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Ultimo aggiornamento: 31-12-06.

 

 

 

 

 

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L'ALTA VALLE DEL TEVERE NELL'ANTICHITA'.

 

Come nel resto d'Italia, anche nell'Alta Valle del Tevere il rapporto tra l'uomo e il paesaggio è sempre stato particolarmente continuo e intenso; di conseguenza una ricostruzione storica della vita che si è svolta nella vallata non può prescindere dalle testimonianze che il terreno stesso offre. L'indagine archeologica, che proprio da un'osservazione attenta della terra trae segni tangibili della civiltà passate, può dare anche qui i suoi contributi, consentendo di verificare quanto era noto soltanto dalle fonti o portando a vere e proprie scoperte: casi recenti sono ad esempio quelli relativi al santuario di Monte Acuto di Umbertide e alla proprietà in Tuscis di Plinio il Giovane nel comune di San Giustino Umbro.

I dati geografici, storici e archeologici suggeriscono che l'Alta Valtiberina già in tempi remoti dovette essere un luogo fertile, ideale per gli insediamenti stabili e le coltivazioni, strettamente legato al suo fiume e percorso da varie direttrici di traffico, specialmente in senso Nord-Est/Sud-Ovest. La presenza dell'uomo, nota sin dal paleolitico medio e inferiore, è attestata con frequenza dal neolitico, durante il quale le comunità umane abitavano non tanto nella pianura quanto soprattutto sui colli circostanti e lungo le vallate interne, formate dagli affluenti del Tevere. Pubblicata nel 1944, la notizia del ritrovamento a Città di Castello, sotto la chiesa di S. Francesco, di palafitte e fondi di capanne, ha condotto all'ipotesi di un primitivo insediamento palafitticolo nella zona, sul quale si sarebbe poi sviluppata la città. Del resto, la trattatistica locale conserva il ricordo del rinvenimento seicentesco di "puntoni d'abete e di un rozzo vaso di terracotta") nel corso di lavori urbani. Tuttavia, in mancanza di dati più precisi, al momento non è possibile giungere a conclusioni certe in proposito. Dal neolitico in avanti, l'insediamento nel territorio si fa sempre più sistematico e organizzato e trova nell'agricoltura e nell'allevamento transumante i principali mezzi di sostentamento.

Tra la fine dell'età del bronzo e gli inizi dell'età del ferro avvengono profondi sommovimenti; pressoché tutta l'Umbria conosce trasformazioni di grande importanza per i secoli successivi e assiste al progressivo stabilizzarsi di alcuni popoli in quelle che saranno poi le loro sedi storiche. Per la nostra vallata è il momento degli Etruschi e degli Umbri, che si stanziano rispettivamente a destra e a sinistra del Tevere.

Nel ricco panorama delle popolazioni italiche preromane, gli Umbri occupano un posto del tutto particolare, forse per il fascino che emana dalla nota definizione gens antiquissima Italiae, datane da Plinio il Vecchio (Nat hist., III,112). Se la bibliografia sugli Etruschi è, si può dire, sterminata, l'interesse per quest'altra. popolazione di origine indoeuropea è invece andato progressivamente aumentando durante il nostro secolo, fino a sfociare in intense ricerche condotte negli ultimi anni in molte zone dell' Italia centrale e in mostre come quella realizzata in Vaticano nel 1988 e riproposta poi in grandi città europee. Va delineandosi una fisionomia sempre più precisa e al tempo stesso articolata secondo le diverse realtà locali: abitanti di una larga regione che in epoca storica comprendeva te odierne Romagna, Umbria a sinistra del Tevere e Marche almeno fino al fiume Esino, popolo essenzialmente di pastori ma caratterizzato anche da una forte componente guerriera, gli Umbri percorsero le tappe di una profonda evoluzione che, pur diversa e apparentemente più lenta rispetto a quella dei vicini Etruschi, influì indubbiamente sullo sviluppo successivo del territorio.

