ALTA
VAL TIBERINA; STORIA DI MILLE ANNI
Le trasformazioni determinate dell'insediamento umano nell'Alto
Tevere Umbro si delineano con precisione a partire
dal X secolo, quando il "Castrum Felicitatis", al centro della Valle presieduta
da fortilizi, e nodo di scambi commerciali e di interessi politici cui
fanno capo genti umbre, toscane, marchigiane e romagnole, diviene "Civitas Castelli". Il vecchio nucleo
medioevale, ormai insufficiente a contenere l'aumento demografico
determinato dalla positiva contingenza
socio-economica, ampliai propri confini verso il "Prato" e il
"Campo di Marte", la campagna delimitata da Tevere e Scatorbia, in cui, accanto al grande mulino ospizio dei
pellegrini, di cui resta traccia nella successiva toponomastica,
affioravano i resti dell'antico insediamento romano. La progressiva
espansione edilizia del Borgo Inferiore e del sobborgo Mattonata
fino al "Campaccio" e la costruzione della chiesa di S. Giovanni
in Campo, l'intenso popolamento del Borgo Nuovo, con le chiese di S. Egidio
e di S. Bartolomeo, il moltiplicarsi di rapporti tra gli insediamenti lungo
il Tevere fino a Nuvole e lungo il torrente Cavaglione
richiedono una nuova cinta muraria, documentata alla fine del XII secolo,
quando la zona diviene competitiva sul piano strategico
ed appetita dalle molteplici componenti della scena politica
tardo-medioevale.
Dichiarata "Repubblica d'Imperiale protezione con mero
e misto comando e con potestà di spada" dagli imperatori Federico
I Barbarossa, Federico II e Arrigo IV, Città di
Castello divenne quindi Democratico Comune con giurisdizione su Cortona, Borgo Sansepolcro, Mercatello, Urbania, Apecchio, Pietralunga,
Montone. Retto da un Consiglio a elezione popolare
con un esecutivo affidato prima a due Consoli, poi a un Podestà di
provenienza per lo più esterna, il comune deve combattere per una autonomia
sempre messa a rischio dalle lotte interne tra Guelfi e Ghibellini e dalle
ingerenze esterne dei potenti vicini spesso sollecitati da queste stesse
lotte. Espressione emblematica di questa
conflittualità resta la Torre Civica, eretta di fronte al Campanile
cilindrico, simbolo della latente potestà pontificia. Sono i secoli in cui
il potenziamento urbanistico entro le nuove mura è
corrisposto all'esterno del complesso di fortilizi dislocati a S. Giustino,
Celalba, Scalocchio, Canoscio, Poggio, Ghironzo,
Celle, baluardi della città contro le mire espansionistiche dei Marchesi di
Civitella, di Petriolo
e di Monte S. Maria, di Brancaleoni,
Ubaldini e Tarlati, nonché dalle pretese di
Perugini, Aretini e Fiorentini.
L'Alta Valle del Tevere è in questi secoli al centro di un grande movimento di interessi politici, che, se si
riflettono da un lato nei giochi di alleanze esterne connesse alle interne
rivalità fra Giustini, Vitelli, Facci, Albizzini, Abboccatelli, Tarlatini, si appoggiano dall'altro su una economia in ascesa.
Artefici di questo progresso sono anche le Corporazioni che garantiscono
benefici interni e difesa verso l'esterno, ma non sottraggono la zona dalla
progressiva ingerenza dei pontefici, sollecitata dalle stesse vicende
politiche della città. Fin dal 1144 i Tifernati
avevano accettato, con l'atto di sottomissione a papa Lucio lì, successore
del tifernate Celestino Il, una
situazione di sudditanza nominale o di semplice protettorato In questa
approssimativa coincidenza di confini materiali e spirituali, contado ed
episcopato si identificano territorialmente: la Diocesi di Città di
Castello comprendeva a nord il territorio di Sansepolcro
e Anghiari, le pievi di S. Lorenzo, Montedoglio e Santo Stefano, giungendo ad est. fino al Marecchia, compresi Mercatello, Lamole, e S.
