di giorgio marinelli

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 Ultimo aggiornamento: 31-12-06.

 

 

 

 

 

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ALTA VAL TIBERINA; STORIA DI MILLE ANNI

 

Le trasformazioni determinate dell'insediamento umano nell'Alto Tevere Umbro si delineano con precisione a partire dal X secolo, quando il "Castrum Felicitatis", al centro della Valle presieduta da fortilizi, e nodo di scambi commerciali e di interessi politici cui fanno capo genti umbre, toscane, marchigiane e romagnole, diviene "Civitas Castelli". Il vecchio nucleo medioevale, ormai insufficiente a contenere l'aumento demografico determinato dalla positiva contingenza socio-economica, ampliai propri confini verso il "Prato" e il "Campo di Marte", la campagna delimitata da Tevere e Scatorbia, in cui, accanto al grande mulino ospizio dei pellegrini, di cui resta traccia nella successiva toponomastica, affioravano i resti dell'antico insediamento romano. La progressiva espansione edilizia del Borgo Inferiore e del sobborgo Mattonata fino al "Campaccio" e la costruzione della chiesa di S. Giovanni in Campo, l'intenso popolamento del Borgo Nuovo, con le chiese di S. Egidio e di S. Bartolomeo, il moltiplicarsi di rapporti tra gli insediamenti lungo il Tevere fino a Nuvole e lungo il torrente Cavaglione richiedono una nuova cinta muraria, documentata alla fine del XII secolo, quando la zona diviene competitiva sul piano strategico ed appetita dalle molteplici componenti della scena politica tardo-medioevale.

Dichiarata "Repubblica d'Imperiale protezione con mero e misto comando e con potestà di spada" dagli imperatori Federico I Barbarossa, Federico II e Arrigo IV, Città di Castello divenne quindi Democratico Comune con giurisdizione su Cortona, Borgo Sansepolcro, Mercatello, Urbania, Apecchio, Pietralunga, Montone. Retto da un Consiglio a elezione popolare con un esecutivo affidato prima a due Consoli, poi a un Podestà di provenienza per lo più esterna, il comune deve combattere per una autonomia sempre messa a rischio dalle lotte interne tra Guelfi e Ghibellini e dalle ingerenze esterne dei potenti vicini spesso sollecitati da queste stesse lotte. Espressione emblematica di questa conflittualità resta la Torre Civica, eretta di fronte al Campanile cilindrico, simbolo della latente potestà pontificia. Sono i secoli in cui il potenziamento urbanistico entro le nuove mura è corrisposto all'esterno del complesso di fortilizi dislocati a S. Giustino, Celalba, Scalocchio, Canoscio, Poggio, Ghironzo, Celle, baluardi della città contro le mire espansionistiche dei Marchesi di Civitella, di Petriolo e di Monte S. Maria, di Brancaleoni, Ubaldini e Tarlati, nonché dalle pretese di Perugini, Aretini e Fiorentini.

