L'ALTA VALLE DEL
TEVERE NELL'ANTICHITA'.
Come nel resto d'Italia, anche nell'Alta Valle
del Tevere il rapporto tra l'uomo e il paesaggio è sempre stato
particolarmente continuo e intenso; di conseguenza una ricostruzione
storica della vita che si è svolta nella vallata non può prescindere dalle
testimonianze che il terreno stesso offre. L'indagine archeologica, che
proprio da un'osservazione attenta della terra trae segni tangibili della
civiltà passate, può dare anche qui i suoi contributi, consentendo di
verificare quanto era noto soltanto dalle fonti o portando a vere e proprie
scoperte: casi recenti sono ad esempio quelli relativi al santuario di
Monte Acuto di Umbertide e alla proprietà in Tuscis di Plinio il
Giovane nel comune di San Giustino Umbro.
I dati geografici, storici e archeologici
suggeriscono che l'Alta Valtiberina già in tempi remoti dovette essere un
luogo fertile, ideale per gli insediamenti stabili e le coltivazioni,
strettamente legato al suo fiume e percorso da varie direttrici di
traffico, specialmente in senso Nord-Est/Sud-Ovest. La presenza dell'uomo,
nota sin dal paleolitico medio e inferiore, è attestata con frequenza dal
neolitico, durante il quale le comunità umane abitavano non tanto nella
pianura quanto soprattutto sui colli circostanti e lungo le vallate
interne, formate dagli affluenti del Tevere. Pubblicata nel 1944, la
notizia del ritrovamento a Città di Castello, sotto la chiesa di S.
Francesco, di palafitte e fondi di capanne, ha condotto all'ipotesi di un
primitivo insediamento palafitticolo nella zona, sul quale si sarebbe poi
sviluppata la città. Del resto, la trattatistica locale conserva il ricordo
del rinvenimento seicentesco di "puntoni d'abete e di un rozzo vaso di
terracotta") nel corso di lavori urbani. Tuttavia, in mancanza di dati
più precisi, al momento non è possibile giungere a conclusioni certe in
proposito. Dal neolitico in avanti, l'insediamento nel territorio si fa
sempre più sistematico e organizzato e trova nell'agricoltura e
nell'allevamento transumante i principali mezzi di sostentamento.
Tra la fine dell'età del bronzo e gli inizi dell'età
del ferro avvengono profondi sommovimenti; pressoché tutta l'Umbria conosce
trasformazioni di grande importanza per i secoli successivi e assiste al
progressivo stabilizzarsi di alcuni popoli in quelle che saranno poi le
loro sedi storiche. Per la nostra vallata è il momento degli Etruschi e
degli Umbri, che si stanziano rispettivamente a destra e a sinistra del
Tevere.
Nel ricco panorama delle popolazioni italiche
preromane, gli Umbri occupano un posto del tutto particolare, forse per il
fascino che emana dalla nota definizione gens antiquissima Italiae, datane
da Plinio il Vecchio (Nat hist., III,112). Se la bibliografia sugli
Etruschi è, si può dire, sterminata, l'interesse per quest'altra.
popolazione di origine indoeuropea è invece andato progressivamente
aumentando durante il nostro secolo, fino a sfociare in intense ricerche
condotte negli ultimi anni in molte zone dell' Italia centrale e in mostre
come quella realizzata in Vaticano nel 1988 e riproposta poi in grandi
città europee. Va delineandosi una fisionomia sempre più precisa e al tempo
stesso articolata secondo le diverse realtà locali: abitanti di una larga
regione che in epoca storica comprendeva te odierne Romagna, Umbria a
sinistra del Tevere e Marche almeno fino al fiume Esino, popolo
essenzialmente di pastori ma caratterizzato anche da una forte componente
guerriera, gli Umbri percorsero le tappe di una profonda evoluzione che,
pur diversa e apparentemente più lenta rispetto a quella dei vicini
Etruschi, influì indubbiamente sullo sviluppo successivo del territorio.
Per il lungo periodo che va dal IX al VI o, in
alcuni casi, al V sec. a.C., gli aspetti di questa civiltà si ricavano
soprattutto dalle necropoli; mancano ancora veri e propri centri urbani,
ma, a partire dal VII sec., frequente è la presenza di piccoli insediamenti
a carattere sparso in zone piùo meno elevate ed interne; per motivi di
difesa, la posizione preferita è quella di altura. Villaggi di capanne di
questo tipo sono stati rinvenuti nell'Umbria centrale e meridionale. Anche
l'Alta Valle Tiberina offre importanti testimonianze di tale fase storica,
con i ritrovamenti di Trestina e Fabbrecce, località immediatamente a
destra del Tevere, ne! comune di Città di Castello. Si tratta nel primo
caso di un deposito di oggetti in bronzo e in ferro (elmi; protomi di
grifo, di stambecco, di cervo; parti di un tripode, ecc.;) di varia
provenienza; alcuni possono essere ricondotti ad ambiente greco-orientale.
