Clauco Benito Tiozzo

Pittore, titolare emerito della Cattedra di Pittura alla Accademia di Belle Arti di Venezia

 

Pittore controcorrente e, per tutta la vita, ha portato avanti un discorso di recupero dell’arte umanistica veneziana, riscoprendo e reinterpretando la "maniera" sì da renderla attuale; poiché non crede e non ho mai creduto nelle avanguardie portatrici di una cultura (o pseudo cultura) straniera, in quanto ritiene che la nostra tradizione veneta abbia ancora la possibilità di concedere una espressione poetica.

Brevi note biografiche da: "'900 all'Accademia, opere per il Nuovo Museo", catalogo della mostra alle Gallerie dell'Accademia di Belle Arti di Venezia sotto l'alto patrocinio del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Venezia 2000.

Frequenta l'Accademia di Belle Arti di Venezia studiando con Cesetti, in seguito è docente di Pittura all'Accademia veneziana.

Ottiene numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali citiamo: premio acquisto per la pittura assegnato dall'Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1959. Inoltre: 1965 - Premio a Monaco di Baviera / 1966 I° Premio Triveneto a Padova / 1971 I° Premio La cornice d’oro a Genova / 1971 - Viene nominato socio dell'Ateneo Veneto / 1971 - Premio Naz. Del Turing Club Italiano - Milano / 1972 - Premio Accademia Romana / 1976 - Premio Naz. Operosità nell'Arte, Roma / 1979 - Premio Naz. Italia Suggestiva, Milano / 1979 - Premio Int. Krakow (a Cracovia) / 1986 - Premio Naz. Italia suggestiva, Milano / 1986 - Premio Naz. Marine d’Autore, Milano / 1988 - I° Premio Tiepolo, Udine / 1996 - Premio Com. di Bertiolo / 1996 - Premio Arte, Belluno / 1988 - Premio Int. Il Marzocco, Firenze / 1988 - Premio Naz Catanzaro / 1988 - Premio Naz. Città di Arzignano / 1999 - Premio Int. Il Garda ed il Giubileo, Verona / 2000 - Premio invito, Maestri inizio terzo Millennio, Promotrice di BB. AA. Torino / 2000 - Premio Venezianità, Venezia.

Realizza diversi cicli di affreschi in chiese del Veneto, del Friuli e in Lombardia; sue opere sono conservate in Musei e Collezioni. Molti suoi dipinti si trovano in Coll. Straniere, in Germania, in U.S.A ed in Svizzera, si ricordano solo i seguenti.: Coll. Palazzi, a Tolland in America / Coll. Girard, Burtigny, Svizzera / Coll. Ledermann, Herzogenbuschee, Svizzera / Coll. Daelemans, Bruxelles, Belgio / Coll. Crant, Berna, Svizzera / Coll. Haiatullah, Lahore, Pakistan / Gall. Civica Milstad, Austria.

Di Tiozzo e della sua attività artistica si sono occupati, tra gli altri: V. Boccardì, G. Cadorin, L. Tito, G. Bordignon Favaro, Carlo Della Corte, Ugo Fasolo, E. Martini, S. Zanotto, M Valsecchi, Carlo Sgorlon, Sigfrido Bartolini. La RAI, nel 1985, gli ha dedicato un documentario dal titolo: "Clauco Beneito Tiozzo, pittore del Brenta".

Sue principali pubblicazioni:

"Guida all'arte figurativa" (Treviso, 1967), "Affreschi della Riviera del Brenta" (Padova, 1968), "I tempi che cambiano" (Venezia, 1969), "I ritmi compositivi nell ‘arte della figurazione" (Venezia, 1970), "Andrea Urbani pittore" (Padova, 1972), "Villa WidmannRezzonico" (Treviso, 1974), "Le Ville del Brenta" (Venezia, 1977), "L ‘arte antica ed il suo restauro" (Venezia, 1978), "Il Palladio e le Ville fluviali" (Venezia, 1981 )"La Riviera del Brenta con 20 lito" (Treviso, 1982), "Alessandro Milesi pittore" (Venezia, 1989), "Mirano e il suo territorio" (Venezia, 197 1/ 1998); in collab.: "La Riviera del Brenta" (Treviso, 1 968),"Palazzo Mingoni ad Agna" (Padova, 1983), "San Simon di Vallada" (Verona, 1989), "Sul fondo del Cassone", Loreggia, 1998, "Angelo Marinali scultore ", Loreggia, 1999, "Stampalia, l’isola dei veneti che parlano greco", Loreggia, 2000, "La pittura veneziana e la sua tecnica dalle origini al Novecento", Venezia, 2002, "Le Chiese della Centuriazione romana del Comune di Santa Maria di Sala", S. Maria di Sala, 2003.