L'Alta Valle del Tevere è in questi secoli al centro di un grande movimento di interessi politici, che, se si riflettono da un lato nei giochi di alleanze esterne connesse alle interne rivalità fra Giustini, Vitelli, Facci, Albizzini, Abboccatelli, Tarlatini, si appoggiano dall'altro su una economia in ascesa. Artefici di questo progresso sono anche le Corporazioni che garantiscono benefici interni e difesa verso l'esterno, ma non sottraggono la zona dalla progressiva ingerenza dei pontefici, sollecitata dalle stesse vicende politiche della città. Fin dal 1144 i Tifernati avevano accettato, con l'atto di sottomissione a papa Lucio lì, successore del tifernate Celestino Il, una situazione di sudditanza nominale o di semplice protettorato In questa approssimativa coincidenza di confini materiali e spirituali, contado ed episcopato si identificano territorialmente: la Diocesi di Città di Castello comprendeva a nord il territorio di Sansepolcro e Anghiari, le pievi di S. Lorenzo, Montedoglio e Santo Stefano, giungendo ad est. fino al Marecchia, compresi Mercatello, Lamole, e S. Angelo in Vado, e inglobando a ovest Rubiano e Falzano, il Marchesato di Monte S. Maria e la Curia di Monterchi. Dopo un primo momento di prevalenza ghibellina con l'appoggio e il successivo dominio dei Tarlati di Pietralunga, l'ingerenza papale fu determinata dalla reazione di Urbano V agli accordi sotterranei dei Ghibellini tifernati con i perugini: l'inviato pontificio cardinale Albornoz si appoggiò al guelfo tifernate Brancaleone Guelfucci, che si impadronì della città nel 1368, per lasciarla in mano ai Tifernati ribellatisi su istigazione dei Fiorentini e capaci di resistere al successivo attacco guelfo dell'Abate di Mommagiore. La recuperata libertà finì in mano di Braccio Fortebraccio da Montone, cui papa Martino V cede nominalmente la città "in benemerenza de'servigi prestati alla Chiesa a condizione che egli la sottomettesse colle armi proprie". Il che si verificò puntualmente. Alla morte del capitano di ventura la zona cade preda delle lotte intestine, le quali trasformano il governo municipale in una oligarchia che non riesce a schivare il braccio forte del papato: nel 1472 Sisto IV invia il nipote Giuliano della Rovere, futuro Giulio Il, a risolvere con un assedio le questioni interne a favore dei Giustini. La città dapprima resistette sotto la guida di Niccolò Vitelli, che aveva apprestato un imponente sistema di fortificazioni; le trattative seguite alla capitolazione non riuscirono ad evitare la temuta costruzione di nuove rocche simili al Càssero, che servissero a consolidare il potere del Legato pontificio nella città. Il governo papale fu tuttavia allontanato di nuovo dallo stesso Niccolò "padre della patria" che, rientrato nel 1482, demolì la nuova rocca di porta S. Maria, per costruire con le macerie la chiesa di S. Maria Maggiore e lasciò alla sua morte il potere ai figli Paolo e Vitellozzo Vitelli.

Sono i secoli dello splendore della Valle: l'agglomerato urbano aggiunge alle sue torri il Palazzo del Podestà e il Palazzo dei Priori e viene suddiviso in rioni denominati dalle quattro porte principali, con a capo un Gonfaloniere e un corpo di guardia di difesa. Nel contado il superamento dell'economia curtense nei nuovi rapporti di produzione basati essenzialmente sulla mezzadria fa sorgere accanto ai centri di vita aggregata le case isolate dei mezzadri, tipiche, insieme alle residenze Padronali, del paesaggio umbro e toscano. L'habitat intorno al Tevere, che costituisce una fonte di ricchezza per la Valle sia a livello di scambi commerciali che per la pesca, si arricchisce di "sontuosissime fabbriche de'mulini posti nella riva di quà", che compensano le crisi economiche determinate dalle piene del fiume. Dell'edilizia privata dell'epoca, finanziata dall'arricchita classe degli artigiani ( falegnami, fabbri, vasai, scalpellini, calzolai, lanaioli, mulinari, orefici, fornaciai), poco resta, per le continue trasformazioni determinate soprattutto dalla frequenza di eventi sismici.

Il "flagello di terremoti violentissimi" funestò a più riprese l'Alto Tevere, l'emergenza segna una tregua delle lotte intestine e suggerisce un primo piano edilizio antisismico, che proibisce di riedificare tutte le parti sporgenti delle facciate delle case. Anche il Duomo, in corso di costruzione e lesionato dalle scosse, richiede una nuova "fabbrica", messa in atto nel 1492 e terminata nel 1529 "secondo un progetto unitario e grandioso" che sarà nuovamente messo in crisi dal terremoto del 1789.

Gli stessi secoli dell'autonomia comunale vedono sorgere, accanto all'ascesa degli ordini religiosi, le maggiori chiese, quali S. Francesco, S. Domenico, S. Maria Maggiore, la Madonna delle Grazie, in cui verrà collocata la Santa Immagine, assunta dai Tifernati quale emblema protettivo nei confronti delle emergenze ambientali, che, accanto ai terremoti, annoverano pestilenze e frequenti e rovinose piene del Tevere, come quella che nel 1557 distrusse il ponte, la chiesa di S. Cristoforo e l'habitat circostante, con 30 morti. Se le lotte tra Guelfi e Ghibellini nel XV secolo indeboliscono politicamente la zona, questa è quanto mai forte, invece, sul versante economico: tra le Università di Arti e Mestieri, quali Coltriciai, Sarti, Calzolai e Ciabattieri, Pellicciai, Guardaioli e Bambagiai, Cimatori, si segnala quella dei Lanaiali, che, assieme alla coltivazione del guado, determina un commercio che segnerà la fortuna della famiglia Vitelli, originariamente residente nel quartiere Mattonata. Proprio ai Vitelli si deve la splendida rifinitura urbanistica del XVI secolo: le residenze della signoria nella nuova "piazza di sopra", a S. Egidio, a S. Giacomo e alla Cannoniera segnalano la città come "luogo di molto piacere ... ornata di molte et infinite case et famiglie nobili di gran capitani et huomini da guerra, di infiniti litterati et valentissimi dottori", cui si appoggia la nascente arte della stampa.