L'ipotesi più probabile è che essi siano giunti qui avendo come intermediaria,
se non come centro di produzione, l'Etruria.
Materiali ugualmente notevoli sono stati
scoperti a più riprese a Fabbrecce all'inizio del nostro secolo: una
splendida ansa bronzea decorata pertinente al coperchio dì un vaso,
probabilmente una situla, e un bronzetto raffigurante un Centauro furono
raccolti casualmente, assieme ad altri reperti; venne poi scavata una tomba
a fossa che presentava un ricco corredo funebre, comprendente tra l'altro
resti di un carro da guerra, un elmo bronzeo a calotta composita, alcune
armi, un lebete in bronzo frammentario, numerosi esemplari in ceramica.
L'origine dei reperti e le modalità del
loro arrivo in questo angolo apparentemente appartato della valle sono
varie, e mostrano che buona parte di essi è di importazione. Ad esempio, il
lebete viene verosimilmente dall'attivo centro etrusco di Vetulonia, mentre
l'elmo è di un tipo frequente nell'area medio-adriatica.
I rinvenimenti di entrambe le località
testimoniano l'esistenza, per questa zona, di comunicazioni e di traffici
sia con l'area etrusco-laziale che con quella adriatica. Nel VII sec. a.C.,
cioè, l'Alta Valle del Tevere non era una realtà isolata: ad Est, valichi
appenninici facilmente guadagnabili la collegavano con le regioni
adriatiche; a Ovest, l'Etruria costiera era raggiungibile grazie alla
mediazione di centri più interni come Chiusi. Il tutto va collocato in un
contesto più ampio, quello delle grandi direttrici di traffico, a scopo in
primo luogo commerciale, tra l'Italia del Sud, l'Etruria meridionale, le
regioni adriatiche e quelle padane, per giungere fino al centro Europa.
Successivamente, il territorio umbro continua
a presentare un insediamento di tipo pagano-vicanico al meno fino alla fine
del V o agli inizi dcl IV sec. a.C., quando un diffuso benessere e una
nuova mentalità trovano espressione nella costruzione dei primi grandi
centri urbani, dotati in genere di formidabili mura di difesa in opera
quadrata o poligonale e organizzati secondo precisi schemi (cfr. Tavole
Iguvine).
Fino ad allora, una funzione fondamentale di
raccordo politico ed economico, oltre che religioso, è svolta dai santuari,
che fra il VI e V sec. fioriscono in varie località; ad essi sono
ricollegabili i numerosi bronzetti votivi rinvenuti in tutta l'Umbria,
attraverso i quali soprattutto i ceti dominanti rappresentano se stessi in
rapporto alla società e alle divinità. Oggetti di questo tipo provengono
anche dai dintorni di Città di Castello, ma le notizie in proposito sono
purtroppo assai lacunose.
A partire dalla fine del IV sec. a.C.,
sull'Umbria si proietta l'ombra della espansione romana che, per procedere
verso il Nord della penisola, cerca il controllo delle aree centrali e in
particolar modo della Valle del Tevere. Con un'ampia ed elastica (ma al
tempo stesso assai decisa) politica di alleanze, Roma riesce ben presto a
legare a sè città e larghi tratti del territorio: dai trattati stipulati
con Camerìnum e Ocriculum si passa alla fondazione di colonie
latine come Narnia (229 a.C.) e Spoletium (241 a.C.), alla
concessione di cittadinanza senza diritto di voto, all'istituzione di
prefetture e fora, alle distribuzioni a cittadini romani di parti
dei terreni umbri confiscati.
Tutto ciò fa sì che, dopo la battaglia di
Sentino (295 a.C.) che segna la sconfitta della resistenza antiromana
(condotta da Sanniti, Galli, Etruschi e Umbri), gli abitanti dell'Umbria si
mantengono sostanzialmente fedeli a Roma.
