col corpo, dopo i risultati conseguiti
tramite l’applicazione dubbio, non può e non deve interferire con la
riflessione metafisica. E tuttavia, la persistenza della causa del pregiudizio
– che fa sì che si possa sbagliare anche dopo aver acquisito le verità della
ragione – avvicina, di nuovo, l’uomo alla sua infanzia. Si prepara, in tal
modo, la considerazione autonoma dei problemi legati all’unione dell’anima col
corpo: oltre la teoria della conoscenza e dell’essere, oltre il contesto della
verità, l’opacità e la resistenza della corporeità si avviano a specificare il
problema etico e della effettualità del bene. Nei suoi ultimi scritti,
Descartes tratta delle questioni morali e delle passioni; in esse si rivela il
nesso drammatico che lega il dinamismo dello spirito alla passività della
“macchina” corporea, alle limitazioni della relazione mondana e si impone
l’esigenza che il pensiero si volga all’uomo considerato nella sua totalità e
cioè, come spirito unito ad un corpo. Questa circostanza chiarisce l’avversione
cartesiana per il rigorismo della morale stoica: il mancato riconoscimento del
negativo – corpo, limite, necessità – rende nulla l’affermazione unilaterale
dell’assoluto morale – la ragione – circoscrivendo l’ambito della libertà
all’interiorità e, dunque, condannandola all’inefficacia. La natura si sottrae
all’azione umana mentre l’uomo è reso straniero al suo mondo. Al contrario, nella riflessione
cartesiana, l’unità psico-fisica viene liberata dal disvalore derivatole dalla
sua inclusione in un ambito puramente teoretico: non più giudicata in base al
criterio della conoscenza chiara e distinta e poi accantonata come caratteristica
fondamentale di una fase «primitiva» della vita, come causa del pregiudizio e
dell’errore, essa è assunta a delimitare un ambito di fenomeni la cui
comprensione è essenziale alla vita pratica e morale dell’uomo. Nella
trattazione delle passioni, la congiunzione dell’anima al corpo non è
considerata come causa dell’offuscamento dello spirito, ma come un dato
necessario ed imprescindibile della condizione umana. Le passioni non possono
essere tolte e superate, così come si pretendeva con i pregiudizi dell’infanzia,
ma vanno conosciute nei loro “meccanismi”, per poterle dominare. Per questa
via, l’unione di spirito e corpo, e cioè, l’uomo considerato come libertà e
necessità, attività e passività e il cui agire è sempre sospeso alla fragilità
dell’aspirazione e alla fatica dello sforzo, quest’uomo, è il promotore e il
destinatario della riflessione morale.
Con ciò, sembra che
l’infanzia sia completamente scomparsa dall’orizzonte di pensiero dell’ultimo Descartes
che, dunque, avrebbe cessato di preoccuparsene, una volta smascherati i suoi
errori e avrebbe volto la sua attenzione esclusivamente a ciò che riguarda
l’uomo nella sua maturità e nel pieno delle sue facoltà. E, in un certo senso,
questa è la verità. Ma va anche considerato che l’uomo, com’è tratteggiato
nelle Passioni e nelle Lettere sulla morale, non è il puro
spirito che le verità metafisiche esigono, non è quel pensiero che si è negato
al commercio immediato col mondo e alla propria sensibilità, non è un’anima
realmente distinta dall’estensione. Al contrario, è un uomo che non può
dimenticare la propria infanzia, perché con essa condivide la “prevaricazione”
della corporeità, è un uomo impegnato praticamente, che non può cancellare i
limiti della relazione mondana e che, dunque, non può non mettere nel conto
delle sue azioni l’errore, che non può sperare, operando, che di fare il meglio
e non il bene. In breve, l’ultima riflessione di Descartes restituisce l’uomo
alla sua infanzia e se quest’ultima sembra dileguare nei trattati morali, ciò
accade perché essa si è estesa fino a caratterizzare totalmente la condizione
umana.
* Tutte le citazioni dalle opere di Cartesio si
riferiscono all’edizione italiana degli scritti filosofici: Cartesio, Opere
filosofiche, 4 v., Roma - Bari 1986.
[1] Cartesio, Opere filosofiche, v. I,
p. 20.
[2] Ibidem.: “E noi stessi siamo lieti di essere stati anche noi un tempo
educati così nelle scuole…”.
[3] Ibidem: “…ma poiché siamo sciolti
ormai da quell’obbligo che ci legava alle parole del maestro, e finalmente per
l’età alquanto matura abbiamo sottratto al mano alla ferula…”.
[4] Cartesio, Opere filosofiche, v.
II, p. 406.
[5] Cartesio, Opere filosofiche, v. III,
p. 61.
[6] Cartesio, Opere filosofiche, v.
II, p. 405.
[7] Ibidem.
[8] Cartesio, Opere filosofiche, v.
III, p. 45.
[9] Cartesio, Opere filosofiche, v.
II, p. 407.
[10]Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, p. 128.
[11]Cartesio, Opere filosofiche, v.
II, p. 406.
[12] A dire il vero, anche nelle Risposte
alle VI obiezioni, si menziona, al riguardo, il principio di conservazione
come si può costatare dalla citazione della n. 4; ma in questa opera, esso non
riceve svolgimento teorico.
[13] Cartesio, Opere filosofiche, v.
III, pp. 61-62.
[14] Cartesio, Opere filosofiche, v.
II, pp. 408-409.
[15] Cartesio, Opere filosofiche, v.
III, p. 62.
[16] Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, pp. 21-22.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, p. 30.
[20] Cartesio, Opere filosofiche, v. IV,
Lettera a Elisabetta del 21 maggio 1643, p. 127.
[21] Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, Lettera a Elisabetta del 1º settembre 1645, pp. 158.
[22] Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, Lettera a Elisabetta del 1º settembre 1645, pp. 159-160.
[23] Cartesio, Opere filosofiche, v.
IV, Lettera a Elisabetta del 18 agosto 1645, p. 154.