Per il lungo periodo che va dal IX al VI o, in alcuni casi, al V sec. a.C., gli aspetti di questa civiltà si ricavano soprattutto dalle necropoli; mancano ancora veri e propri centri urbani, ma, a partire dal VII sec., frequente è la presenza di piccoli insediamenti a carattere sparso in zone piùo meno elevate ed interne; per motivi di difesa, la posizione preferita è quella di altura. Villaggi di capanne di questo tipo sono stati rinvenuti nell'Umbria centrale e meridionale. Anche l'Alta Valle Tiberina offre importanti testimonianze di tale fase storica, con i ritrovamenti di Trestina e Fabbrecce, località immediatamente a destra del Tevere, ne! comune di Città di Castello. Si tratta nel primo caso di un deposito di oggetti in bronzo e in ferro (elmi; protomi di grifo, di stambecco, di cervo; parti di un tripode, ecc.;) di varia provenienza; alcuni possono essere ricondotti ad ambiente greco-orientale. L'ipotesi più probabile è che essi siano giunti qui avendo come intermediaria, se non come centro di produzione, l'Etruria.

Materiali ugualmente notevoli sono stati scoperti a più riprese a Fabbrecce all'inizio del nostro secolo: una splendida ansa bronzea decorata pertinente al coperchio dì un vaso, probabilmente una situla, e un bronzetto raffigurante un Centauro furono raccolti casualmente, assieme ad altri reperti; venne poi scavata una tomba a fossa che presentava un ricco corredo funebre, comprendente tra l'altro resti di un carro da guerra, un elmo bronzeo a calotta composita, alcune armi, un lebete in bronzo frammentario, numerosi esemplari in ceramica.

L'origine dei reperti e le modalità del loro arrivo in questo angolo apparentemente appartato della valle sono varie, e mostrano che buona parte di essi è di importazione. Ad esempio, il lebete viene verosimilmente dall'attivo centro etrusco di Vetulonia, mentre l'elmo è di un tipo frequente nell'area medio-adriatica.

I rinvenimenti di entrambe le località testimoniano l'esistenza, per questa zona, di comunicazioni e di traffici sia con l'area etrusco-laziale che con quella adriatica. Nel VII sec. a.C., cioè, l'Alta Valle del Tevere non era una realtà isolata: ad Est, valichi appenninici facilmente guadagnabili la collegavano con le regioni adriatiche; a Ovest, l'Etruria costiera era raggiungibile grazie alla mediazione di centri più interni come Chiusi. Il tutto va collocato in un contesto più ampio, quello delle grandi direttrici di traffico, a scopo in primo luogo commerciale, tra l'Italia del Sud, l'Etruria meridionale, le regioni adriatiche e quelle padane, per giungere fino al centro Europa.

Successivamente, il territorio umbro continua a presentare un insediamento di tipo pagano-vicanico al meno fino alla fine del V o agli inizi dcl IV sec. a.C., quando un diffuso benessere e una nuova mentalità trovano espressione nella costruzione dei primi grandi centri urbani, dotati in genere di formidabili mura di difesa in opera quadrata o poligonale e organizzati secondo precisi schemi (cfr. Tavole Iguvine).

Fino ad allora, una funzione fondamentale di raccordo politico ed economico, oltre che religioso, è svolta dai santuari, che fra il VI e V sec. fioriscono in varie località; ad essi sono ricollegabili i numerosi bronzetti votivi rinvenuti in tutta l'Umbria, attraverso i quali soprattutto i ceti dominanti rappresentano se stessi in rapporto alla società e alle divinità. Oggetti di questo tipo provengono anche dai dintorni di Città di Castello, ma le notizie in proposito sono purtroppo assai lacunose.

A partire dalla fine del IV sec. a.C., sull'Umbria si proietta l'ombra della espansione romana che, per procedere verso il Nord della penisola, cerca il controllo delle aree centrali e in particolar modo della Valle del Tevere. Con un'ampia ed elastica (ma al tempo stesso assai decisa) politica di alleanze, Roma riesce ben presto a legare a sè città e larghi tratti del territorio: dai trattati stipulati con Camerìnum e Ocriculum si passa alla fondazione di colonie latine come Narnia (229 a.C.) e Spoletium (241 a.C.), alla concessione di cittadinanza senza diritto di voto, all'istituzione di prefetture e fora, alle distribuzioni a cittadini romani di parti dei terreni umbri confiscati.

Tutto ciò fa sì che, dopo la battaglia di Sentino (295 a.C.) che segna la sconfitta della resistenza antiromana (condotta da Sanniti, Galli, Etruschi e Umbri), gli abitanti dell'Umbria si mantengono sostanzialmente fedeli a Roma.