Angelo in Vado, e inglobando a ovest Rubiano e Falzano, il Marchesato di Monte S. Maria
e la Curia di Monterchi. Dopo un primo momento di
prevalenza ghibellina con l'appoggio e il successivo dominio dei Tarlati di
Pietralunga, l'ingerenza papale
fu determinata dalla reazione di Urbano V agli accordi sotterranei dei
Ghibellini tifernati con i perugini: l'inviato
pontificio cardinale Albornoz si appoggiò al
guelfo tifernate Brancaleone
Guelfucci, che si impadronì della città nel 1368,
per lasciarla in mano ai Tifernati ribellatisi su
istigazione dei Fiorentini e capaci di resistere al successivo attacco
guelfo dell'Abate di Mommagiore. La recuperata
libertà finì in mano di Braccio Fortebraccio da
Montone, cui papa Martino V cede nominalmente la
città "in benemerenza de'servigi prestati
alla Chiesa a condizione che egli la sottomettesse colle armi
proprie". Il che si verificò
puntualmente. Alla morte del capitano di ventura la zona cade preda delle
lotte intestine, le quali trasformano il governo municipale in una oligarchia che non riesce a schivare il braccio
forte del papato: nel 1472 Sisto IV invia il nipote Giuliano della
Rovere, futuro Giulio Il, a risolvere con un assedio le questioni interne a
favore dei Giustini. La città dapprima resistette
sotto la guida di Niccolò Vitelli, che aveva apprestato un imponente sistema di fortificazioni; le trattative seguite alla
capitolazione non riuscirono ad evitare la temuta costruzione di nuove
rocche simili al Càssero, che servissero a consolidare
il potere del Legato pontificio nella città. Il governo papale
fu tuttavia allontanato di nuovo dallo stesso Niccolò "padre della
patria" che, rientrato nel 1482, demolì la nuova rocca di porta S.
Maria, per costruire con le macerie la chiesa di
S. Maria Maggiore e lasciò alla sua morte il
potere ai figli Paolo e Vitellozzo Vitelli.
Sono i secoli dello splendore della Valle: l'agglomerato urbano
aggiunge alle sue torri il Palazzo del Podestà e il Palazzo dei Priori e viene suddiviso in rioni denominati dalle quattro porte
principali, con a capo un Gonfaloniere e un corpo di guardia di difesa. Nel contado il superamento dell'economia curtense nei nuovi
rapporti di produzione basati essenzialmente sulla mezzadria fa sorgere
accanto ai centri di vita aggregata le case isolate dei mezzadri,
tipiche, insieme alle residenze Padronali, del paesaggio umbro e toscano. L'habitat intorno al Tevere, che costituisce una fonte
di ricchezza per la Valle sia a livello di scambi commerciali che per la
pesca, si arricchisce di "sontuosissime fabbriche de'mulini posti nella riva
di quà",
che compensano le crisi economiche determinate dalle piene del fiume.
Dell'edilizia privata dell'epoca, finanziata dall'arricchita classe degli
artigiani ( falegnami, fabbri, vasai, scalpellini, calzolai, lanaioli, mulinari, orefici, fornaciai), poco resta, per
le continue trasformazioni determinate soprattutto dalla frequenza di eventi sismici.
Il "flagello di terremoti violentissimi" funestò
a più riprese l'Alto Tevere, l'emergenza segna una
tregua delle lotte intestine e suggerisce un primo piano edilizio
antisismico, che proibisce di riedificare tutte le parti sporgenti delle
facciate delle case. Anche il Duomo, in corso di
costruzione e lesionato dalle scosse, richiede una nuova
"fabbrica", messa in atto nel 1492 e terminata nel 1529 "secondo
un progetto unitario e grandioso" che sarà nuovamente messo in
crisi dal terremoto del 1789.
Gli stessi secoli dell'autonomia comunale vedono sorgere,
accanto all'ascesa degli ordini religiosi, le maggiori chiese, quali S.
Francesco, S. Domenico, S. Maria Maggiore, la
Madonna delle Grazie, in cui verrà collocata la
Santa Immagine, assunta dai Tifernati quale
emblema protettivo nei confronti delle emergenze ambientali, che, accanto
ai terremoti, annoverano pestilenze e frequenti e rovinose piene del
Tevere, come quella che nel 1557 distrusse il ponte, la chiesa di S.
