I VALORI TRADIZIONALI
Il discorso sui
valori della tradizione può essere affrontato da tante angolazioni,
tutte affascinanti e ricche di significati culturali. Parlare della cucina,
in particolare, consente di dar voce a una cultura
contadina e popolare cui l'Alto Tevere è profondamente legato.
Ogni stagione dell'anno, ogni importante ricorrenza religiosa o
sociale, era scandita dal rinnovarsi di una tradizione culinaria fatta di
piatti tipici di quel certo periodo. Qui, quasi a celebrare il recupero di
quel rapporto con la natura che la cucina rappresentava, parleremo di alcuni piatti di quel momento dell'anno in cui, dopo
il riposo invernale, ogni vivente si risveglia a nuova vita.
L'ambiente, la natura nell'alimentazione quotidiana.
Con l'inizio della primavera l'alimentazione
cambiava radicalmente. L'organismo richiedeva un cibo alternativo, più fresco,
più ricco delle vitamine mancate durante l'inverno. Tutte le erbe spontanee
e commestibili dei campi venivano consumate, crude
o cotte. Erano molte: radicchio selvatico (digestivo) maroncello
con un fresco odore di cetriolo, rucola tenera e amarognola, "piscialetto" (Taraxacum)
diuretico e depurativo e, continuando, tenerelli,
grugnì, raponzoli, rapastelli,
crespignoli, pavarelli,
la "pappata", primo tenerissimo germoglio del papavero usato
indifferentemente come alimento per gli uomini e per l'allevamento delle
anatre e delle oche, e ancora, la vitalba, il luppolo e la borragine,
lessati e usati in frittata.
Contenitori per i vari usi.
L'abilità e la fantasia delle massaie contadine nel raccogliere
e usare tutto quello che la natura offriva era inesauribile e oltre alle
erbe di primavera venivano consumati anche alcuni
fiori. Quelli dell'acacia e del sambuco, ad esempio, che crescevano
sempre nei pressi delle case coloniche, venivano messi prima nella pastella
e poi a friggere nello strutto bollente in padella, dalla quale uscivano
simili a trine fragilissime e croccanti.
Molta cura veniva riservata per quelli
che si chiamavano "piatti di recupero", che permettevano l'uso
dei cibi avanzati. Ad esempio il pane diventato secco veniva
usato per la gustosissima panzanella e per la pappa, che veniva consumata
principalmente dagli anziani e dai bambini.
Panzanella
Prendete il pane secco, mettetelo a bagno in acqua fredda.
Strizzatelo con le mani e sbriciolatelo in una insalatiera.
Tagliate sottilmente una cipolla, un aglio fresco, mettete
pomodoro quanto basta, cetriolo, poche foglie di radicchio, basilico, mezza
mela verde tagliata in modo sottile. Condite con olio, pepe e sale e
preferibilmente con un po' di aceto di vino. Molte
altre erbe possono essere inserite purché gli odori e i sapori siano ben
amalgamati.
Coniglio ai fiori profumati
Per togliere quegli strani sapori di
selvatico tipici del coniglio e per imbiancarlo, le nostre donne
mettevano a bollire per qualche minuto in una pentola, insieme all'acqua e
un po' di aceto, tutti gli odori a disposizione; due spicchi d'aglio, un
pezzo di cipolla (anche le foglie), un rametto di maggiorana, di alloro, di
rosmarino, di timo e i rametti più grossi di finocchio selvatico. Toglievano
la pentola dal fuoco e vi immergevano il coniglio
per quattro o cinque minuti. Poi lo scolavano e lo asciugavano con un
panno. A questo punto il coniglio era pronto per essere trattato secondo la
ricetta tramandata dalla Rosa del Prete: fate soffriggere nella stufarola, possibilmente di coccio, insieme a battuto
di lardo o pancetta e un po' d'olio, un trito di cipolla, sedano, carota e
due spicchi d'aglio che devono essere poi tolti. Imbiondito il trito mettete nella stufarola il
coniglio tagliato a pezzi. Quando la carne comincia a prendere colore,
salate, pepate e aggiungete un bicchiere di vino bianco secco e i fiori di
maggiorana, di timo, di origano, di calendula,
d'issopo, di santoreggia, finocchio e due chiodi di garofano, qualche bacca
di ginepro, due altre foglie di alloro e mezza mela verde a pezzi. Coprite
facendo cuocere a fuoco lento e man mano unite
altro vino per evitare che il coniglio minacci di attaccare. Terminata la
cottura adagiatelo su un piatto da portata e
cospargetelo col sugo di cottura.
