di giorgio marinelli

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Ultimo aggiornamento: 31-12-06.

 

 

 

 

 

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n.

 

 

 

 

 

SINERGIA UOMO – NATURA

 

Seguendo in maniera acritica quanto i mezzi di comunicazione ci propongono in tema di aggressione verso la natura sembrerebbe che tutte le colpe debbano ricadere sull'uomo di oggi, padrone delle più sofisticate tecnologie, mentre resta sottintesa una rassicurante immagine di un tranquillo uomo primitivo, in sintonia con l'ambiente naturale e rispettoso dei suoi equilibri. In realtà il mito del buon selvaggio deve essere del tutto superato se si vuole veramente capire l'evoluzione dell'ambiente messa in relazione ai fenomeni antropici.

Riferendoci all'uomo vissuto nelle ere documentate storicamente è molto facile, osservando quanto resta delle sue spettacolari realizzazioni, rendersi conto di quanto grande sia stata la sua ambizione dì mutare il corso degli eventi naturali e di quali pesanti modifiche avrebbe ulteriormente portato se avesse avuto a disposizione i mezzi odierni. Non per niente ai nostri megaprogetti attribuiamo ancora l'aggettivo di "faraonici". Riflettendoci un po' appare chiaro che proprio quella tecnologia che tanti pericoli fa correre oggi al pianeta, sfruttata intelligentemente ci può invece aiutare a risolvere i problemi ambientali emergenti. Mi è particolarmente gradito sfiorare questo argomento poiché voglio assolutamente sgombrare il campo dall'equivoco che vuole i naturalisti contrari ad ogni forma di progresso. Questo non è quasi mai vero, e in ogni caso personalmente appartengo alla schiera dì quanti credono inarrestabile e positivo lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, prerogativa più qualificante della specie-uomo, fermo restando il dovere di vigilare sull'uso che le conoscenze comportano nel campo applicativo.

Ma torniamo al "buon selvaggio", proiettandoci ad alcune decine di migliaia di anni or sono, all'incontro con l'Homo sapiens, cioè la neo-affermata specie di cui siamo diretti discendenti. Lungi dall'usare riguardi verso l'ambiente - non ne aveva d'altra parte alcun motivo - egli, forte di un cervello capace di più sofisticate elaborazioni, ha probabilmente provocato la fine della razza neanderthaliana, fors'anche macchiandosi con episodi di cannibalismo e non è stato certamente estraneo alla estinzione di gran parte della megafauna quaternaria, tra cui mammut, rinoceronti lanosi, e orsi delle caverne, tanto per citare esempi molto noti. Organizzato in squadre di caccia ben assortite egli ha imparato ad usare in forme sempre pìù efficaci armi e utensili. Poco importa che si trattasse di elementari selci lavorate, la differenza qualitativa con gli altri animali è presto apparsa molto significativa.

Abbiamo prove che per catturare i grandi erbivori spingeva talvolta le mandrie verso profondi burroni causando ecatombi spaventose. A quel tempo si è instaurata anche una alleanza tra i due predatori più efficienti del paleartico, uomo e lupo. Se il secondo cominciò probabilmente a seguire le tribù per cibarsi di quanto restava delle battute di caccia, l'uomo può averne sfruttato le eccezionali capacità olfattive e imitato le efficaci strategie venatorie, mentre avvicinava e domesticava nel contempo gli esemplari più docili ed etologicamente preadattati a evolversi nelle razze canine che oggi tanto amiamo.

Forse non appare molto fascinoso questo approccio, ma credo proprio che le svolte fondamentali dell'evoluzione sociale e scientifica debbano ascriversi a originari atteggiamenti utilitaristici.

Quando da cacciatore-raccoglitore l'uomo scoprì i vantaggi dell'agricoltura, la sua influenza sull'ambiente divenne ancora più significativa. Molti altri animali vennero domesticati e subirono variazioni morfologiche e comportamentali indotte dalle selezioni più o meno inconsciamente operate. I terreni più favorevoli furono sgomberati dal bosco e sfruttati per le prime coltivazioni. Alcune piante, soprattutto graminacee, che presentavano semi ben conservabili, vennero coltivate e videro accelerato a dismisura il processo evolutivo con selezioni mirate alla produzione. Il grano e il mais come oggi li vediamo non esistono in natura, ma derivano da minuscole pianticelle che hanno attraversato migliaia di anni di selezione artificiale.