In questo fermento che dà ossigeno a valori squisitamente rinascimentali i pericoli di una ingerenza esterna, soprattutto spagnola, sollecitano il potenziamento della cinta muraria, valida anche alla difesa dalle bande di briganti proliferate nelle campagne. Baluardo dell'indipendenza della zona era stato, nei secoli immediatamente precedenti, anche il fortilizio di S. Giustino, affacciato nella parte settentrionale della Valle particolarmente fortunata per bellezza e fertilità.

Collocato tra i due poli di Borgo Sansepolcro e di Città di Castello, l'antica Melisciano S. Giustino, già "castrum" in epoca romana, si trovava in una posizione strategica tanto appetibile quanto pericolosa per la propria autonomia, Già nel 1109 sulle colline prospicienti la Pieve sorgeva il Castello di Castiglione, su cui vantava diritto dì proprietà e patronato Federico I Barbarossa. Dopo la distruzione del Castello, alla fine del 1200 diviene fortilizio di difesa della vallata il palazzo dei Dotti, coinvolto nelle stesse vicende della limitrofa Città di Castello, e distrutto nella prima metà del 1400 dalle lotte tra i signori della Valle A fine secolo i magistrati tifernati decidono di ricostruire il fortilizio trasformandolo in fortezza. L'opera fu affidata al finanziamento di Niccolò Bufalini, ricco proprietario della zona nonché "magnificus" e influente cittadino tifernate, che, coinvolgendo nella realizzazione il Gherardi e il Vasari, mirò "a farne più un luogo ameno di villeggiatura che una roccaforte militare" quale appariva all'esterno. Fatto che invece di soddisfare i committenti tifernati, destò scontento e motivi di rivalità, acuiti per il caso-Fontecchio. L'antica sorgente termale, già nota in epoca romana per le sue virtù terapeutiche, fu presa in considerazione a fine '500 dal Governatore pontificio, il quale, dietro pressione dei castellani, decise di riattivare i bagni.

La famiglia Bufalini ne rivendicò la proprietà, trovando appoggio nella Curia romana. Il Governatore di Città di Castello e i Tifernati accusarono allora il Bufalini di prepotenza, con un memoriale in cui emerge l'astio della città fomentato dai Vitelli, che vedevano nei conti di S. Giustino dei probabili forti rivali e suggerivano addirittura di smantellare il Castello.

Comunque la giurisdizione sul Bagno di Fontecchio, sui lavori di spurgo delle acque e sul loro impiego terapeutico rimase al Comune di Città di Castello, che ne fece un soggiorno termale di àmpia rinomanza. Le rivalità e le polemiche fra Castello e S. Giustino si smorzano nei secoli successivi, quando entrambe finirono sotto lo Stato Pontificio. Ma l'inizio del XIX secolo S. Giustino divenne Comune della prefettura di Perugia sotto il cantone di Città di Castello, da cui fu successivamente separato nel 1815, all'epoca della ricostituzione della Repubblica di Cospaia, che vantava il primato della coltivazione del tabacco. Confine tra la Toscana e lo Stato Pontificio era "la dogana", lo stesso palazzo che tuttora segna il confine tra Umbria e Toscana e allora ricovero di contrabbandieri. Le vicende del Risorgimento legano ulteriormente S. Giustino a Città di Castello, occupate insieme dalle truppe di Manfrédo Fanti l'11 settembre 1860 e insieme annesse al Regno d'Italia.