Cristoforo e l'habitat circostante, con 30 morti. Se le lotte tra
Guelfi e Ghibellini nel XV secolo indeboliscono
politicamente la zona, questa è quanto mai forte, invece, sul versante
economico: tra le Università di Arti e Mestieri, quali Coltriciai,
Sarti, Calzolai e Ciabattieri, Pellicciai, Guardaioli e Bambagiai,
Cimatori, si segnala quella dei Lanaiali,
che, assieme alla coltivazione del guado, determina un commercio che
segnerà la fortuna della famiglia Vitelli, originariamente residente nel
quartiere Mattonata. Proprio ai Vitelli si deve
la splendida rifinitura urbanistica del XVI
secolo: le residenze della signoria nella nuova "piazza di
sopra", a S. Egidio, a S. Giacomo e alla Cannoniera segnalano la città
come "luogo di molto piacere ... ornata di molte et infinite case et famiglie
nobili di gran capitani et huomini
da guerra, di infiniti litterati et valentissimi dottori", cui si appoggia la
nascente arte della stampa.
In questo fermento che dà ossigeno a valori squisitamente
rinascimentali i pericoli di una ingerenza
esterna, soprattutto spagnola, sollecitano il potenziamento della cinta
muraria, valida anche alla difesa dalle bande di briganti proliferate nelle
campagne. Baluardo dell'indipendenza della zona era stato, nei secoli
immediatamente precedenti, anche il fortilizio di S. Giustino, affacciato
nella parte settentrionale della Valle particolarmente fortunata per
bellezza e fertilità.
Collocato tra i due poli di Borgo Sansepolcro e di
Città di Castello, l'antica Melisciano S.
Giustino, già "castrum"
in epoca romana, si trovava in una posizione strategica tanto
appetibile quanto pericolosa per la propria autonomia, Già nel 1109 sulle
colline prospicienti la Pieve sorgeva il Castello di Castiglione, su
cui vantava diritto dì proprietà e patronato Federico I Barbarossa. Dopo la distruzione del Castello,
alla fine del 1200 diviene fortilizio di difesa della vallata il palazzo
dei Dotti, coinvolto nelle stesse vicende della limitrofa Città di
Castello, e distrutto nella prima metà del 1400 dalle lotte tra i signori
della Valle A fine secolo i magistrati tifernati decidono di ricostruire il fortilizio
trasformandolo in fortezza. L'opera fu affidata al finanziamento di Niccolò
Bufalini, ricco proprietario della zona nonché "magnificus"
e influente cittadino tifernate, che,
coinvolgendo nella realizzazione il Gherardi e il
Vasari, mirò "a farne più un luogo ameno di villeggiatura che una
roccaforte militare" quale appariva all'esterno. Fatto che invece
di soddisfare i committenti tifernati, destò scontento e motivi di rivalità, acuiti per il caso-Fontecchio. L'antica sorgente termale, già nota in
epoca romana per le sue virtù terapeutiche, fu presa in considerazione a
fine '500 dal Governatore pontificio, il quale, dietro pressione dei
castellani, decise di riattivare i bagni.
La famiglia Bufalini ne rivendicò la
proprietà, trovando appoggio nella Curia romana. Il Governatore di Città di
Castello e i Tifernati accusarono
allora il Bufalini di prepotenza, con un
memoriale in cui emerge l'astio della città fomentato dai Vitelli, che
vedevano nei conti di S. Giustino dei probabili forti rivali e suggerivano
addirittura di smantellare il Castello.
Comunque la giurisdizione sul Bagno
di Fontecchio, sui lavori di spurgo delle acque e
sul loro impiego terapeutico rimase al Comune di Città di Castello, che ne
fece un soggiorno termale di àmpia rinomanza. Le
rivalità e le polemiche fra Castello e S. Giustino si smorzano nei secoli
successivi, quando entrambe finirono sotto lo Stato Pontificio. Ma l'inizio
del XIX secolo S. Giustino divenne Comune della
prefettura di Perugia sotto il cantone di Città
di Castello, da cui fu successivamente separato nel 1815, all'epoca della
ricostituzione della Repubblica di Cospaia, che
vantava il primato della coltivazione del tabacco. Confine tra la Toscana e
lo Stato Pontificio era "la dogana", lo
stesso palazzo che tuttora segna il confine tra Umbria e Toscana e allora
ricovero di contrabbandieri. Le vicende del Risorgimento legano
ulteriormente S. Giustino a Città di Castello, occupate insieme dalle
truppe di Manfrédo Fanti l'11
settembre 1860 e insieme annesse al Regno d'Italia.