 

Rassegna di alcune opere

 

Mauro Zavagno, voce, La pittura Nel Veneto: il Novecento: Dizionario degli artisti, Electa, Milano, 2010, pag. 447

Dopo aver conseguito la maturità artistica, frequenta l'Accademia di Venezia studiando con Cesetti e Arturo Martini. Insegna dapprima presso alcuni licei di Padova e Venezia, in seguito è docente di pittura all'Accademia veneziana. A Venezia espone con una certa continuità alla Bevilacqua e alla Galleria San Vidal e nel 1949 alla Galleria Vigo di Chioggia gli dedica la sua prima personale. Ottiene numerosi premi o riconoscimenti, tra i quali citiamo: premio acquisto per la pittura assegnato dall'Accademia di Belle Arti di Venezia, 1959; Premio a Monaco di Baviera, 1965; I Premio Triveneto a Padova, 1966; I Premio La cornice d'oro a Genova, 1971; I Premio Tiepolo, Udine, 1988; Premio invito, Maestri inizio terzo Millennio, Promotrice di BB.AA., Torino 2000; Premio Venezianità, Venezia 2000.

Pittore, scultore e incisore, mostra notevole conoscenza delle differenti tecniche pittoriche e molte sue opere, pervase di una luce diffusa, sono ispirate ai modi della grande tradizione veneta.

Realizza diversi cicli gli affreschi in chiese del Veneto, del Friuli e in Lombardia e tra i suoi ultimi lavori dopo il 2000 si ricorda il ciclo affrescato a Cesclans (Udine) nella Pieve di Santo Stefano, nonché i portali di bronzo per la chiesa di Mira e di Pieve di Santo Stefano.

Bibliografia: Bevilacqua 1958-1962; 1966 (p.); C.B.T, Treviso 1979; C.B. Tiozzo pittore, Venezia, Sant' Apollonia, 1993.

Mauro Zavagno, 2010

Egidio Martini, Mirano 1993

Vi sono pochi artisti oggi in Italia che sappiano realizzare opere ad affresco, tecni-ca questa assai difficile, specie se l'affresco è di notevoli dimensioni. Quasi tutti si limi-tano a dipingere piccole tele a olio e, se sono grandi, sono quasi sempre di natura non figurativa o astratta, talvolta con superfici tutte bianche macchiate solo da un puntino, oppure tutte nere senza neppure una macchia di colore (vedi Burri); opere che, secondo i loro autori, esprimono altissima carica poetica.

A impegnarsi in grandi raffigurazioni figurative ad affresco e spesso su soffitti vi sono attualmente nel Veneto pochi pittori. Fra questi un posto eminente occupa Clauco Benito Tiozzo, insieme ad Ernani Costantini (che però dipinge ad acrilico).

Tiozzo qui, sparse nel nostro territorio, ha realizzato molte delle sue accennate opere; opere concepite con un suo particolare stile; stile che, pur fedele a una sana tradizione pittorica veneta, si presenta attuale e nuovo e con un carattere del tutto originale. La sua pittura, infatti, basata, inoltre, su una rara conoscenza tecnica e su un'invidiabile facilità esecutiva, ha in sé il dono della serenità interiore, della luce e d'un colore splendido e gioioso. Lo dimostra bene l'Ultima Cena per la Scoletta di Mirano, uno dei suoi più recenti lavori ad affresco.