Momento catalizzatore di entusiasmi e di confronto pacifico furono in questi secoli le "Solennità Floridiane", in cui convergevano rappresentanze e spettacoli di tutto l'Alto Tevere, e delegazioni delle città limitrofe e non, quali Arezzo, Anghiari, Pistoia, Perugia, Spello, Urbino, nonché di signori quali i Pietramala di Citerna, il conte di Poppi, il Malatesta di Pesaro e il Gonzaga di Mantova. La grande risonanza delle feste, tenute "ad onore dei Santi Protettori Florido Vescovo ed Amanzio Diacono li XXII agosto anniversario della consagrazione della Chiesa Cattedrale a Loro Dedicata", determinò addirittura una normativa per gli appalti dell'allestimento. Le "dimostrazioni giolive", ovverossia Giostra e Quintana, gare dell'arco, della balestra e dell'asta, corse a piedi e a cavallo, ricostruzioni di battaglie con grande apparato scenografico e musicale, si svolgevano nella piazza maggiore, di fronte alla Cattedrale, e contribuirono a far definire i Tifernati e gli abitanti della Valle "gente ospitale e munifica". Ma in questo "luogo di molto piacere" le "molte inimicizie non quietate" si orientano nel XVI secolo a un esito definitivo nella pace imposta dall'egida del sovrano pontefice Messandro VI, chiamato dalle mosse incaute dell'ultimo Vitelli.

La fine delle fiere libertà comunali e dell'autonomia della signoria è segnata per Città di Castello dalla Strage di Senigallia: nel 1503 Cesare Borgia, il duca Valentino, uccide Vitellozzo Vitelli, colpevole di tradimento e di doppio gioco ordito alle sue spalle di alleato insieme a Oliverotto da Fermo. La città entra ufficialmente sotto il dominio pontificio: questo momento, che dura finò al 1798, determina nella zona un processo economico di ristagno e di parziale rifeudalizzazione, e caratterizza le vicende interne della città con i toni della politica post-tridentina, a cui si oppone il tentativo di autonomia culturale avanzato dall'Accademia degli Illuminati.

Alla fine del Rinascimento Città di Castello si presenta arroccata entro le sue mura, che l'avevano già vista come una delle "quattro città che sono in Italia le più armigere e le più marziali" e che vengono guarnite nella guerra dei papi con il duca Farnese del 1641 con i "belli rampari". A livello urbanistico la sovranità pontificia non determina trasformazioni di rilievo: si tende piuttosto a potenziare la città di elementi che sottolineino il clima della Controriforma (chiese, conventi, come quello delle Cappuccine, collegi), senza alterare la struttura tradizionale, cui si aggiungono le logge del palazzo del Podestà, dal quale viene ristrutturata la facciata sulla "piazza di sopra" con l'aggiunta dell'orologio e della campana. Vengono contemporaneamente ristrutturati gli edifici schierati lungo le vie di collegamento tra le porte della città, ai fini di uniformarne le facciate e di adeguarle al dilagante gusto barocco, che determina anche l'allestimento di "fabbriche" entro e fuori le principali chiese, per celebrare momenti tipici della religiosità post-tridentina, quali le vittorie contro i Turchi infedeli. Principale protagonista dei progressi urbanistici dell'epoca è l'architetto Nicola Barbioni, che progetta le logge del Podestà, la Chiesa di Belvedere, la Cupola del Duomo e la Cappella del SS. Sacramento, sempre nel Duomo, la cui facciata fu disegnata dal Lazzeri, come la scalinata, poi modificata dopo il terremoto del 1798, che distrusse anche la cupola.

Viene finanziato nel Seicento dalla cittadinanza il Collegio dei Gesuiti e completata la cappella della Madonna delle Grazie; furono edificati nel Settecento il palazzo Mancini, il Seminario Vescovile, gli Ospedali Uniti e completati il palazzo Bufalini, il Vescovato e il Collegio dei Gesuiti: trasformazioni che eliminano progressivamente i particolari tipici dell'assetto medioevale, di cui sopravvivono la Torre civica, il Campanile e pochi vicoli nei quartieri centrali.