Rispetto ad altre zone della regione, la nostra appare piuttosto povera di notizie relativamente a questo periodo, ma forse ciò dipende anche dalla mancanza di ricerche sistematiche approfondite e dalla dispersione dei dati (ad esempio tra i collezionisti privati). Possiamo verosimilmente immaginare che anche qui, come altrove, gli insediamenti si spostino dai colli alla pianura, con preferenza per luoghi vicini a corsi d'acqua, e che gli abitati siano ancora in forma di villaggi; già meglio organizzato, forse, doveva essere quello corrispondente a Città di Castello, destinato a divenire tra il I sec. a.C. e il I sec. d. C. il centro urbano più importante dell'Alta Valtiberina. Località. gravitanti intorno a S. Giustino (Le Capanne, Passerina, Monte Giove) hanno restituito tombe con corredi funebri di produzione etrusca databili intorno al III sec. a.C.. E' stato giustamente notato che, di conseguenza, la divisione operata dal Tevere tra gli Etruschi e gli Umbri non doveva al momento essere troppo drastica secondo le necessità, il fiume poteva fungere non solo da linea di separazione, ma anche da punto di incontro, specialamente quando i due gruppi etnici si sentivano accomunati dal pericolo dell'invasione romana. Dalla stessa Città di Castello viene uno specchio etrusco di età ellenistica, ornato dalla rappresentazione di Ercole, Afrodite e Minerva,

Non sappiamo con precisione quale fu il ruolo del nostro territorio durante la guerra sociale, scoppiata tra 91 e 90 a C.,. ma è certo che, al suo termine, anche la città di Tifernum Tiberinum (Città di Castello),. nell'ambìto dell'estensione a tutta l'Italia del sistema municipale, ottenne la cittadinanza e divenne un municipium. La tribù cui venne ascritta fu la Clustumina, alla quale appartennero altre città umbre poste alla sinistra del Tevere. Un congruo numero di epigrafi (conservate per la maggior parte nel palazzo comunale) fornisce informazioni abbastanza dettagliate per l'età imperiale, durante la quale Tiferno fu incluso nella VI regio augustea; è nota l'iscrizione, ora scomparsa, posta a un C. Acìlìus Politicianus dai decuriones, dai seviri augustales e dalla plebs urbana di Tiferno. La menzione di questi tre ordini (nei quali solitamente si raccoglievano gli abitanti di un municipio) e delle cariche ricoperte dal personaggio mostra in questa città il funzionamento di un ordinamento municipale in piena regola, con le sue varie istituzioni. Una lapide marmorea rinvenuta a Fontecchio, a pochi chilometri da Città di Castello, ricorda che un Lucio Vennio Sabino e suo figlio Efficace donarono ai Tifernati Tiberini la fonte e il serbatoio dell'acqua dai propri confini fino all'acquedotto pubblico. E nello stesso luogo venne trovata una statua di marmo raffigurante una figura femminile in atto di versare acqua da un'anfora, oggi scomparsa: corre voce che sia stata venduta e che si trovi all'estero. In modo analogo le iscrizioni tramandano i nomi di altri personaggi che offrirono alla comunità delle opere pubbliche; la popolazione di Tiferno, dunque godette in età imperiale di una certa floridezza economica, almeno limitatamente agli strati sociali più elevati.

Il territorio di Tifernum Tlberinum (sulla cui esatta delimitazione ancora si discute) appare caratterizzato da insediamenti romani nella forma di ville rustiche, che cominciano a diffondersi dal I sec. a. C. Sono attestate sia ville medio-grandi, legate al sistema di produzioni schiavistico, sia altre di struttura più semplice, riferibili alla piccola proprietà terriera. Alcuni luoghi: Pitigliano, Celalba, Passerina, Panicale, Userna, Antirata, Villa Pozio, Fontecchio, ecc.. Parti di una vilIa, di notevoli dimensioni sono state rinvenute a Colle Plinio, nel comuni di S. Giustino; gli scavi hanno confermato trattarsi di proprietà legati alla celebre villa in Tuscis di Plinio il Giovane.

Il facoltoso uomo di lettere e politico vissuto tra il 62 e il 113 d. C. amico dell'imperatore Traiano, per il quale scrisse il noto "Panegirico", era titolare di ampie proprietà sparse in tutta la penisola. Tra queste, la preferita era proprio la villa in Tuscis: Io afferma lo stesso Plinio nel suo epistolario, ricordando altresì che essa si trovava nelle vicinanze di Tifernum Tiberinum, città di cui era patronus e nella quali aveva fatto edificare, e poi dedicato solennemente, un tempio ornato da statue.