In questa ben equilibrata composizione notiamo per prima cosa un gran respiro spaziale, attuato con un fondo trasformato in un travolgente vortice luminoso, invenzione questa che innalza l'evento sacro a un alto grado di spiritualità, direi quasi metafisico. Se poi i vari elementi della figurazione, come la grande mensa, i gruppi degli apostoli e gli altri piccoli dettagli, tra cui i piatti sulla mensola a destra, hanno un dolce sapore di realtà quotidiana, il particolare, invece, con i due grandi angeli volanti, avvolti entro l'aria e la luce del cielo, è un'invenzione di grande fantasia e di straordinaria bellezza: esso ci ricorda gli angeli tra i bagliori e le nubi dipinti dal Tintoretto nella grande tela con l'Ultima Cena posta nell'abside della chiesa di San Giorgio in Isola di Venezia. Tale riferimento però ha solo un valore di coincidenza iconografica, poiché nell'affresco del Tiozzo la concezione pittorica è del tutto propria e personale, e di gusto totalmente moderno.

Egidio Martini, 1993

 

Paolo Rizzi, Clauco Benito Tiozzo, in "Clauco Benito Tiozzo", Canova, Treviso 1979.

L’impressione, una volta ancora, è la stessa. Esco dalla villa Querini, dove abita Clauco Benito Tiozzo, e passando in auto lungo la riviera del Brenta mi pare che il paesaggio si trasformi in pittura. Le tenere foglioline degli alberi (siamo in primavera) riverberano, quasi nella filigrana ottica, i tocchi fugaci del pennello, macchie verde-argento che si muovono ondeggiando. L’acqua del Brenta, riflettendo case e ville, si macula leggermente di quel velo che nell’affresco è quasi polvere colorata, indefinito color-luce. Pli avanti, la lunga villa che fa ansa mi pare uscita, con quel suo tono iridescente, dalla grana ronda che pervade quel certo quadro, quel certo paesaggio visto nella sala lunga della " scuderia "... La simbiosi tra natura e fantasia, tra realtà e pittura, diventa — già ebbi occasione di notarlo anni fa, in simile circostanza — aderenza profonda al mio ethnos di veneto. Come dire: riconosco all’improvviso, magari dal finestrino dell’auto che corre, i segni di una cultura che non è qualcosa di astratto, mera costruzione mentale, bensì un sentimento profondo, che ha radici biologiche nel sangue stesso. La rispondenza tra i quadri di Tiozzo, appena visti e goduti nella fresca quiete della villa cinquecentesca, e la natura che tutto attorno ammanta campagna e fiume e case e alberi, è qualcosa che colpisce: quasi la rivelazione di una "verità" che dalla natura passa alla storia. O meglio: alla nostra piccola cronaca di uomini che cercano di capire la storia. Tiozzo non a caso ha scelto di abitare qui, nello specchio limpido del Brenta, in una villa tra le ville. In un pittore d’oggi, 51 anni, occhio curioso, mente fervida, antichi sogni nella mente. Non si sente né alienato né frustrato; ma cova dentro una certa fierezza, ed anche un pizzico di lunga polemica. Dipinge in una maniera che pare provenire dal passato, tanta è la sapienza tecnica che la pervade. I critici, sorpresi e ammirati dal suo magistero di frescante, cercano indietro le matrici: nei paesaggi settencenteschi dipinti in villa, sui muri "sfondati" dall’illusione prospettica, squarci di luce e di colore veneziani. Colgono nel vero, si: ma poi, questi critici adusati a incasellane e catalogare, s’accorgono che il dolce velo antico è li, a due passi dalla dimora di Tiozzo. Appunto la natura del luogo: la sua mitezza gentile, la sua luce diffusa, i suoi chiaroni di ville e di fronde, i suoi specchi profondi di acque. Cosi, l’occhio dal passato si volge al presente: al presente cangiante di una natura che conosce le stagioni ma non, per fortuna, la fossilizzazione della storia.