Rispetto ad altre zone della regione, la
nostra appare piuttosto povera di notizie relativamente a questo periodo,
ma forse ciò dipende anche dalla mancanza di ricerche sistematiche
approfondite e dalla dispersione dei dati (ad esempio tra i collezionisti
privati). Possiamo verosimilmente immaginare che anche qui, come altrove,
gli insediamenti si spostino dai colli alla pianura, con preferenza per
luoghi vicini a corsi d'acqua, e che gli abitati siano ancora in forma di
villaggi; già meglio organizzato, forse, doveva essere quello
corrispondente a Città di Castello, destinato a divenire tra il I sec. a.C.
e il I sec. d. C. il centro urbano più importante dell'Alta Valtiberina.
Località. gravitanti intorno a S. Giustino (Le Capanne, Passerina, Monte
Giove) hanno restituito tombe con corredi funebri di produzione etrusca
databili intorno al III sec. a.C.. E' stato giustamente notato che, di
conseguenza, la divisione operata dal Tevere tra gli Etruschi e gli Umbri
non doveva al momento essere troppo drastica secondo le necessità, il fiume
poteva fungere non solo da linea di separazione, ma anche da punto di
incontro, specialamente quando i due gruppi etnici si sentivano accomunati
dal pericolo dell'invasione romana. Dalla stessa Città di Castello viene
uno specchio etrusco di età ellenistica, ornato dalla rappresentazione di
Ercole, Afrodite e Minerva,
Non sappiamo con precisione quale fu il ruolo
del nostro territorio durante la guerra sociale, scoppiata tra 91 e 90 a
C.,. ma è certo che, al suo termine, anche la città di Tifernum
Tiberinum (Città di Castello),. nell'ambìto dell'estensione a tutta
l'Italia del sistema municipale, ottenne la cittadinanza e divenne un municipium.
La tribù cui venne ascritta fu la Clustumina, alla quale
appartennero altre città umbre poste alla sinistra del Tevere. Un congruo
numero di epigrafi (conservate per la maggior parte nel palazzo comunale)
fornisce informazioni abbastanza dettagliate per l'età imperiale, durante
la quale Tiferno fu incluso nella VI regio augustea; è nota l'iscrizione,
ora scomparsa, posta a un C. Acìlìus Politicianus dai decuriones,
dai seviri augustales e dalla plebs urbana di Tiferno. La
menzione di questi tre ordini (nei quali solitamente si raccoglievano gli
abitanti di un municipio) e delle cariche ricoperte dal personaggio mostra
in questa città il funzionamento di un ordinamento municipale in piena
regola, con le sue varie istituzioni. Una lapide marmorea rinvenuta a
Fontecchio, a pochi chilometri da Città di Castello, ricorda che un Lucio
Vennio Sabino e suo figlio Efficace donarono ai Tifernati Tiberini la fonte
e il serbatoio dell'acqua dai propri confini fino all'acquedotto pubblico.
E nello stesso luogo venne trovata una statua di marmo raffigurante una
figura femminile in atto di versare acqua da un'anfora, oggi scomparsa:
corre voce che sia stata venduta e che si trovi all'estero. In modo analogo
le iscrizioni tramandano i nomi di altri personaggi che offrirono alla
comunità delle opere pubbliche; la popolazione di Tiferno, dunque godette
in età imperiale di una certa floridezza economica, almeno limitatamente
agli strati sociali più elevati.
Il territorio di Tifernum Tlberinum (sulla
cui esatta delimitazione ancora si discute) appare caratterizzato da
insediamenti romani nella forma di ville rustiche, che cominciano a
diffondersi dal I sec. a. C. Sono attestate sia ville medio-grandi, legate
al sistema di produzioni schiavistico, sia altre di struttura più semplice,
riferibili alla piccola proprietà terriera. Alcuni luoghi: Pitigliano,
Celalba, Passerina, Panicale, Userna, Antirata, Villa Pozio, Fontecchio,
ecc.. Parti di una vilIa, di notevoli dimensioni sono state rinvenute a
Colle Plinio, nel comuni di S. Giustino; gli scavi hanno confermato trattarsi
di proprietà legati alla celebre villa in Tuscis di Plinio il
Giovane.
Il facoltoso uomo di lettere e politico
vissuto tra il 62 e il 113 d. C. amico dell'imperatore Traiano, per il
quale scrisse il noto "Panegirico", era titolare di ampie
proprietà sparse in tutta la penisola. Tra queste, la preferita era proprio
la villa in Tuscis: Io afferma lo stesso Plinio nel suo epistolario,
ricordando altresì che essa si trovava nelle vicinanze di Tifernum
Tiberinum, città di cui era patronus e nella quali aveva fatto
edificare, e poi dedicato solennemente, un tempio ornato da statue.