Minestra di fave
Tenete le fave a bagno nell'acqua per una notte e al mattino seguente mettetele al fuoco in una pentola o
pignatta di coccio fatele bollire nell'acqua in cui sono state messe a
mollo per circa quindici minuti. A questo punto si scola l'acqua e si
sostituisce con altra acqua bollente, aggiungendo un rametto di maggiorana,
a piacere anche un pomodorino e il sale. A parte
si prepara un soffritto con lardo o pancetta o grasso di prosciutto e
qualche spicchio d'aglio. Il tutto si rovescia nella pentola poco prima di
toglierla dal fuoco. Si scodella la minestra nei piatti dove si mette del
pane abbrustolito e sfregato con l'aglio o anche polenta o gli avanzi della
"ciaccia".
Porchetta
La porchetta era sempre presente in ogni festa paesana, mercato
e fiera. Il porco in questo caso veniva cotto
tutto intero al forno e riempito con rami di finocchio selvatico
(tonificante del sistema digestivo) e di spicchi d'aglio interi, potente
antisettico, appunto perché il consumo della porchetta era più frequente
durante i periodi caldi. In casa si può usare una trancia di maiale farcita
sempre con finocchio selvatico, aglio e sale grosso. Mettetela al forno arrotolata e legata per una cottura non
inferiore alle quattro ore. Tolta dal forno lasciatela raffreddare per
poterla affettare.
Frittata di vitalbe o luppolo
Raccogliete le cime tenere tagliate con l'unghia, lavatele e
lessatele nell'acqua bollente per un miserere. Dopo averle scolate ripassatele in padella con un po' di olio (i vecchi
contadini usavano un battuto di grasso di maiale) e uno spicchio d'aglio,
una foglia di mentuccia o maggiorana. Sbattete le
uova con un pizzico di sale, unite le erbe ripassate e gettate
il tutto nella padella ben riscaldata. Rivoltate, versate in un
piatto e aggiungete sale.
Le ragioni della vita contadina in un museo
Il senso della costituzione del Centro delle Tradizioni
Popolari di Città di Castello è stato quello di arrivare a penetrare,
comprendendola, tutta quella cultura non solo per ciò
che riguarda le arti contadine, ma per tutto quello che si inserisce nel
progetto culturale dì questo centro, che è stato quello fin dalla nascita
di promuovere continuamente una serie di iniziative che abbiano sì come
scopo la salvaguardia della tradizione ma soprattutto che funzionino da
stimolo per chi, riappropriandosi di certe tecniche e di certi modi di
"vita", voglia percorrere strade nuove, certamente in sintonia
con il proprio tempo, ma con il desiderio di non dimenticare l'origine delle
"cose".
Altre attività del contadino
E proprio da questo desiderio che è nata
un'altra iniziativa. Con la collaborazione della Comunità Montana
"Alto Tevere Umbro" ci si è voluti avventurare nel grande, ma suggestivo, impegno della ricerca genetica delle piante da
frutto in via di estinzione; e per seguire il corso naturale delle cose
ecco anche l'orto contadino con la presenza di specie erbacee legate alla
tradizione culinaria e alla medicina popolare. Questi sono i discorsi
indispensabili per un linguaggio espressivo e non sterile, non ripetizione
e catalogazione di una "storia" che tutti possono capire e non
sentire, ma un luogo nel quale ritrovarsi e ritrovare, e avvicinare
l'antico sapere contadino che nonostante la lontananza ha ancora un senso.
L'orto botanico, le spezie, la medicina popolare, la ricerca
genetica e il ritrovamento delle piante, insomma tutto questo patrimonio
arboreo ed erbaceo che fa parte dell'ambiente, oltre a completare il
discorso del Museo aiuta anche la comprensione di tutti quei valori ricchi
di significati culturali e troppo intriganti per poter
lasciare senza voce una cultura contadina popolare a cui tutti gli abitanti
dell'Alto Tevere dovrebbero sentirsi profondamente legati.
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