Tiozzo è ben vivo tra noi, come i suoi quadri: ci offre la tazzina fumante di caffè nel salone protetto da grandi veli filtranti. Ci invita a sedere, a chiacchierare, a sfogliare un libro d’arte; o, magari, a fissare di fronte la grande allegoria di dame e di putti inventata (questa si tre secoli fa) da Giulio Carpioni. Sulla tovaglia ricamata di lino si posano i limpidi cristalli; fiorellini passiti galleggiano, leggeri, su una polla di vetro muranese. C’è il silenzio dei primi afroni primaverili. Allargo lo sguardo al di là della finestra, sulla campagna veneta che par sentire il pungente richiamo della nuova stagione. Verdi freschi, ombreggiature grigie e brune, odor di terra, improvvisi barbagli di luce. Capisco che la pittura di Tiozzo non nasce dall’artificio, ma s’appoggia alla storia soltanto perché ha capito — ha assaporato —la natura. La pittura come aderenza globale alla vita: pulsione esistenziale, sangue che preme dal di sotto, felicità di riflettere un mondo amato. Di là dalla villa ferma e squadrata brulica il senso di una vitalità naturale: basta coglierlo e riversano sulla superficie dipinta. Zampilli di colore, terre distillate con cura, morbide grane di un affresco che sfida il tempo.

Questa aderenza — umorale si, ma anche intellettuale — che Tiozzo ha con la sua terra veneta, non è un dono piovuto dall’alto. È una conquista. Di questo occorre rendersi conto. La cultura è anzitutto fatica, specie per chi, come Tiozzo, ha lavorato per decenni, tenacemente, alla ricerca di un qualcosa di "suo" che lo appagasse. Ora tutti gli danno ragione. Ma quante amarezze, quante battaglie! "Allora — ricorda Tiozzo sorseggiando il caffè nel salone — l’abilità era considerata un errore, quasi una peste. Occorreva esser moderni, e magari distruggere il vecchio per mirare al nuovo. Ma Arturo Martini, il mio maestro... ".

C’è chi dice che d’un artista "parlano" soltanto le opere: ad esse soltanto occorre guardare. Ma la storia della giovinezza di Tiozzo vale che sia raccontata, perché è emblematica di tutti gli ostacoli che un ragazzo innamorato della pittura dovette superare, negli anni del primo dopoguerra, per non venir preso dal vortice illusorio della moda. In realtà, già appena nato (l’episodio è divertente) Tiozzo fu sottoposto ad una sorta di "travisamento di identità". Suo padre decise di chiamarlo Clauco (in onore di un deputato antifascista aventiniano, Clauco Baroni). Era il 1928. L’impiegato dell’anagrafe si rifiutò e scrisse sul registro, per ripicca: Benito. Il parroco di Gambarare, frazione di Mira, dove il piccolo fu battezzato, non volle però né Clauco (che non era santo) né Benito (era un prete antifascista): gli impose il nome di Giovanni Battista. Fini che a casa lo chiamarono Clauco, a scuola Benito. Quando decise di sposarsi, apprese, con somma meraviglia, di chiamarsi... Giovanni Battista. E con quel nome furono celebrate le nozze.

Doveva essere un ragazzo abituato alle avversità fin da quando alle elementari era appassionato di disegno. L’altro episodio da raccontare è anch’esso singolare. Era una sera del settembre 1942, a Rosà, dove i Tiozzo erano andati ad abitare. Suo padre sapeva della passione del ragazzo ma, da bravo commerciante, vi si era sempre opposto (" I pittori — diceva — sono gente morta di fame "). Anche Arturo Martini era a Rosà. I due si conobbero all’osteria, fecero amicizia, bevettero un po’ troppo, si misero a cantare di notte per strada, finché giunsero a casa dei Tiozzo. "Io sono il direttore dell’Accademia di belle arti", disse Martini boniosamente, in preda all’alcool. "E io ho un ragazzo scemo per la pittura", gli rispose il compagno di bevuta. "Fammelo conoscere, questo ragazzo scemo...", insistette Martini. In breve, Clauco fu svegliato nel cuore della notte e fu invitato a mostrare i suoi disegni all’illustre scultore. Martini parve ridiventare lucido all’improvviso: scorse in silenzio i disegni del ragazzo, poi sedette e mirò fisso in volto il padre. "Questo ragazzo deve fare il liceo artistico. Mandamelo a Venezia. Pagherò io tutte le spese dei suoi studi".