L'intero epistolario pliniano e in particolare
l'epistola sesta del libro, con l'estesa descrizione della villa in
Tuscis, sono documenti d fondamentale importanza non solo per ciò che
riguarda una ricostruzione storica del personaggio e della sua epoca, ma
anche per uno studio delle grandi tematiche relative all'organizzazione
agraria romana. Il modello che emerge dagli scritti di Plinio è quello di
una proprietà che, pur mantenendo ancora caratteri tradizionali, tende
sempre più verso il latifondo, e nella quale l'utilizzo di manodopera
schiavile comincia a manifestare segni di crisi. La possibilità di
confrontare i dati del testo letterario con quelli del terreno è, a questo
punto, densa di promesse.
L'economia degli abitanti della valle
altotiberina doveva basarsi essenzialmente su agricoltura e allevamento
come fonti principali di sussistenza e di commercio, poi su attività
collaterali come caccia e pesca. I dolci pendii collinari e la pianura
venivano coltivati a cereali e a foraggio; notevole importanza aveva la
viticultura, alla quale Plinio fa spesso riferimento, lamentando però
vendemmie scarse.
Non mancava uno sfruttamento delle risorse
naturali, in primo luogo del legname che, raccolto in gran quantità sui
rilievi boscosi dell'Appennino, veniva poi affidato alla corrente del
Tevere e inviato alla volta di Roma, dove veniva utilizzato, oltre che come
combustibile, nel settore dell'edilizia e comunque nei più svariati
cantieri. L'uso del Tevere come via di comunicazione e dì commercio era
molto diffuso nell'antichità ed è attestato da varie fonti: Dionigi di
Alicarnasso (III, 44, 1) dice il fiume navigabile fino alle sorgenti;
Strabone (V, 2, 5) fa riferimento alla pratica dello spostamento di legname
tramite fluitazione sul Tevere; Plinio il Giovane offre una breve ma vivida
descrizione, quando afferma "quel fiume (il Tevere), che attraversa i campi,
è navigabile e trasporta verso la città tutti i prodotti delle terre,
almeno durante l'inverno e la primavera; calan le acque nell'estate e con
l'alveo secco perde il titolo di gran fiume, riprendendolo in
autunno". (Ep. V, 6; trad. L. Rusca). Il trasporto dì materiali
pesanti era più agevole e veloce via acqua che via terra, quello di altri
prodotti, più economico. Naturalmente era necessario fare attenzione alle
condizioni stagionali del fiume e utilizzare mezzi di trasporto adatti:
battelli piccoli e maneggevoli, zattere o direttamente legni. L'importanza
del patrimonio boschivo e l'invio a Roma dei tronchi tramite il Tevere
rimasero in vita anche nei secoli successivi, come ci ricorda il toponimo
Massa Trabaria, designante la provincia pontificia istituita nel Medio Evo
e racchiudente anche questa zona.
L'intervento romano nell'Alta Valle del Tevere
ha lasciato un'impronta decisiva, specialmente nell'organizzazione degli
spazi; tuttavia esso non si è posto in termini di rottura e di interruzione
con la tradizione precedente, ma si è piuttosto inserito in una dimensione
di continuità, cercando di adeguarsi alle condizioni ambientali ed
innestando le innovazioni sul potenziale culturale preesistente. Il sistema
di vita diffuso nel primo secolo dell'impero e agli inizi del secondo
continua nelle sue linee generali anche in seguito, pur in presenza di
modifiche di non lieve importanza da un punto di vista territoriale ed
economico: la presenza di latifondi, accresciuta dal passaggio di vasti
terreni al demanio imperiale, tra II e III sec. d.C. è ormai una realtà, e
la pratica di attività agricole diviene sempre più difficoltosa a causa dei
travagliati rapporti tra grandi e piccoli proprietari terrieri, coloni, manodopera
servile. Il periodo tardo-antico assiste ad un progressivo restringimento
degli orizzonti produttivi: disgregatosi il sistema della villa
medio-grande a condizione schiavistica, l'agricoltura e l'allevamento
vengono praticati sempre più all'interno di strutture più modeste, in
funzione di un'economia di sussistenza e in minor misura per il commercio e
l'esportazione a Roma, mentre larghi terreni restano incolti. La vita in
città doveva mantenersi abbastanza tranquilla; nel III sec. a Tifernum
Tiberinum c'erano ancora ceti sociali capaci di commissionare opere
artistiche di buon livello come i due sarcofagi attualmente conservati alla
Pinacoteca Comunale.