La posizione geografica, periferica nei confronti di Roma, e di confine doganale con la Toscana, accentua nell'Alta Valle del Tevere lo stato di miseria economica e sociale comune a tutta l'Italia e particolare dello Stato Pontificio. Sono evidenti i segni di una diversificazione tra città e contado, tra un nucleo urbano in cui si investono capitali per aggiornare l'immagine già ricca dei ricordi rinascimentali, e una campagna in deplorevole stato, in cui si afferma una agricoltura con podere condotto a mezzadria. La produzione agricola è di stretta sussistenza, per cui l'alimentazione inadeguata e le condizioni igieniche deplorevoli diventano fonti di malattie croniche, quali la pellagra (il mais a volte costituiva più dei 4/5 del vitto dei contadini). Le limitazioni territoriali proprie della geomorfologia tifernate fanno individuare una ripartizione dei fondi agricoli secondo l'impiego del 40% a seminativo, del 30% a prati e pascoli, del 25% a boschi, il resto improduttivo. Nel Seicento vengono coltivati quasi esclusivamente mais, frumento e graminacee, aggiunti alla vite, ai pochi olivi, e al primo tabacco, mentre nel Settecento troviamo elencati, quali "raccolti di parte dominicale dei poderi degli Ospedali Uniti: grano, colbigia, collare, segale, fave, orzo, orzanella, veccia, mescolone, cecere, lenti, cecio, farro, miglio e panico, vena, granturco, fagioli, noci, castagne, lino, canapa, canapone, olive". La situazione economica è aggravata dal periodico riproporsi di carestie, pestilenze e terremoti, che indeboliscono la città al punto che se "nel l586 furono trovate nel contado 14.855 persone, nella città 6.350", nel 1656 il numero delle "anime" in città scende a 5.685, nel 1701 a 5.515 per raggiungere il minimo storico del 1736 con 4.391 abitanti entro le mura urbane.

A livello artigianale le cronache citano la presenza di rappresentati di tutte le arti e mestieri, riuniti in Confraternite, non ditale peso, tuttavia, da costituire vere industrie a conduzione familiare. Un posto particolare occupano la tessitura della lana e la tessitura e tintura dei panni, che però decade per la scarsa cura in cui lo Stato Pontificio tiene l'economia della città. La progressiva chiusura degli scambi commerciali con l'esterno dettata dalla politica pontificia, che contemporaneamente potenzia fiere e mercati interni, vede Città di Castello penalizzata: esclusa dalle principali vie di comunicazione, anche se tappa obbligata della Valtiberina e confine naturale fra più regioni, e aggravata proprio per questo dai dazi e dalle gabelle di entrata e di uscita, e perciò isolata e chiusa ai vantaggi economici e. commerciali, per quanto l'elenco delle svariate monete in circolazione (baiocco, crazia, dobla, doblone, gliarmina, grosso, leornina, lira, paolo, piastra, quattrino, scudo, soldo, tallero) sia indizio di uno scambio monetario consistente. La Fiera più antica è quella di San Bartolomeo, istituita nel 1571 e stabilita dagli Statuti Cittadini insieme alle feste in onore dei Santi Protettori Florido e Amanzio. Le tradizionali "Solennità Floridiane" del 22 e 24 agosto furono surclassate dal 1666 dalle rappresentazioni teatrali degli Illuminati, che misero fine a feste, giochi e giostre e tornei, che "si celebrano con gran pompa" e concorso popolare nella piazza del Magistrato sotto il presidio di una "guardia della fiera" con relativo Capitano e Maestro di Campo. Grande concorso popolare registrano altre tradizioni legate alla religiosità, quali la periodica uscita in processione della Santa Immagine della Madonna delle Grazie, che segna anche i momenti critici dell'emergenza ambientale, quali terremoti, carestie, siccità, pesti, alluvioni.

