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U RRE DI L'ASPRUMUNTI : PEPPI MUSULINU 

                                DI Maria Lombardo

 

 

 

 

Giuseppe Musolino, il brigante più famoso e più scaltro di tutti i tempi, colui che diede filo da torcere e che venne considerato terrore dei carabinieri per molti anni. Taglialegna, nato a Santo Stefano D'Aspromonte nel 1876 e morto a Reggio Calabria rinchiuso in  manicomio nel 1956, balzò agli onori della cronaca per aver subito un torto da parte dalla giustizia, per un fatto mai accaduto e condannato a circa 21 anni di carcere, per l'omicidio Zoccali compiuto da Giuseppe Traviani e confessato dal medesimo nel 1933. Una vita sui generis, quella di Peppino, fratello del già noto Stefano insurrezionale Mazziniano considerato leader,  che partecipò ai moti del'44, contro la Corona di Napoli ed infine lui Giuseppe il fratello ” mafioso”se così si può dire. Sebbene mai un problema in gioventù arrecò Peppinu alla famiglia, il 28 ottobre del 1897 nella consuetudine di una serata all'osteria del paese, scoppia una rissa per così dire “rusticana” e tutto per una partita di nocciole. Da un lato vi era Giuseppe e l'amico Antonio Filastrò e dall'altro i fratelli Zoccali. Tuttavia la disputa si placò la sera stessa, e Giuseppe tornò a casa, mentre la mattina seguente qualcuno sparò ad uno dei fratelli Zoccali nella sua  stalla facendo rinvenire “ a bbarritta” di Peppi Musulinu. Sparsa la voce dell'accaduto non resta che darsi alla macchia, la sua prima latitanza per un fatto mai commesso e condotto a Reggio per essere processato. Un 'iter lungo e difficile nel 1898 dopo una lunga serie di prove non smentite, falsate da Zoccali e Crea, gli viene imputata la pena di 21 anni di reclusione nel carcere di Gerace Marina (oggi Locri). Nello sconforto generale da parte del “brigante” e da chi aveva a cuore la sua libertà sono note le parole dello stesso che grida in sua difesa ed aggiungerei anche giustamente:” n'ebbiru allegrizza chiddu jornu (…) ma si pi casu allu paisi tornu chiddi occhi chi arridiru chiangirannu” ( hanno avuto allegria quel giorno (…) ma se per caso torno al paese gli occhi che hanno riso piangeranno). Peppino, medita una fuga magistrale dal carcere, e ci riesce nel 1899 una nuova latitanza (8 mesi), lo aspetta, ma stavolta con uno scopo preciso farsi giustizia da sé in questo intenso periodo commette ben 5 omicidi contro chi l'aveva accusato e dà alle fiamme la casa dei defunti fratelli Zoccali. Diviene in men che non si dica una leggenda, una vera primula rossa, passa alla storia appunto come: U 'RRE DI LL'ASPRUMUNTI. Gli anni di latitanza servono a Giuseppe a vendicarsi dei torti subiti, da parte di una giustizia farraginosa e sconfusionata, mantiene la promessa di vendicarsi contro le offese di Zoccali, e lo uccide. Protetto da  molti Calabresi che vedono in lui il simbolo del riscatto contro le ingiustizie vive tra i boschi dell' Aspromonte creando il suo quartier generale nei pressi di Africo, braccato dai Carabinieri e mai preso dimora perfino nei cimiteri. Lo Stato che non si dà pace, contro questa “scia di sangue” indice la caccia al brigante ponendo sulla sua testa la taglia di 5.000 lire (cospicuo bottino per quei tempi) ma mai utilizzata in quanto sfuggiva prodigiosamente agli intoppi fiutando il pericolo. Stanco di perseguire la via della macchia e consapevole di aver ripulito il suo onore per l'onta subita, il giovane brigante, nel 1901 decide di rivolgersi a Giolitti ed a Vittorio Emanuele III per ottenere la grazia, proprio come facevano i grandi capi Sioux. Uscito dalla sua Calabria attraversando l'appennino ad Aqualagna provincia di Pesaro Urbino per una svista viene catturato da due carabinieri che non erano affatto lì per lui. Peppino in preda al panico alla vista della divisa dei Carabinieri inizia a correre per un tratturo di campagna ed inciampando in un filo di ferro cadde, riconosciuto, viene ricondotto in treno a Catanzaro dove lo attende un nuovo processo famosa fu la frase del brigante che ripetè sul banco degli imputati:”chiddu chi non potti l'esercitu potti nu filu i ferru”( quello che non ha potuto l'esercito, ha potuto un filo di ferro). La sede geografica del nuovo processo fu Lucca, datato 14 aprile 1902, il brigante calabrese per l'ennesima volta non vuole accettare l'ennesima carcerazione e durante le fasi del processo chiede di non indossare il canonico abito da carcerato citando tali parole:” ho un abito da 16.000 lire al metro , io sono un uomo storico non un delinquente” ….questa cosa per l'ennesima volta gli procacciò l'ergastolo chi vuol capire capisca. Gli anni duri di carcere ingiustificato  inducono Peppino a “perdere il senno” se così vogliamo definire la sua ingiustificata devastazione psicologia che raggiunse l'acme proprio quando nel 1933 si scopre il vero omicida di Zoccali, che per giunta era emigrato in America. La pena carceraria non più sopportabile per le condizioni del brigante viene permutata al manicomio, dove Peppe premedita per ben due volte la fuga ma stavolta con scarsi risultati, ormai vecchio e malato. Con tali parole viene descritto nella cartella clinica dai luminari che lo seguirono il dott. Puca e Caschella che decretarono:”Incapace di conoscere i parenti (…) l'ex brigante mantiene intatta la memoria passata” ma aggiungono ancora negli incartamenti in merito i due luminari:” Peppino doveva fin da subito essere condotto in manicomio il torto subito dalla legge e dalla società rovinarono per sempre la sua stabilità psichica”. Si spense a Reggio di Calabria nel 1956, ancora oggi si ricorda la leggenda vivente, a passeggio per la città e scortato dai suoi infermieri quando la gente riconoscendolo fermava persino il traffico.

 

 

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