Il processo subisce una notevole accelerazione quando si entra nella storia con le grandi civiltà di cui ci sono pervenute probanti documentazioni.

Venendo all'Alto Tevere, le testimonianze del passato ci portano sulle tracce di una misteriosa civiltà appenninica che ha sfruttato probabilmente le più salubri valli laterali che non i paludosi residui del Lago Tiberino. Resti di palafitte sono tuttavia affiorati in scavi condotti a Città di Castello. I resti di industria litica reperiti presso Antirata sembrano però più significativi nell'indicare nei rilievi appenninici i luoghi preferenziali per i più primitivi insediamenti.

Poco sappiamo sugli Etruschi, ma se è vero che tagliando la soglia di Torgiano hanno reso possibile il prosciugamento di quanto rimaneva della parte meridionale del Lago Tiberino, si può pensare che qualcosa di simile possono aver fatto anche in Alto Tevere. Sembra poco prababile però che si siano spinti molto al di là della riva sinistra del fiume, dove viveva la popolazione degli Umbri.

Con l'occupazione romana inizia lo sfruttamento agricolo sistematico delle zone pianeggianti dell'Alto Tevere e il disboscamento delle montagne, soprattutto mirato alle abetaie, in virtù di un asse fluviale che rendeva possibili e agevoli i trasporti verso la capitale. Si spiegherebbe così la totale scomparsa dell'abete bianco, tanto ampiamente rappresentato nel vicino Casentino. È anche probabile che a quei tempi siano stati rettificati i meandri più viziosi per bonificare terreni e rendere più breve il tragitto e più rapida la corrente.

Con il decadimento sociale e il crollo demografico medievale la natura ha potuto riconquistare molti spazi e il casuale corso degli eventi deve aver ridisegnato molti paesaggi.

Con l'avvento del secondo millennio dell'era cristiana riprende il progresso sociale e a crescere la popolazione, fenomeno che trova la sua massima espressione nel rinascimento. Braccio Fortebraccio da Montone ordina la canalizzazione della paludosa Chiana, già tributaria del Trasimeno e quindi del Tevere, drenando tutta la pianura verso l'Arno. In meno di cinquant'anni si assiste all'inversione della corrente di un fiume con tutto quel che ne consegue in termini di evoluzione geomorfologica. In Alto Tevere non si ha notizia di sconvolgimenti tanto spettacolari, tuttavia progetti di deviazioni del fiume per scongiurare le rovinose piene ricorrono nelle cronache di quei secoli, e tanto per citare un piccolo esempio, il torrente Scatorbia che bagnava il lato Nord di Città di Castello viene deviato sull'attuale alveo che lambisce lo spigolo meridionale della città.

Due secoli fa il Tevere, scorreva ancora sotto le mura occidentali di Città di Castello, venne rettificato e accostato alla collina della Montesca.

Verso la fine del secolo scorso i nostri rilievi furono ridotti a nudi e spettrali calanchi privi di copertura arborea. Le cause vanno ricercate soprattutto nella grande pressione demografica che insisteva nei territori collinari e montani con relativa grande necessità di aree coltivabili e di legna da ardere, ma anche nel massiccio prelievo di legname che venne fatto per ricavarne traversine ferroviarie dopo che i versanti marchigiani erano stati spogliati dì roveri destinate alla marina britannica.

Le marne, notoriamente impermeabili, private dell'orizzonte vegetale non sono capaci di trattenere acqua piovana e di opporsi all'asportazione dei suoli. Non fu certo casuale il verificarsi proprio in quegli anni di spaventose inondazioni. La più catastrofica, ricordata da lapidi indicatrici di livello raggiunto dalle acque nel centro storico di Città di Castello, avvenne nel 1896 e causò ingenti danni in tutto l'Alto Tevere.