L'intero epistolario pliniano e in particolare l'epistola sesta del libro, con l'estesa descrizione della villa in Tuscis, sono documenti d fondamentale importanza non solo per ciò che riguarda una ricostruzione storica del personaggio e della sua epoca, ma anche per uno studio delle grandi tematiche relative all'organizzazione agraria romana. Il modello che emerge dagli scritti di Plinio è quello di una proprietà che, pur mantenendo ancora caratteri tradizionali, tende sempre più verso il latifondo, e nella quale l'utilizzo di manodopera schiavile comincia a manifestare segni di crisi. La possibilità di confrontare i dati del testo letterario con quelli del terreno è, a questo punto, densa di promesse.

L'economia degli abitanti della valle altotiberina doveva basarsi essenzialmente su agricoltura e allevamento come fonti principali di sussistenza e di commercio, poi su attività collaterali come caccia e pesca. I dolci pendii collinari e la pianura venivano coltivati a cereali e a foraggio; notevole importanza aveva la viticultura, alla quale Plinio fa spesso riferimento, lamentando però vendemmie scarse.

Non mancava uno sfruttamento delle risorse naturali, in primo luogo del legname che, raccolto in gran quantità sui rilievi boscosi dell'Appennino, veniva poi affidato alla corrente del Tevere e inviato alla volta di Roma, dove veniva utilizzato, oltre che come combustibile, nel settore dell'edilizia e comunque nei più svariati cantieri. L'uso del Tevere come via di comunicazione e dì commercio era molto diffuso nell'antichità ed è attestato da varie fonti: Dionigi di Alicarnasso (III, 44, 1) dice il fiume navigabile fino alle sorgenti; Strabone (V, 2, 5) fa riferimento alla pratica dello spostamento di legname tramite fluitazione sul Tevere; Plinio il Giovane offre una breve ma vivida descrizione, quando afferma "quel fiume (il Tevere), che attraversa i campi, è navigabile e trasporta verso la città tutti i prodotti delle terre, almeno durante l'inverno e la primavera; calan le acque nell'estate e con l'alveo secco perde il titolo di gran fiume, riprendendolo in autunno". (Ep. V, 6; trad. L. Rusca). Il trasporto dì materiali pesanti era più agevole e veloce via acqua che via terra, quello di altri prodotti, più economico. Naturalmente era necessario fare attenzione alle condizioni stagionali del fiume e utilizzare mezzi di trasporto adatti: battelli piccoli e maneggevoli, zattere o direttamente legni. L'importanza del patrimonio boschivo e l'invio a Roma dei tronchi tramite il Tevere rimasero in vita anche nei secoli successivi, come ci ricorda il toponimo Massa Trabaria, designante la provincia pontificia istituita nel Medio Evo e racchiudente anche questa zona.

L'intervento romano nell'Alta Valle del Tevere ha lasciato un'impronta decisiva, specialmente nell'organizzazione degli spazi; tuttavia esso non si è posto in termini di rottura e di interruzione con la tradizione precedente, ma si è piuttosto inserito in una dimensione di continuità, cercando di adeguarsi alle condizioni ambientali ed innestando le innovazioni sul potenziale culturale preesistente. Il sistema di vita diffuso nel primo secolo dell'impero e agli inizi del secondo continua nelle sue linee generali anche in seguito, pur in presenza di modifiche di non lieve importanza da un punto di vista territoriale ed economico: la presenza di latifondi, accresciuta dal passaggio di vasti terreni al demanio imperiale, tra II e III sec. d.C. è ormai una realtà, e la pratica di attività agricole diviene sempre più difficoltosa a causa dei travagliati rapporti tra grandi e piccoli proprietari terrieri, coloni, manodopera servile. Il periodo tardo-antico assiste ad un progressivo restringimento degli orizzonti produttivi: disgregatosi il sistema della villa medio-grande a condizione schiavistica, l'agricoltura e l'allevamento vengono praticati sempre più all'interno di strutture più modeste, in funzione di un'economia di sussistenza e in minor misura per il commercio e l'esportazione a Roma, mentre larghi terreni restano incolti. La vita in città doveva mantenersi abbastanza tranquilla; nel III sec. a Tifernum Tiberinum c'erano ancora ceti sociali capaci di commissionare opere artistiche di buon livello come i due sarcofagi attualmente conservati alla Pinacoteca Comunale.

