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IBERNAUTI - 2004 vetroresina, bende gessate, acrilico, lampade di Wood, suono - h cm 230 (ciascun elemento) |
Ibernauti |
a cura di Patrizia Landi "puntoarte" L.A.B.A. - Firenze |
Andrea Marini ama definirsi "costruttore", le sue opere si sviluppano nella terza dimensione, s'inseriscono nell'ambiente circostante e lo modificano. La sua poetica da sempre si basa sul rapporto Natura e Artificio: egli crea "esseri" dalle sembianze attualmente paradossali e inconcepibili, ma che in un futuro non poi così lontano, potrebbero nascere, crescere, svilupparsi, secondo regole biologiche.
Ibernauti è un curioso neologismo, coniato dall'artista stesso, che dà il titolo alla mostra e all'installazione appositamente ideata per lo spazio espositivo all'interno della Libera Accademia di Belle Arti di Firenze: una sorta di environment che ci trasporta in una dimensione altra.
Conoscevamo gli argonauti, gli astronauti, i cosmonauti e quant'altro, ma di navigatori dello spazio conservati a bassissime temperature non avevamo ancora sentito parlare. Chi sono? Da dove vengono? Dove vanno? Sono esseri unicellulari, plurisensoriali (maschio o femmina?), tridimensionali e bidimensionali al tempo stesso; vivono di luce riflessa ma poi emettono radiazioni e vibrazioni proprie, sono presenze che sfumano in assenze; sono docili e fragili, sono malleabili: fluorescenze, escrescenze, protuberanze ..... hanno arti-tentacolo, volti-proboscide, sono tutta-mente, sono esseri superiori. Sono scultorei e pittorici, reali e virtuali, elettromagnetici, robotici, cibernetici, transgenici. Sono avvolti in garze di mistero, simboleggiano l'incertezza del nostro futuro. Affondano le radici in un immaginario collettivo ai confini della realtà, in bilico tra scienza, horror e fantascienza: Alien, E.T., The elephant man, 2001: Odissea nello Spazio. Vivono all'interno di un ambiente indefinito e indefinibile, circondato da impulsi elettrici, suoni ed ultrasuoni, sono immersi nelle note della notte "sanza tempo tinta".
Rappresentano tutto quello che non siamo e che vorremmo essere, sono la nostra storia, la nostra memoria, sono il chip, sono il bip, il bit, il battito animale, la nostra evoluzione e la nostra involuzione. Sono la soluzione? Future generation: il verbo essere di una coniugazione incerta.
Sono il sogno di Icaro, il mito di Ulisse, ordinate e ascisse, la chiaroveggenza, la volontà di potenza, l'ubiquità e l'immortalità. Sono le lancette senza le ore, il nostro organo riproduttore, la storia infinita, la stella cometa, la speranza di vita su un altro pianeta.
O forse sono solo una scheggia impazzita, un lapsus, un cortocircuito della nostra mente. Chissà .... ai posteri l'hardware sentenza.
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Ibernauti è un neologismo ideato per attribuire un nome ai protagonisti dell'ultima invenzione di Andrea Marini. Sono tre forme di vita, cefalopodi mutanti, extraterrestri tentacolari, che fluttuano appena staccati dalla parete in una stanza quasi completamente buia. Sono viaggiatori, che provengono da lontananze siderali - o dal più vicino laboratorio scientifico - nauti, appunto, naviganti. E si spostano in una navicella immaginaria, che per conservarli ha ridotto al minimo le loro funzioni vitali, li ha ibernati.
Lampade wood illuminano la superficie scabrosa, impregnata di un liquido fosforescente, mentre risuona il basso continuo di una distorsione sonora composta con la rielaborazione di un mandala tibetano e il ticchettio ferroso di un macchinario in movimento.
Il repertorio della fantascienza c'è tutto, quello letterario, quello iconico e quello cinematografico; da Lovecraft a Ridley Scott, dall'Abisso di Maracot alle mostruose macchine di Matrix, senza trascurare le atmosfere indimenticabili di 2001 Odissea nello Spazio. Ma nelle intenzioni, e negli esiti, la citazione dell'immaginario fantascientifico è solo uno degli ingredienti, un elemento che rispetto all'operazione concettuale ha la dimensione di un contesto scenografico.
Patrizia Landi, nella presentazione della mostra, esordisce con una dichiarazione dell'artista che ama definirsi "costruttore". Andrea Marini, infatti, con Ibernauti dà seguito ad un'inclinazione già manifestata altrove, un'attenzione per la forma - e le forme - che si connota di una certa vocazione demiurgica. L'artista è creatore di identità mutanti, transgeniche si potrebbe dire; operazioni che da un lato si allineano con l'instabilità del tempo corrente (quello delle nuove frontiere della scienza, dell'etica, di possibilità sempre meno remote sull'esistenza di altri mondi), e parallelamente rimandano alla figura ancestrale di un creatore, costruttore appunto, architetto dell'universo.
Le sculture è necessario chiamarle così, perché alla base c'è una raffinata consapevolezza del senso plastico dell'opera - suscitano orrore o un sentimento di solidarietà, secondo quanto maturi nello spettatore la coscienza della prossimità tra il loro mondo e il nostro.
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Ibernauti, alchemistiche presenze in nero.
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