Se lo scenario del Seicento fu dominato dalla peste (la minaccia si presentò molto concretamente nella Valtiberina nel 1629, 1633, 1680 e 1691) il Settecento venne funestato da terremoti assillanti, che ebbero un culmine tragico nel sisma del 30 settembre 1789, causa in città e nel contado dii 10 morti, nonché della rovina di gran parte del patrimonio artistico tifernate: in questa occasione la pietà popolare assunse come protettrice dai terremoti la cappuccina Veronica Giuliani, vissuta tra i due secoli e futura patrona della città. L'emergenza ambientale fu segnata anche dalle frequenti piene del Tevere (devastanti negli anni 1627, 1667, 1758) che, assieme ai terremoti, determinarono notevoli trasformazioni del territorio. In particolare, furono sollecitati dai sismi fenomeni secondari di carattere termale, che saranno più evidenti in occasione della scossa del 18 dicembre 1897, quando si verificò anche "un mutamento nel campo visuale di Città di Castello", secondo il geologo A. Issel, inviato su sollecitazione del re dalla "Società Ligustica di Scienze Naturali e Geografiche" per compiere un sopralluogo di carattere scientifico sulla zona, nota per la sua sismicità. Issel osservò che, mentre agli inizi dell'Ottocento il convento di Buon Riposo non si poteva vedere dalla via di circonvallazione "a causa di una collina interposta, la quale ha nome Teverana; ora, invece, mentre questa non subì cambiamento alcuno per mano dell'uomo, il convento è dagli stessi punti in gran parte visibile", concludendo che l'abbassamento, piuttosto che a bradisismo, sembrava dovuto al "lento scivolamento di una fascia argillosa" sollecitata dal ripetersi dei terremoti.

Fra le trasformazioni ambientali dell'Alta Valle del Tevere va segnalata, in pieno Seicento, quella della collina di Belvedere: trasformazione di natura prevalentemente umana, determinata dalla simbiosi tra politica controriformistica e pietà popolare. Dopo il rifacimento della vecchia mulattiera di collegamento tra Bocca Serriola e il Ducato di Urbino, il Visitatore Apostolico e il Governatore Pontificio suggerirono di ravvivare l'antico culto della Madonna di Caprano e di costruire un santuario, finanziato dalla cittadinanza, del cui progetto furono incaricati gli architetti Barbioni e Gabrielli. La collina divenne prima un cantiere che vide la nascita del santuario di Santa Maria di Belvedere, "solennemente dedicato con straordinario concorso di popolo il 10settembre 1683, primo anniversario della strepitosa vittoria dei Cristiani sull'esercito Turco". La grandiosa manifestazione cui parteciparono, nonostante la pioggia battente, circa ventimila persone provenienti dalla Valle e dalle zone limitrofe, fu aperta, "nell'ora esatta in cui i Turchi furono debellati e vinti", dallo "sfilamento" degli innumerevoli stendardi di confraternite e famiglie religiose, seguiti da Vescovo, Gonfalonieri, Priori e Magistrati, che affidarono il santuario alla cura di un abate-parroco coadiuvato da cappellani con obbligo di residenza nel complesso edilizio. La collina, famosa in tutto lo Stato Pontificio, divenne meta di pellegrinaggi e oggetto delle cure dei Tifernati, che la rimboschirono progressivamente fino a farle assumere l'aspetto che la rende elemento tipico del paesaggio altotiberino.

Di particolare importanza per l'ambiente umano fu la costruzione a fine Settecento degli Ospedali Uniti, che sostituirono la pletora di opere pie ed enti assistenziali cui era affidata una inadeguata assistenza sanitaria. Inaugurati nel 1783, furono l'ultima opera sollecitata dalla già pigra amministrazione pontificia, prima dell'invasione francese del 1798, che vide gli incauti tifernatì regalare lo Sposalizio della Vergine di Raffaello al comandante della legione bresciana occupante. Le forze clericali e aristocratiche si affrettarono a fomentare una rivolta popolare, che si avvalse anche di rinforzi aretini e borghesi e divampò il 16 aprile al grido di "Viva Maria". Nel giugno 1799, cancellata la Repubblica Cisalpina, Città di Castello fu occupata dalle truppe austro-aretine, che ristabilirono il governo pontificio con il Gonfaloniere e i Consigli dei Cento e dei Trenta. Nel 1809 l'ordinamento dello Stato Pontificio viene modificato secondo il modello francese e permane fino al compimento dell'Unità d'Italia, che vede Città di Castello e l'Alto Tevere occupati dalle truppe del generale Fanti e annessi al Regno d'Italia sotto la monarchia Sabauda a seguito di votazione plebiscitaria nel novembre 1860.

Fra le leggendarie figure di briganti che popolano i ricordi della Valle emergono, a fine Settecento, quelle del "Broncolo" e del "Cappel Verde". Quando ai tempi della Repubblica Romana fu innalzato nella piazza Sorbello di Fratta l'"albero della libertà", fu l'umbertidese Broncolo ad istigarne l'abbattimento ai contadini rivoltosi, che poi si diressero, al suo seguito, verso Città di Castello per ricongiungersi con la banda del terribile bandito e assassino tifernate Cappel Verde.

