SINERGIA UOMO – NATURA
Seguendo in maniera acritica quanto i mezzi di comunicazione ci
propongono in tema di aggressione verso la natura sembrerebbe che tutte le
colpe debbano ricadere sull'uomo di oggi, padrone delle più sofisticate
tecnologie, mentre resta sottintesa una rassicurante immagine di un
tranquillo uomo primitivo, in sintonia con l'ambiente naturale e rispettoso
dei suoi equilibri. In realtà il mito del buon selvaggio deve essere del
tutto superato se si vuole veramente capire l'evoluzione dell'ambiente
messa in relazione ai fenomeni antropici.
Riferendoci all'uomo vissuto nelle ere documentate storicamente
è molto facile, osservando quanto resta delle sue spettacolari
realizzazioni, rendersi conto di quanto grande sia stata la sua ambizione
dì mutare il corso degli eventi naturali e di quali pesanti modifiche
avrebbe ulteriormente portato se avesse avuto a disposizione i mezzi
odierni. Non per niente ai nostri megaprogetti attribuiamo ancora
l'aggettivo di "faraonici". Riflettendoci un po' appare chiaro
che proprio quella tecnologia che tanti pericoli fa correre oggi al
pianeta, sfruttata intelligentemente ci può invece aiutare a risolvere i
problemi ambientali emergenti. Mi è particolarmente gradito sfiorare questo
argomento poiché voglio assolutamente sgombrare il campo dall'equivoco che
vuole i naturalisti contrari ad ogni forma di progresso. Questo non è quasi
mai vero, e in ogni caso personalmente appartengo alla schiera dì quanti
credono inarrestabile e positivo lo sviluppo delle conoscenze scientifiche,
prerogativa più qualificante della specie-uomo, fermo restando il dovere di
vigilare sull'uso che le conoscenze comportano nel campo applicativo.
Ma torniamo al "buon selvaggio", proiettandoci ad
alcune decine di migliaia di anni or sono, all'incontro con l'Homo
sapiens, cioè la neo-affermata specie di cui siamo diretti discendenti.
Lungi dall'usare riguardi verso l'ambiente - non ne aveva d'altra parte
alcun motivo - egli, forte di un cervello capace di più sofisticate
elaborazioni, ha probabilmente provocato la fine della razza neanderthaliana, fors'anche
macchiandosi con episodi di cannibalismo e non è stato certamente estraneo
alla estinzione di gran parte della megafauna quaternaria, tra cui mammut,
rinoceronti lanosi, e orsi delle caverne, tanto per citare esempi molto
noti. Organizzato in squadre di caccia ben assortite egli ha imparato ad
usare in forme sempre pìù efficaci armi e
utensili. Poco importa che si trattasse di elementari selci lavorate, la
differenza qualitativa con gli altri animali è presto apparsa molto
significativa.
Abbiamo prove che per catturare i grandi erbivori spingeva
talvolta le mandrie verso profondi burroni causando ecatombi
spaventose. A quel tempo si è instaurata anche una alleanza tra i due
predatori più efficienti del paleartico, uomo e
lupo. Se il secondo cominciò probabilmente a seguire le tribù per cibarsi
di quanto restava delle battute di caccia, l'uomo può averne sfruttato le
eccezionali capacità olfattive e imitato le efficaci strategie venatorie,
mentre avvicinava e domesticava nel contempo gli
esemplari più docili ed etologicamente preadattati a evolversi nelle razze canine che oggi
tanto amiamo.
Forse non appare molto fascinoso questo approccio, ma credo
proprio che le svolte fondamentali dell'evoluzione sociale e scientifica
debbano ascriversi a originari atteggiamenti utilitaristici.
Quando da cacciatore-raccoglitore l'uomo scoprì i vantaggi
dell'agricoltura, la sua influenza sull'ambiente divenne ancora più
significativa. Molti altri animali vennero domesticati
e subirono variazioni morfologiche e comportamentali indotte dalle
selezioni più o meno inconsciamente operate. I terreni più favorevoli
furono sgomberati dal bosco e sfruttati per le prime coltivazioni. Alcune
piante, soprattutto graminacee, che presentavano semi ben conservabili,
vennero coltivate e videro accelerato a dismisura il processo evolutivo con
selezioni mirate alla produzione. Il grano e il mais come oggi li vediamo
non esistono in natura, ma derivano da minuscole pianticelle che hanno
attraversato migliaia di anni di selezione artificiale.