Momento catalizzatore di entusiasmi e
di confronto pacifico furono in questi secoli le "Solennità Floridiane", in cui convergevano
rappresentanze e spettacoli di tutto l'Alto Tevere, e delegazioni delle città
limitrofe e non, quali Arezzo, Anghiari, Pistoia,
Perugia, Spello, Urbino, nonché di signori quali
i Pietramala di Citerna,
il conte di Poppi, il Malatesta di Pesaro e il Gonzaga di Mantova. La grande
risonanza delle feste, tenute "ad onore dei Santi Protettori
Florido Vescovo ed Amanzio Diacono li XXII agosto anniversario della consagrazione della Chiesa Cattedrale a Loro
Dedicata", determinò addirittura una normativa per gli appalti
dell'allestimento. Le "dimostrazioni giolive",
ovverossia Giostra e Quintana, gare
dell'arco, della balestra e dell'asta, corse a piedi e a cavallo,
ricostruzioni di battaglie con grande apparato scenografico e musicale, si svolgevano nella piazza maggiore, di fronte alla
Cattedrale, e contribuirono a far definire i Tifernati
e gli abitanti della Valle "gente ospitale e munifica". Ma
in questo "luogo di molto piacere" le "molte
inimicizie non quietate" si orientano nel
XVI secolo a un esito definitivo nella pace imposta dall'egida del sovrano
pontefice Messandro VI, chiamato dalle mosse
incaute dell'ultimo Vitelli.
La fine delle fiere libertà comunali e dell'autonomia della
signoria è segnata per Città di Castello dalla Strage di Senigallia: nel
1503 Cesare Borgia, il duca Valentino, uccide Vitellozzo Vitelli, colpevole di tradimento e di doppio
gioco ordito alle sue spalle di alleato insieme a Oliverotto
da Fermo. La città entra ufficialmente sotto il dominio pontificio: questo
momento, che dura finò al 1798, determina nella
zona un processo economico di ristagno e di parziale rifeudalizzazione,
e caratterizza le vicende interne della città con i toni della
politica post-tridentina, a cui si oppone il tentativo di autonomia
culturale avanzato dall'Accademia degli Illuminati.
Alla fine del Rinascimento Città di Castello si presenta
arroccata entro le sue mura, che l'avevano già vista come una delle "quattro
città che sono in Italia le più armigere e le più marziali" e
che vengono guarnite nella guerra dei papi con il
duca Farnese del 1641 con i "belli rampari". A livello urbanistico la sovranità
pontificia non determina trasformazioni di rilievo: si tende piuttosto a
potenziare la città di elementi che sottolineino
il clima della Controriforma (chiese, conventi, come quello delle
Cappuccine, collegi), senza alterare la struttura tradizionale, cui si
aggiungono le logge del palazzo del Podestà, dal quale viene ristrutturata
la facciata sulla "piazza di sopra" con l'aggiunta dell'orologio
e della campana. Vengono contemporaneamente
ristrutturati gli edifici schierati lungo le vie di collegamento tra le
porte della città, ai fini di uniformarne le facciate e di adeguarle al
dilagante gusto barocco, che determina anche l'allestimento di "fabbriche"
entro e fuori le principali chiese, per celebrare momenti tipici della
religiosità post-tridentina, quali le vittorie contro i Turchi infedeli.
Principale protagonista dei progressi urbanistici dell'epoca è l'architetto
Nicola Barbioni, che progetta le logge del
Podestà, la Chiesa di Belvedere, la Cupola del Duomo e la Cappella del SS. Sacramento, sempre nel Duomo, la cui facciata fu
disegnata dal Lazzeri, come la scalinata, poi
modificata dopo il terremoto del 1798, che distrusse anche la cupola.
Viene finanziato nel Seicento dalla
cittadinanza il Collegio dei Gesuiti e completata la cappella della Madonna
delle Grazie; furono edificati nel Settecento il palazzo Mancini, il
Seminario Vescovile, gli Ospedali Uniti e completati il palazzo Bufalini, il Vescovato e il Collegio dei Gesuiti:
trasformazioni che eliminano progressivamente i particolari tipici
dell'assetto medioevale, di cui sopravvivono la Torre civica, il Campanile
e pochi vicoli nei quartieri centrali.