Da sempre punto di riferimento fondamentale per l'Alto Tevere Umbro, l'odierna Umbertide ha origini poco precise. Forse fondata dai Romani scampati nel 217 a.C. alla battaglia del Trasimeno, forse edificata dagli Umbri autoctoni, forse nata intorno ai resti di un antico edificio di culto, detta prima "Pitulum" e quindi "Fratta" perché distrutta dai Goti, fu ricostruita nell' VIII secolo dai figli di Umberto Ranieri, oppure, secondo un'altra ipotesi, nel IX dai figli di Umberto, figlio naturale del re d'Italia Ugo di Provenza, come ampliamento del sistema difensivo costituito dal Castello e dalla Torre dì Santa Giuliana. La complessità delle ipotesi serve a spiegare la toponomastica della zona, per quanto soggetta a varianti nella storia. Sottomessa a Perugia nel 1189, e assoggettata quindi dallo Stato Pontificio, Fratta fu "regalata" dai papi ai figli del tifernate Niccolò Vitelli per benefici offerti alla Chiesa, per ritornare in breve, su revoca pontificia, a Perugia. Già nel XIV secolo, dopo la riconquista della zona ad opera del Baglioni, i Perugini avevano fortificato Fratta con la Rocca, i cui lavori erano stati affidati ad Angelo di Cecco detto "Trocascio". Caratteristica ambientale della zona, che si avvaleva di una economia su base agricola, di cui caratteristica erano isolamento e protezione doganale, fu il ripetersi delle piene del Tevere L'importanza del rapporto con il fiume è segnato dalla presenza del ponte nello stemma cittadino, in cui le lettere FOV siglano "Fracta Oppidum Umberti (Uberti o Ubertorum)" fino al XVII secolo, quando "per solenne voto in pubblica calamità le iniziali FOV si convertirono in Fracta Oppidum Virginis". Nel 1799, al crollo delle Repubbliche, Fratta seguì gli stessi avvenimenti di Città di Castello, fino all'annessione al Regno d'Italia. Per evitare confusione con altri paesi italiani denominati Fratta, si decise quindi, nel 1863, di denominare il paese "Umbertide", sia per ricordare i riedificatori di Fratta, sia in omaggio al principe Umberto figlio del re Vittorio Emanuele II.

Il XIX secolo è segnato, soprattutto nella prima metà, dall'arretratezza del contesto economico della Valtiberina; arretratezza ereditata, in cui si cominciano tuttavia a delineare i vantaggi della nuova coltura che arricchirà la zona, ad essa favorevole per clima e fertilità: il tabacco. Già appannaggio della limitrofa S. Giustino, e in particolare di Cospaia, la coltivazione del tabacco fu concessa nel territorio tifernate a partire dall'868, a livello sperimentale prima, sistematicamente poi grazie all'impulso di proprietari come i Franchetti e, all'inizio del Novecento, del consorzio F.A.T. La zona si caratterizza, fino a Umbertide, anche per la coltivazione dei bozzoli e per l'industria serica, nonché per i prodotti del bosco, per quanto il disboscamento selvaggio delle vallate degli affluenti del Tevere e la relativa incuria secolare impoverissero già notevolmente l'agricoltura e la pastorizia.

E' anche l'epoca della costruzione della nuova strada di Bocca Trabaria, attraverso cui giunse agli umbri dalla Romagna l'istigazione alla rivolta contro lo Stato Pontificio: il progetto, che avrebbe lasciato fuori Città di Castello dalla nuova via di comunicazione, fece nascere molte polemiche e prese il via nel 1830, nonostante le petizioni dei Tifernati, che cominciavano a pagare con l'isolamento i loro tentativi di indipendenza. Nonostante la successiva costruzione della linea ferroviaria Arezzo-Fossato, iniziata nel 1883, il problema dell'isolamento dell'Alta Valtiberina non fu risolto, vista la mancanza di un effettivo collegamento agile con Perugia, raggiungibile solo per via diligenza. Ad aprire in parte l'orizzonte della zona fu il decollo dell'industria tipografica, già forte alle soglie del nuovo secolo.