Il processo subisce una notevole accelerazione quando si entra
nella storia con le grandi civiltà di cui ci sono pervenute probanti
documentazioni.
Venendo all'Alto Tevere, le testimonianze del passato ci
portano sulle tracce di una misteriosa civiltà appenninica che ha sfruttato
probabilmente le più salubri valli laterali che non i paludosi residui del
Lago Tiberino. Resti di palafitte sono tuttavia affiorati in scavi condotti
a Città di Castello. I resti di industria litica
reperiti presso Antirata sembrano però più significativi nell'indicare nei
rilievi appenninici i luoghi preferenziali per i più primitivi
insediamenti.
Poco sappiamo sugli Etruschi, ma se è vero che tagliando la
soglia di Torgiano hanno reso possibile il
prosciugamento di quanto rimaneva della parte meridionale del Lago
Tiberino, si può pensare che qualcosa di simile possono aver fatto anche in
Alto Tevere. Sembra poco prababile però che si
siano spinti molto al di là della riva sinistra del fiume, dove viveva la popolazione
degli Umbri.
Con l'occupazione romana inizia lo sfruttamento agricolo
sistematico delle zone pianeggianti dell'Alto Tevere e il disboscamento
delle montagne, soprattutto mirato alle abetaie, in virtù di un asse
fluviale che rendeva possibili e agevoli i trasporti verso la capitale. Si
spiegherebbe così la totale scomparsa dell'abete bianco, tanto ampiamente
rappresentato nel vicino Casentino. È anche probabile che a quei tempi
siano stati rettificati i meandri più viziosi per bonificare terreni e
rendere più breve il tragitto e più rapida la corrente.
Con il decadimento sociale e il crollo demografico medievale la
natura ha potuto riconquistare molti spazi e il casuale corso degli eventi
deve aver ridisegnato molti paesaggi.
Con l'avvento del secondo millennio dell'era cristiana riprende
il progresso sociale e a crescere la popolazione, fenomeno che trova la sua
massima espressione nel rinascimento. Braccio Fortebraccio
da Montone ordina la canalizzazione della paludosa Chiana, già tributaria
del Trasimeno e quindi del Tevere, drenando tutta la pianura verso l'Arno.
In meno di cinquant'anni si assiste
all'inversione della corrente di un fiume con tutto quel che ne consegue in
termini di evoluzione geomorfologica. In Alto
Tevere non si ha notizia di sconvolgimenti tanto spettacolari, tuttavia
progetti di deviazioni del fiume per scongiurare le rovinose piene
ricorrono nelle cronache di quei secoli, e tanto per citare un piccolo
esempio, il torrente Scatorbia che bagnava il
lato Nord di Città di Castello viene deviato sull'attuale alveo che
lambisce lo spigolo meridionale della città.
Due secoli fa il Tevere, scorreva ancora sotto le mura
occidentali di Città di Castello, venne rettificato e accostato alla
collina della Montesca.
Verso la fine del secolo scorso i nostri rilievi furono ridotti
a nudi e spettrali calanchi privi di copertura arborea. Le cause vanno
ricercate soprattutto nella grande pressione demografica che insisteva nei
territori collinari e montani con relativa grande necessità di aree coltivabili
e di legna da ardere, ma anche nel massiccio prelievo di legname che venne
fatto per ricavarne traversine ferroviarie dopo che i versanti marchigiani
erano stati spogliati dì roveri destinate alla
marina britannica.
Le marne, notoriamente impermeabili, private dell'orizzonte
vegetale non sono capaci di trattenere acqua piovana e di opporsi
all'asportazione dei suoli. Non fu certo casuale il verificarsi proprio in
quegli anni di spaventose inondazioni. La più catastrofica, ricordata da
lapidi indicatrici di livello raggiunto dalle acque nel centro storico di
Città di Castello, avvenne nel 1896 e causò ingenti danni in tutto l'Alto
Tevere.