La posizione geografica, periferica nei confronti di Roma, e di
confine doganale con la Toscana, accentua nell'Alta Valle del Tevere lo
stato di miseria economica e sociale comune a tutta l'Italia e particolare
dello Stato Pontificio. Sono evidenti i segni di una diversificazione tra
città e contado, tra un nucleo urbano in cui si investono
capitali per aggiornare l'immagine già ricca dei ricordi rinascimentali, e
una campagna in deplorevole stato, in cui si afferma una agricoltura con
podere condotto a mezzadria. La produzione agricola è di stretta
sussistenza, per cui l'alimentazione inadeguata e
le condizioni igieniche deplorevoli diventano fonti di malattie croniche,
quali la pellagra (il mais a volte costituiva più dei 4/5 del vitto dei
contadini). Le limitazioni territoriali proprie della geomorfologia tifernate fanno individuare una ripartizione dei fondi
agricoli secondo l'impiego del 40% a seminativo, del 30% a prati e pascoli,
del 25% a boschi, il resto improduttivo. Nel Seicento vengono
coltivati quasi esclusivamente mais, frumento e graminacee, aggiunti alla
vite, ai pochi olivi, e al primo tabacco, mentre nel Settecento troviamo
elencati, quali "raccolti di parte dominicale dei poderi degli
Ospedali Uniti: grano, colbigia, collare, segale,
fave, orzo, orzanella, veccia, mescolone, cecere, lenti, cecio, farro, miglio e panico, vena, granturco,
fagioli, noci, castagne, lino, canapa, canapone, olive". La
situazione economica è aggravata dal periodico riproporsi
di carestie, pestilenze e terremoti, che indeboliscono la città al punto
che se "nel l586 furono trovate nel contado 14.855 persone, nella
città 6.350", nel 1656 il numero delle "anime" in
città scende a 5.685, nel 1701 a 5.515 per raggiungere il minimo
storico del 1736 con 4.391 abitanti entro le mura urbane.
A livello artigianale le cronache citano la presenza di
rappresentati di tutte le arti e mestieri, riuniti in Confraternite, non
ditale peso, tuttavia, da costituire vere industrie a conduzione familiare.
Un posto particolare occupano la tessitura della
lana e la tessitura e tintura dei panni, che però decade per la scarsa cura
in cui lo Stato Pontificio tiene l'economia della città. La progressiva
chiusura degli scambi commerciali con l'esterno dettata
dalla politica pontificia, che contemporaneamente potenzia fiere e mercati
interni, vede Città di Castello penalizzata: esclusa dalle principali vie
di comunicazione, anche se tappa obbligata della Valtiberina
e confine naturale fra più regioni, e aggravata proprio per questo dai dazi
e dalle gabelle di entrata e di uscita, e perciò isolata e chiusa ai vantaggi
economici e. commerciali, per quanto l'elenco
delle svariate monete in circolazione (baiocco, crazia,
dobla, doblone, gliarmina, grosso, leornina, lira, paolo,
piastra, quattrino, scudo, soldo, tallero) sia indizio di uno scambio
monetario consistente. La Fiera più antica è quella di San Bartolomeo,
istituita nel 1571 e stabilita dagli Statuti Cittadini insieme alle feste
in onore dei Santi Protettori Florido e Amanzio. Le tradizionali "Solennità
Floridiane" del 22 e 24 agosto furono
surclassate dal 1666 dalle rappresentazioni teatrali degli Illuminati, che
misero fine a feste, giochi e giostre e tornei, che "si celebrano
con gran pompa" e concorso popolare nella piazza del Magistrato
sotto il presidio di una "guardia della fiera" con
relativo Capitano e Maestro di Campo. Grande
concorso popolare registrano altre tradizioni legate alla religiosità,
quali la periodica uscita in processione della Santa Immagine della Madonna
delle Grazie, che segna anche i momenti critici dell'emergenza ambientale,
quali terremoti, carestie, siccità, pesti, alluvioni.