Nel 1878 la Lapi-Raschi Editori pubblica una "Guida Storico-Artistica di Città di Castello" opera di Eugenio Mannucci, da cui si possono desumere dati particolarmente significativi per la loro immediatezza relativi all'ambiente tifernate di fine secolo. Città di Castello, dice il Mannucci, fa parte del Circondano di Perugia ed è capoluogo del Mandamento che comprende i tre Comuni di Città di Castello, S. Giustino e Citerna, e manda due deputati al Consiglio provinciale. E collegio elettorale politico comprendente anche il comune di Pietralunga del Mandamento di Umbertide, e parte del Mandamento di Gubbio.

Il Comune comprende i villaggi di Abbadia di Petroja, Antirata, Barzotti, Botina, Cerbara, Candeggio, Caspignano, Fraccano, Grumale, Lugnano, Lerchi, Morra, Mucignano, Petrelle, Piosina, Promano, Regnano, S. Biagio a Colle, S. Leo Bastia, S. Pietro a Monte, S. Secondo, S. Lucia, Scalocchio, Trestina. E sede di Pretura dipendente dalla Corte di Appello di Ancona, sezione di Perugia; ha ufficio demaniale, postale e telegrafico. "La popolazione del Comune è di n. 24.088 abitanti, di cui n. 12.207 maschi e 11.881 femmine, 13.490 celibi 7.888 conjugati; e 2710 vedovi; 24.079 cattolici e 9 acattolici: n. 4223 case e 5026 famiglie. La media annua dei nati è di 900; dei morti 800: dei matrimoni 150; degl'inscritti di Leva 280; degli emigrati 208; degli immigrati 467". Fra gli altri dati statistici, il Mannucci aggiunge che la citta ha 119 strade; 40 chiese, dopo la soppressione di altre 23; 2240 possidenti in terreni, di cui "hanno un maggiore estimo" i Bourbon del Monte, l'Ospedale, i Rondinelli-Vitelli; n. 10.732 capì vaccini, 15.886 suini, 53.434 fra pecore e capre, 1.422 muli e asini. L'istruzione pubblica, dì cui fruiscono circa 950 alunni maschi e 400 femmine, soppresso il locale Collegio dei Gesuiti, è affidata agli istituti regi e a oltre 20 scuole private annesse ai vari istituti di beneficenza, fra i quali "tiene il primo posto" l'istituto dei RR. Ospedali Uniti con annessi Brefotrofio, Orfanotrofio, l'istituto Muzi-Betti, seguito dal Ricovero di Mendicità, dall'Asilo d'Infanzia, dal Lascito Fuccioli, dall'Opera laica Segapeli e dall'antico Monte di Pietà. Fra le "istituzioni di pubblica utilità" il Mannucci segnala la Cassa de' Risparmi, istituita nel 1855, la Società Patriottica degli Operai, la Società di Mutua Beneficenza, la Società dei Volontari reduci dalle Patrie Battaglie, la Società del Bagno di Fontecchio, la Società Filodrammatica, il Circolo Tifernate. Avanza inoltre una prima analisi e classificazione del dialetto tifernate, particolare tra i dialetti umbri per l'inflessione dovuta al pluralismo etnico di base e alla posizione di confine della zona. Presenta le tre sorgenti di acque minerali, del Coppo, di Buon Riposo e di Fontecchio, in cui era stato appena inaug~ato il nuovo stabilimento, menziona il molino della Canonica, la Filanda Palazzeschi, il Lanificio Vincenti, le tipografie Lapi-Raschì e Donati, l'officina di macchine agricole Vincenti-Bendini e C., la manifattura dei Cappelli, e, soprattutto, ci informa che, in data 1878, "il servizio sanitario è affidato a n. 8 medici stipendiati dal Comune", in cui "le infermità prevalenti sono: affezioni reumatiche e malattie di petto per la città, e la pellagra per la campagna: vi si trovano n. 49 ciechi, n. 13 sordomuti, e n. 34 infermi di mente".

In questo clima di agraria semplicità, in cui splendori e miserie delle antiche lotte tra Guelfi e Ghibellini si perdono nella nebbia dei ricordi, l'antico "Castello di Felicità" si avvia, insieme alla Valtiberina, alle complesse vicende del XX secolo, quando diventerà "memoria" l'epoca in cui era possibile scrivere che "i poveri ascendono a 1.532".

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