Una svolta significativa si è avuta indubbiamente negli anni sessanta di questo eccezionale XX secolo, quando l'industrializzazione e l'inseguimento di nuovi modelli di vita portarono all'inurbamento di grandi masse di agricoltori con relativo abbandono della montagna. La pianura mutava volto per la massiccia antropizzazione e l'evolversi dei metodi di produzione agricola, mentre la montagna poteva di nuovo coprirsi di boschi, in massima parte per azione naturale, in virtù dei sistemi di riscaldamento che hanno abbandonato la legna per i combustibili fossili, ma anche per merito dell'opera del Corpo Forestale dello Stato e, successivamente, della Comunità Montana Alto Tevere Umbro.

Quanto detto non ha pretesa di ricostruzione storica, ben altra dimensione e ben altro livello di approfondimento dovrebbe assumere un simile intento. Queste estreme schematizzazioni tendono a sottolineare quanto stretti siano i legami tra intervento dell'uomo ed evoluzione naturalistica del territorio, e quanto lontano nel tempo si spingano i confini di questa azione. Acquisire questa ottica consente di meglio giudicare i processi in atto e di assumere atteggiamenti più corretti in materia di conservazione, salvaguardia e ripristino.

Oggi non ci si può improvvisare naturalisti. Per capire l'ambiente occorre prendere atto delle complesse dinamiche che ne condizionano il divenire, prestare la massima attenzione al manifestarsi degli equilibri naturali mantenendo la mente tesa da una parte a ricostruire l'evoluzione e dall'altra a prevederne il futuro. Questo è materia dell'ecologia, che significa <<studio della casa>>. Fare ecologia significa proprio capire i meccanismi che sottostanno all'equilibrio dell'ambiente in cui viviamo e agire di conseguenza, e non soltanto eseguire operazioni di pulizia, come sembra scaturire dalla riduttiva interpretazione che oggi viene spesso fatta del termine.

In una apoteosi di condizionamenti dell'ambiente naturale ai nostri capricci è stata costruita una colossale diga all'altezza di Montedoglio. Il lago che ne conseguirà raccoglierà circa 150 milioni di metri cubi d'acqua e sarà lungo molti chilometri. Esistono già progetti per villaggi turistici lungo le sue rive. Esso modellerà pesantemente il paesaggio e condizionerà il clima della valle. I 3/4 delle acque dell'invaso affluiranno verso la VaI di Chiana tramite lunghissime gallerie scavate sotto le colline anghiaresi. Inevitabilmente il mutato regime idrico influenzerà il livello freatico della valle e le fenomenologie sedimentologiche del fiume, con conseguenze a livello idrogeologico non certo trascurabili e che vanno a sommarsi al tremendo impatto ambientale già recato dalle opere di regimazione idraulica come briglie, sagomatura di argini e l'escavazione di inerti dal letto stesso del fiume.

La Regione Umbria ha intanto commissionato un progetto di diga sul torrente Carpina, a monte della chiusa già esistente in località Tre Ponti, sotto Montone. Ne risulterebbe un enorme invaso capace di alcune decine di milioni di metri cubi d'acqua che, nell'intenzione dei committenti, dovrebbero colmare il gap idrico tra la diga di Montedoglio e l'altro colossale lago artificiale sul Chiascio, nell'eugubino.

Non è questa la sede per trattare la liceità di tali realizzazioni che, giova ricordarlo, avvengono per giunta in località a forte rischio sismico, qui mi preme sottolinearne l'entità per agganciarmi alla tesi di questo paragrafo: la sinergia uomo-natura. In Alto Tevere questa azione combinata ha sinora prodotto una fusione, solo apparentemente contraddittoria, tra aspetti legati ad un assoggettamento completo del bene-natura alle necessità del processo produttivo, e paradisiaci aspetti di recuperata naturalità nei contesti collinari e montani.

Sottovalutare l'importanza di questo binomio significherebbe sottrarci alle nostre responsabilità.

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