Se lo scenario del Seicento fu dominato dalla peste (la
minaccia si presentò molto concretamente nella Valtiberina
nel 1629, 1633, 1680 e 1691) il Settecento venne
funestato da terremoti assillanti, che ebbero un culmine tragico nel sisma
del 30 settembre 1789, causa in città e nel contado dii
10 morti, nonché della rovina di gran parte del patrimonio artistico tifernate: in questa occasione la pietà popolare assunse
come protettrice dai terremoti la cappuccina Veronica Giuliani, vissuta tra
i due secoli e futura patrona della città. L'emergenza ambientale fu
segnata anche dalle frequenti piene del Tevere (devastanti negli anni 1627,
1667, 1758) che, assieme ai terremoti, determinarono notevoli
trasformazioni del territorio. In particolare, furono sollecitati dai sismi
fenomeni secondari di carattere termale, che saranno
più evidenti in occasione della scossa del 18 dicembre 1897, quando si
verificò anche "un mutamento nel campo visuale di Città di
Castello", secondo il geologo A. Issel,
inviato su sollecitazione del re dalla "Società Ligustica
di Scienze Naturali e Geografiche" per compiere un sopralluogo di
carattere scientifico sulla zona, nota per la sua sismicità. Issel osservò che, mentre agli inizi dell'Ottocento il
convento di Buon Riposo non si poteva vedere dalla via di circonvallazione "a
causa di una collina interposta, la quale ha nome Teverana;
ora, invece, mentre questa non subì cambiamento alcuno per mano dell'uomo,
il convento è dagli stessi punti in gran parte visibile", concludendo che l'abbassamento, piuttosto che a
bradisismo, sembrava dovuto al "lento scivolamento di una fascia
argillosa" sollecitata dal ripetersi dei terremoti.
Fra le trasformazioni ambientali dell'Alta Valle del Tevere va
segnalata, in pieno Seicento, quella della collina di Belvedere:
trasformazione di natura prevalentemente umana, determinata dalla simbiosi
tra politica controriformistica e pietà popolare.
Dopo il rifacimento della vecchia mulattiera di collegamento tra Bocca Serriola e il Ducato di Urbino,
il Visitatore Apostolico e il Governatore Pontificio suggerirono di
ravvivare l'antico culto della Madonna di Caprano
e di costruire un santuario, finanziato dalla cittadinanza, del cui
progetto furono incaricati gli architetti Barbioni
e Gabrielli. La collina divenne prima un cantiere
che vide la nascita del santuario di Santa Maria
di Belvedere, "solennemente dedicato con straordinario concorso di
popolo il 10settembre 1683, primo anniversario della strepitosa
vittoria dei Cristiani sull'esercito Turco". La grandiosa
manifestazione cui parteciparono, nonostante la
pioggia battente, circa ventimila persone provenienti dalla Valle e dalle
zone limitrofe, fu aperta, "nell'ora esatta in cui i Turchi furono
debellati e vinti", dallo "sfilamento" degli
innumerevoli stendardi di confraternite e famiglie religiose, seguiti da
Vescovo, Gonfalonieri, Priori e Magistrati, che affidarono il santuario
alla cura di un abate-parroco coadiuvato da cappellani con obbligo di
residenza nel complesso edilizio. La collina, famosa in tutto lo Stato
Pontificio, divenne meta di pellegrinaggi e oggetto delle cure dei Tifernati, che la rimboschirono progressivamente fino a
farle assumere l'aspetto che la rende elemento tipico del paesaggio altotiberino.
Di particolare importanza per l'ambiente umano fu la costruzione
a fine Settecento degli Ospedali Uniti, che sostituirono la pletora di opere pie ed enti assistenziali cui era affidata una
inadeguata assistenza sanitaria. Inaugurati nel 1783, furono l'ultima opera
sollecitata dalla già pigra amministrazione pontificia, prima
dell'invasione francese del 1798, che vide gli incauti tifernatì
regalare lo Sposalizio della Vergine di Raffaello al comandante della legione bresciana
occupante. Le forze clericali e aristocratiche si affrettarono a fomentare
una rivolta popolare, che si avvalse anche di rinforzi aretini e borghesi e
divampò il 16 aprile al grido di "Viva Maria".
Nel giugno 1799, cancellata la Repubblica
Cisalpina, Città di Castello fu occupata dalle truppe austro-aretine, che
ristabilirono il governo pontificio con il Gonfaloniere e i Consigli dei
Cento e dei Trenta. Nel 1809 l'ordinamento dello Stato Pontificio viene modificato secondo il modello francese e permane
fino al compimento dell'Unità d'Italia, che vede Città di Castello e l'Alto
Tevere occupati dalle truppe del generale Fanti e annessi al Regno d'Italia
sotto la monarchia Sabauda a seguito di votazione plebiscitaria nel
novembre 1860.
Fra le leggendarie figure di briganti che popolano
i ricordi della Valle emergono, a fine Settecento, quelle del "Broncolo" e del "Cappel
Verde". Quando ai tempi della Repubblica Romana fu innalzato nella
piazza Sorbello di
Fratta l'"albero della libertà", fu l'umbertidese
Broncolo ad istigarne l'abbattimento ai contadini
rivoltosi, che poi si diressero, al suo seguito, verso Città di Castello
per ricongiungersi con la banda del terribile bandito e assassino tifernate Cappel Verde.