Inseguito alla riforma di Diocleziano (285-305 d.C.), Tiferno e il suo territorio furono inclusi nella provincia Tuscia et Umbria alle dipendenze del Vicarius urbis Romae e sotto la diretta amministrazione di funzionari (un consu1aris è attestato con sicurezza per questa provincia dal 370 d.C.). E' questo il momento del!a diffusione del cristianesimo, legata, secondo la tradizione, alla predicazione di personaggi divenuti poi, in molti casi, martiri e santi. La leggenda vuole che l'Alto Tevere abbia conosciuto l'evangelizzazione agli inizi del IV sec. ad opera di San Crescenziano, martirizzato nel luogo di Pieve de' Saddi, a Sud-Est di Città di Castello; tuttavia, la prima notizia certa sulla chiesa della città risale al V sec. e attesta non solo che la religione cristiana era ivi ampiamente praticata, ma anche che Tifernun Tiberinum era divenuto sede vescovile e centro di diocesi.

In base ai documenti noti, all'epoca delle invasioni barbariche, Tiferno e il suo territorio non dovettero essere coinvolti direttamente negli eventi bellici, ma con ogni probabilità ne subirono le conseguenze sul piano economico. Momento particolarmente drammatico fu quello della guerra gotica (535-553), che l'umbria visse in "prima persona" a causa detta sua posizione di passaggio e di collegamento, grazie alle vie Flaminia e Amerina, tra le due più importanti città d'Italia del periodo:

Roma e Ravenna. Mentre le fonti letterarie o tacciono o sono singolarmente povere di dati relativamente a questa zona, la tradizione parla di una distruzione di Tiferno ad opera dei Goti di Totila e di una successiva ricostruzione iniziata dal vescovo Florido, fatto in seguito, accanto a S. Amanzio, santo patrono della città. In assenza di elementi storicamente certi, si può comunque notare che, se non altro per la vicinanza a Perugia, in cui si combattè a lungo. L'Alta Valtiberina e i suoi centri si trovarono a fronteggiare almeno le gravi conseguenze della guerra. Popolazione decimata, città distrutte o spopolate, fuga verso le campagne peraltro ormai disordinate e preda di paludi e di febbri malariche, carestie, pestilenze: questo è il quadro desolante offerto dall'Umbria al termine della guerra gotica. Le precedenti istituzioni, gli ordinamenti sociali sono progressivamente decaduti, mentre crescente prestigio è stato acquisito dalle nuove figure dei vescovi, tenuti spesso in considerazione dagli stessi Goti. Su un piano urbanistico ciò si riflette nel superamento di vecchi tipi di edifici e nella realizzazione di nuove strutture, in primo luogo quelle legate al culto cristiano: è questo un mutamento tenuto ben presente al momento della ricostruzione o della ristrutturazione delle città.

Dopo un breve periodo di pace la Tuscia (così ormai si chiamava la provincia Tuscia et Umbria, comprendendo sotto un unico nome Toscana e Umbria) fu nuovamente travagliata da una guerra, quella tra Bizantini e Longobardi, che conobbe alterne vicende e durante la quale, analogamente a quanto accaduto in precedenza, si disputava aspramente il controllo delle città poste lungo le vie di collegamento tra Roma e il Nord d'Italia. Tiferno e il territorio circostante rimasero a lungo in mano ai Bizantini e vennero inclusi nella Regio Castellorum bizantina, sorta con scopi difensivi; l'antico nome di Tifernum Tiberinum venne mutato in quello suggestivo di Castrum Felicitatis.

Forse proprio durante il periodo degli scontri tra Goti e Bizantini o delle prime lotte fra questi e i Longobardi, venne seppellito presso il colle ove sorge il santuario di Canoscio (a circa 12 Km da Città di Castello) il famoso tesoro omonimo composto da molteplici oggetti d'argento di notevole interesse storico e artistico, ora custoditi nel Museo del Duomo di Città di Castello.

All'inizio dell'VIII secolo i Longobardi riuscirono a penetrare anche nell'Alta Valle del Tevere, conquistando Castrum Felicitatis; tracce della loro presenza sono state rinvenute nel territorio tra gli odierni comuni di Città di Castello e San Giustino.

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