Ben si capisce perché Tiozzo abbia oggi una autentica venerazione per Martini, suo benefattore. Tralascio le vicende, anche penose, che derivarono prima al Liceo artistico, poi all’Accademia, da questa predilezione dello scultore per il giovane di Gambarare. L’invidia, le manovre di tipo mafioso, le gelosie durarono a lungo, fino a tempi recenti. Tiozzo fu avversato soprattutto dopo la morte del "padrino" Martini (1947) cui i colleghi dell’Accademia non finirono mai di rimproverare il suo geniale, prepotente disordine, riversando le antipatie sull’allievo prediletto. Certo è che non poco del carattere di Martini passò, fors’anche per naturale transfert, in Tiozzo: soprattutto l’avversione ad ogni conformismo, ad ogni codificata maniera, ad ogni ordine imposto. La spinta ribellistica crebbe, maturò, esplose. Nel 1950 Tiozzo abbandonò gli studi e andò militare; quindi tornò all’Accademia.

Allora, a Venezia come in tutta Italia, era il momento della polemica tra astrattismo e realismo; si parlava di pittura europea; si irrideva chi rimaneva nell’alveo delle tradizioni. Santomaso e Vedova pontificavano; i Novati, i Mori, i Varagnolo erano messi da canto, come inutili. Tensioni accese, grosse ingiustizie. Pareva che un paraocchi impedisse il giusto contemperamento tra le esigenze sacrosante di rinnovamento e quelle, non meno sacrosante, di rispetto per la grande tradizione. In questa atmosfera che tendeva sempre più al terrorismo culturale, Tiozzo sembrava trovar nerbo per la sua feroce opposizione agli "ismi" di moda. Le frasi irridenti di Martini gli risuonavano ancora agli orecchi: era un incitamento continuo alla libertà, alla rottura degli schemi, alla ricerca di "ria" e "luce". Per l’opposizione dei nuovi maestri a dargli il diploma e quindi la cattedra (che poi conquistò, con clamoroso successo, al concorso del 1956) si mise a sfruttare la sua abilità "mostruosa" nelle copie di quadri antichi. Quali strade, del resto, si aprivano allora ad un giovane che aveva frequentato l’Accademia? L’insegnamento; la pittura; il restauro. Tiozzo le praticò tutte e tre, contemporaneamente.

Per dare un’idea della sua bravura, occorre citare due altri episodi. Quello anzitutto di De Logu: il quale, mentre stava scrivendo la sua monumentale opera sulla natura morta, chiese a Tiozzo di fargli delle imitazioni (o meglio, delle varianti) sui due pittori napoletani che lo studioso tanto amava, Recco e Ruoppolo. Riuscirono così bene, queste imitazioni, che De Logu le appese nel suo studio ("Non posso mica comprarmi degli originali, con il mio stipendio!") e amava esibirle furbescamente, in silenzio, ai colleghi critici che venivano a trovarlo: nessuno dei quali, manco a dirlo, si accorse del... trucco.

L’altro episodio: fu lo stesso soprintendente Moschini, d’accordo con l’allora patriarca Roncalli, a commissionare a Tiozzo una copia conforme dello "Sposalizio di Santa Caterina" del Veronese, che doveva essere trasferito, per ragioni di sicurezza dalla chiesa di Santa Caterina alle Gallerie dell’Accademia. Tiozzo esegui così bene la copia (non volle alcun compenso) che l’illustre commissione incaricata di darne il giudizio pare sia rimasta imbarazzata nel distinguerla dall’originale. La copia finì, al posto dell’originale, nella chiesa di Santa Caterina: fu distrutta recentemente da un disastroso incendio. Oggi Tiozzo se ne rammarica ma commenta: "Se non avessi eseguito quella copia, probabilmente sarebbe andato distrutto l’originale".