Da sempre punto di riferimento fondamentale per l'Alto Tevere
Umbro, l'odierna Umbertide ha
origini poco precise. Forse fondata dai Romani scampati nel 217 a.C. alla
battaglia del Trasimeno, forse edificata dagli Umbri autoctoni, forse nata
intorno ai resti di un antico edificio di culto, detta prima "Pitulum" e quindi "Fratta" perché
distrutta dai Goti, fu ricostruita nell' VIII
secolo dai figli di Umberto Ranieri, oppure, secondo un'altra ipotesi, nel
IX dai figli di Umberto, figlio naturale del re d'Italia Ugo di Provenza,
come ampliamento del sistema difensivo costituito dal Castello e dalla
Torre dì Santa Giuliana. La complessità delle ipotesi serve a spiegare la
toponomastica della zona, per quanto soggetta a varianti nella storia.
Sottomessa a Perugia nel 1189, e assoggettata
quindi dallo Stato Pontificio, Fratta fu "regalata" dai
papi ai figli del tifernate Niccolò Vitelli per
benefici offerti alla Chiesa, per ritornare in breve, su revoca pontificia,
a Perugia. Già nel XIV
secolo, dopo la riconquista della zona ad opera del Baglioni,
i Perugini avevano fortificato Fratta con la Rocca, i cui lavori erano
stati affidati ad Angelo di Cecco detto "Trocascio".
Caratteristica ambientale della zona, che si avvaleva di una economia su base agricola, di cui caratteristica
erano isolamento e protezione doganale, fu il ripetersi delle piene del
Tevere L'importanza del rapporto con il fiume è segnato dalla presenza del
ponte nello stemma cittadino, in cui le lettere FOV siglano "Fracta Oppidum Umberti (Uberti o Ubertorum)" fino al XVII secolo, quando "per
solenne voto in pubblica calamità le iniziali FOV si convertirono in Fracta Oppidum Virginis". Nel 1799, al crollo delle
Repubbliche, Fratta seguì gli stessi avvenimenti di Città di Castello, fino
all'annessione al Regno d'Italia. Per evitare confusione con altri paesi
italiani denominati Fratta, si decise quindi, nel 1863, di denominare il
paese "Umbertide", sia per
ricordare i riedificatori di Fratta, sia in omaggio al principe Umberto figlio del re Vittorio Emanuele II.
Il XIX secolo è segnato, soprattutto nella prima
metà, dall'arretratezza del contesto economico della Valtiberina;
arretratezza ereditata, in cui si cominciano tuttavia a delineare i
vantaggi della nuova coltura che arricchirà la zona, ad essa favorevole per
clima e fertilità: il tabacco. Già appannaggio della limitrofa S. Giustino,
e in particolare di Cospaia, la coltivazione del
tabacco fu concessa nel territorio tifernate a
partire dall'868, a livello sperimentale prima, sistematicamente poi grazie
all'impulso di proprietari come i Franchetti e,
all'inizio del Novecento, del consorzio F.A.T. La
zona si caratterizza, fino a Umbertide,
anche per la coltivazione dei bozzoli e per l'industria serica, nonché per
i prodotti del bosco, per quanto il disboscamento selvaggio delle vallate
degli affluenti del Tevere e la relativa incuria secolare impoverissero già
notevolmente l'agricoltura e la pastorizia.
E' anche l'epoca della costruzione della nuova strada di Bocca Trabaria, attraverso cui giunse agli umbri dalla
Romagna l'istigazione alla rivolta contro lo Stato Pontificio: il progetto,
che avrebbe lasciato fuori Città di Castello dalla nuova via di
comunicazione, fece nascere molte polemiche e prese il via nel 1830,
nonostante le petizioni dei Tifernati, che
cominciavano a pagare con l'isolamento i loro tentativi di
indipendenza. Nonostante la successiva
costruzione della linea ferroviaria Arezzo-Fossato,
iniziata nel 1883, il problema dell'isolamento dell'Alta Valtiberina non fu risolto, vista la mancanza di un
effettivo collegamento agile con Perugia, raggiungibile
solo per via diligenza. Ad aprire in parte l'orizzonte della zona fu il
decollo dell'industria tipografica, già forte alle soglie del nuovo secolo.