Inseguito alla riforma di Diocleziano (285-305
d.C.), Tiferno e il suo territorio furono inclusi nella provincia Tuscia
et Umbria alle dipendenze del Vicarius urbis Romae e sotto la
diretta amministrazione di funzionari (un consu1aris è attestato con
sicurezza per questa provincia dal 370 d.C.). E' questo il momento del!a
diffusione del cristianesimo, legata, secondo la tradizione, alla predicazione
di personaggi divenuti poi, in molti casi, martiri e santi. La leggenda
vuole che l'Alto Tevere abbia conosciuto l'evangelizzazione agli inizi del
IV sec. ad opera di San Crescenziano, martirizzato nel luogo di Pieve de'
Saddi, a Sud-Est di Città di Castello; tuttavia, la prima notizia certa
sulla chiesa della città risale al V sec. e attesta non solo che la
religione cristiana era ivi ampiamente praticata, ma anche che Tifernun
Tiberinum era divenuto sede vescovile e centro di diocesi.
In base ai documenti noti, all'epoca delle
invasioni barbariche, Tiferno e il suo territorio non dovettero essere
coinvolti direttamente negli eventi bellici, ma con ogni probabilità ne
subirono le conseguenze sul piano economico. Momento particolarmente
drammatico fu quello della guerra gotica (535-553), che l'umbria visse in
"prima persona" a causa detta sua posizione di passaggio e di
collegamento, grazie alle vie Flaminia e Amerina, tra le due più importanti
città d'Italia del periodo:
Roma e Ravenna. Mentre le fonti letterarie o
tacciono o sono singolarmente povere di dati relativamente a questa zona,
la tradizione parla di una distruzione di Tiferno ad opera dei Goti di
Totila e di una successiva ricostruzione iniziata dal vescovo Florido,
fatto in seguito, accanto a S. Amanzio, santo patrono della città. In
assenza di elementi storicamente certi, si può comunque notare che, se non
altro per la vicinanza a Perugia, in cui si combattè a lungo. L'Alta
Valtiberina e i suoi centri si trovarono a fronteggiare almeno le gravi
conseguenze della guerra. Popolazione decimata, città distrutte o
spopolate, fuga verso le campagne peraltro ormai disordinate e preda di
paludi e di febbri malariche, carestie, pestilenze: questo è il quadro
desolante offerto dall'Umbria al termine della guerra gotica. Le precedenti
istituzioni, gli ordinamenti sociali sono progressivamente decaduti, mentre
crescente prestigio è stato acquisito dalle nuove figure dei vescovi,
tenuti spesso in considerazione dagli stessi Goti. Su un piano urbanistico ciò
si riflette nel superamento di vecchi tipi di edifici e nella realizzazione
di nuove strutture, in primo luogo quelle legate al culto cristiano: è
questo un mutamento tenuto ben presente al momento della ricostruzione o
della ristrutturazione delle città.
Dopo un breve periodo di pace la Tuscia (così
ormai si chiamava la provincia Tuscia et Umbria, comprendendo sotto
un unico nome Toscana e Umbria) fu nuovamente travagliata da una guerra,
quella tra Bizantini e Longobardi, che conobbe alterne vicende e durante la
quale, analogamente a quanto accaduto in precedenza, si disputava
aspramente il controllo delle città poste lungo le vie di collegamento tra
Roma e il Nord d'Italia. Tiferno e il territorio circostante rimasero a
lungo in mano ai Bizantini e vennero inclusi nella Regio Castellorum bizantina,
sorta con scopi difensivi; l'antico nome di Tifernum Tiberinum venne
mutato in quello suggestivo di Castrum Felicitatis.
Forse proprio durante il periodo degli scontri
tra Goti e Bizantini o delle prime lotte fra questi e i Longobardi, venne
seppellito presso il colle ove sorge il santuario di Canoscio (a circa 12 Km da Città di Castello)
il famoso tesoro omonimo composto da molteplici oggetti d'argento di
notevole interesse storico e artistico, ora custoditi nel Museo del Duomo
di Città di Castello.
All'inizio dell'VIII secolo i Longobardi
riuscirono a penetrare anche nell'Alta Valle del Tevere, conquistando Castrum
Felicitatis; tracce della loro presenza sono state rinvenute nel
territorio tra gli odierni comuni di Città di Castello e San Giustino.
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