Una svolta significativa si è avuta indubbiamente negli anni
sessanta di questo eccezionale XX secolo, quando l'industrializzazione e
l'inseguimento di nuovi modelli di vita portarono all'inurbamento di grandi
masse di agricoltori con relativo abbandono della montagna. La pianura
mutava volto per la massiccia antropizzazione e l'evolversi dei metodi di
produzione agricola, mentre la montagna poteva di nuovo coprirsi di boschi,
in massima parte per azione naturale, in virtù dei sistemi di riscaldamento
che hanno abbandonato la legna per i combustibili fossili, ma anche per
merito dell'opera del Corpo Forestale dello Stato e, successivamente, della
Comunità Montana Alto Tevere Umbro.
Quanto detto non ha pretesa di ricostruzione storica, ben altra
dimensione e ben altro livello di approfondimento dovrebbe assumere un
simile intento. Queste estreme schematizzazioni tendono a sottolineare
quanto stretti siano i legami tra intervento dell'uomo ed evoluzione
naturalistica del territorio, e quanto lontano nel tempo si spingano i
confini di questa azione. Acquisire questa ottica consente di meglio
giudicare i processi in atto e di assumere atteggiamenti più corretti in
materia di conservazione, salvaguardia e ripristino.
Oggi non ci si può improvvisare naturalisti. Per capire
l'ambiente occorre prendere atto delle complesse dinamiche che ne
condizionano il divenire, prestare la massima attenzione al manifestarsi
degli equilibri naturali mantenendo la mente tesa da una parte a
ricostruire l'evoluzione e dall'altra a prevederne il futuro. Questo è
materia dell'ecologia, che significa <<studio della casa>>.
Fare ecologia significa proprio capire i meccanismi che sottostanno
all'equilibrio dell'ambiente in cui viviamo e agire di conseguenza, e non
soltanto eseguire operazioni di pulizia, come sembra scaturire dalla
riduttiva interpretazione che oggi viene spesso fatta del termine.
In una apoteosi di condizionamenti dell'ambiente naturale ai
nostri capricci è stata costruita una colossale diga all'altezza di Montedoglio. Il lago che ne conseguirà raccoglierà
circa 150 milioni di metri cubi d'acqua e sarà lungo molti chilometri.
Esistono già progetti per villaggi turistici lungo le sue rive. Esso
modellerà pesantemente il paesaggio e condizionerà il clima della valle. I
3/4 delle acque dell'invaso affluiranno verso la VaI di Chiana tramite
lunghissime gallerie scavate sotto le colline anghiaresi.
Inevitabilmente il mutato regime idrico influenzerà il livello freatico
della valle e le fenomenologie sedimentologiche
del fiume, con conseguenze a livello idrogeologico non certo trascurabili e
che vanno a sommarsi al tremendo impatto ambientale già recato dalle opere
di regimazione idraulica come briglie, sagomatura
di argini e l'escavazione di inerti dal letto stesso del fiume.
La Regione Umbria ha intanto commissionato un progetto di diga
sul torrente Carpina, a monte della chiusa già
esistente in località Tre Ponti, sotto Montone. Ne risulterebbe un enorme
invaso capace di alcune decine di milioni di metri cubi d'acqua che,
nell'intenzione dei committenti, dovrebbero colmare il gap idrico
tra la diga di Montedoglio e l'altro
colossale lago artificiale sul Chiascio,
nell'eugubino.
Non è questa la sede per trattare la liceità di tali
realizzazioni che, giova ricordarlo, avvengono per giunta in località a
forte rischio sismico, qui mi preme sottolinearne l'entità per agganciarmi
alla tesi di questo paragrafo: la sinergia uomo-natura. In Alto Tevere
questa azione combinata ha sinora prodotto una fusione, solo apparentemente
contraddittoria, tra aspetti legati ad un assoggettamento completo del
bene-natura alle necessità del processo produttivo, e paradisiaci aspetti
di recuperata naturalità nei contesti collinari e montani.
Sottovalutare l'importanza di questo binomio significherebbe
sottrarci alle nostre responsabilità.
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