Nel 1878 la Lapi-Raschi Editori pubblica una "Guida Storico-Artistica
di Città di Castello" opera di Eugenio Mannucci,
da cui si possono desumere dati particolarmente significativi per la loro
immediatezza relativi all'ambiente tifernate di
fine secolo. Città di Castello, dice il Mannucci,
fa parte del Circondano di Perugia ed è capoluogo
del Mandamento che comprende i tre Comuni di Città di Castello, S. Giustino
e Citerna, e manda due deputati al Consiglio
provinciale. E collegio elettorale politico comprendente anche il comune di
Pietralunga del Mandamento di Umbertide, e parte del Mandamento di Gubbio.
Il Comune comprende i villaggi di Abbadia
di Petroja, Antirata, Barzotti,
Botina, Cerbara,
Candeggio, Caspignano, Fraccano,
Grumale, Lugnano, Lerchi, Morra, Mucignano, Petrelle, Piosina, Promano,
Regnano, S. Biagio a Colle, S. Leo Bastia, S. Pietro a Monte, S. Secondo,
S. Lucia, Scalocchio, Trestina.
E sede di Pretura dipendente dalla Corte di Appello
di Ancona, sezione di Perugia; ha ufficio
demaniale, postale e telegrafico. "La popolazione
del Comune è di n. 24.088 abitanti, di cui n. 12.207 maschi e 11.881
femmine, 13.490 celibi 7.888 conjugati; e 2710 vedovi; 24.079 cattolici e 9 acattolici: n. 4223
case e 5026 famiglie. La media annua dei nati è di 900; dei morti 800: dei matrimoni 150; degl'inscritti di Leva 280;
degli emigrati 208; degli immigrati 467". Fra gli altri dati
statistici, il Mannucci aggiunge che la citta ha 119 strade; 40 chiese, dopo la soppressione di altre 23; 2240 possidenti in terreni, di cui "hanno
un maggiore estimo" i Bourbon del Monte, l'Ospedale, i Rondinelli-Vitelli; n. 10.732 capì vaccini, 15.886
suini, 53.434 fra pecore e capre, 1.422 muli e asini. L'istruzione
pubblica, dì cui fruiscono circa 950 alunni maschi
e 400 femmine, soppresso il locale Collegio dei Gesuiti, è affidata agli istituti
regi e a oltre 20 scuole private annesse ai vari istituti di beneficenza,
fra i quali "tiene il primo posto" l'istituto dei RR.
Ospedali Uniti con annessi Brefotrofio,
Orfanotrofio, l'istituto Muzi-Betti, seguito dal
Ricovero di Mendicità, dall'Asilo d'Infanzia, dal Lascito Fuccioli, dall'Opera laica Segapeli
e dall'antico Monte di Pietà. Fra le "istituzioni di pubblica
utilità" il Mannucci segnala la Cassa de' Risparmi, istituita nel 1855, la Società
Patriottica degli Operai, la Società di Mutua Beneficenza, la Società dei
Volontari reduci dalle Patrie Battaglie, la Società del Bagno di Fontecchio, la Società Filodrammatica, il Circolo Tifernate. Avanza inoltre una prima analisi e
classificazione del dialetto tifernate,
particolare tra i dialetti umbri per l'inflessione dovuta al pluralismo
etnico di base e alla posizione di confine della zona. Presenta le tre
sorgenti di acque minerali, del Coppo, di Buon
Riposo e di Fontecchio, in cui era stato appena inaug~ato il nuovo stabilimento, menziona il molino
della Canonica, la Filanda Palazzeschi, il
Lanificio Vincenti, le tipografie Lapi-Raschì e
Donati, l'officina di macchine agricole Vincenti-Bendini
e C., la manifattura dei Cappelli, e, soprattutto, ci informa che, in data
1878, "il servizio sanitario è affidato a n. 8 medici stipendiati
dal Comune", in cui "le infermità prevalenti sono:
affezioni reumatiche e malattie di petto per la città, e la pellagra per la
campagna: vi si trovano n. 49 ciechi, n. 13 sordomuti, e n. 34 infermi di
mente".
In questo clima di agraria semplicità,
in cui splendori e miserie delle antiche lotte tra Guelfi e Ghibellini si
perdono nella nebbia dei ricordi, l'antico "Castello di
Felicità" si avvia, insieme alla Valtiberina,
alle complesse vicende del XX secolo, quando diventerà
"memoria" l'epoca in cui era possibile scrivere che "i
poveri ascendono a 1.532".
◄Torna al Sommario
|