Il secondo versante del suo lavoro, in quegli anni Cinquanta cosi travagliati per la cultura artistica veneziana, fu il restauro. Tiozzo non ama molto parlarne, ma va pur detto che nel giro di alcuni anni egli divenne uno dei più apprezzati restauratori in Italia. Più volte le Soprintendenze gli affidarono lavori delicatissimi, anche su capolavori. Ad esempio, Tiozzo riuscì, da una tela del Settecento conservata nella chiesa di San Bortolomio a Venezia, a fare uno strappo di pittura in modo da conservare la pittura in superficie e, contemporaneamente, recuperare la sottostante ben più preziosa, cinquecentesca (Rottenhammer). Un’operazione che fece sensazione, allora: era la prima perfettamente riuscita. Il lavoro di restauro gli permise di entrare dentro, quasi, la tecnica e la poetica dei pittori del passato: una sorta di analisi introspettiva, che arrivava fino al nocciolo centrale, cioè al particolare ductus di ogni artista, alle sue peculiari modalità di esecuzione e di stile. Non soltanto la "mano" si esercitò, quindi, ma soprattutto l’"occhio": e l’"occhio" di Tiozzo è oggi uno dei più acuti in fatto di pittura antica, soprattutto veneta. Lo confermano alcuni suoi libri e scritti, nonché la stima che illustri studiosi gli hanno tributato (anche se mista talora ad amarezze comprensibili, per le lotte di gelosia che travagliano, come ben noto, l’ambiente accademico).

Ma l’amore — il vero e unico grande amore — era ed è per Tiozzo la pittura. Le imitazioni prima, il restauro poi, e per lunghi anni l’insegnamento (attualmente Tiozzo è titolare della cattedra di discipline pittoriche al Liceo artistico di Venezia e comandato alla Accademia di belle arti per l’insegnamento di tecnica del restauro) nonché gli studi e le pubblicazioni sull’arte antica veneta gli servirono e in parte gli servono ancora come propedeutica, o meglio come esercizio collaterale. Alla pittura Tiozzo ha dedicato, fin da ragazzo, le energie migliori. Ciò che fin già dall’inizio lo interessò era la tecnica. Alla pittura egli voleva avvicinarsi come ad un magistero, non da dilettante (come gran parte dei pittori). Ecco l’entusiasmo che egli ha sempre riversato per lo "specifico". L’olio lo apprese fin dai dodici-tredici anni dal pittore Dante Bizzotto; l’affresco, circa alla stessa età, dall’altro pittore Gigi Bizzotto (cugino di Dante); l’acquarello da Bruno Martini, intorno al 1943-44. Alla scultura si dedicò poco; ma Arturo Martini gli insegnò soprattutto la bellezza della materia, cioè il gusto per la qualità. Ricorda appunto Tiozzo: "Dalla materia pittorica Martini pretendeva la stessa sensazione tattile della creta. Diceva spesso: "Bello come materia". E da lui ho imparato appunto ad apprezzare il senso del colore come materia".

Certo è che la tecnica dell’affresco ha raggiunto in Tiozzo una delle più alte estrinsecazioni moderne. Quelli di Tiozzo non sono —occorre subito precisare — i consueti "murales" di impianto novecentesco in cui l’affresco serviva come supporto di grandi composizioni classiche a fondo celebrativo. Di questa parola magica — affresco — s’è abusato in Italia, a partire dagli anni Venti, soprattutto nell’ambito della riscoperta giottesca (inizio anni Venti), poi neoquattrocentesca e infine (anni Trenta) neo-cinquecentesca. S’è identificato l’affresco con l’ideale di una solarità italica. Ma soprattutto si sono fatti degli ibridi che con l’antico mestiere della pittura "a fresco" poco o nulla avevano a che vedere. Sabbia, malta, altri materiali granulosi, paste alte, grattamenti, croste: di quanti pseudo affreschi s’è nutrita (e non solo in epoca fascista) la "pittura ufficiale"! Tiozzo ha ripreso, senza mediazioni, la tecnica del Veronese.

L’ha studiata a fondo, soprattutto nelle sue modifiche tiepolesche, e l’ha applicata con uno scopo preciso: quello di ottenere dall’immagine una maggiore vibrazione luminosa.

Il colore viene disteso nello spessore secondo una precisa concezione luministica e quindi col valore materico di corpo cui l’artista mira. Nei punti luminosi (il sole su una casa o su un albero, il bagliore della piega d’una veste) cresce lo spessore della materia: e ciò si vede benissimo ponendo il dipinto sotto luce radente. Il procedimento è, in realtà, quello antico. Il pittore passa dalla tinta a corpo alle velature, alle mezze paste, poi nuovamente alla sovrapposizione di tinte a corpo: in questo modo l’effetto di luce viene raggiunto non solo per chiaroscuro, ma per corposità. Ad esempio, la luminosità di un cielo è ottenuta proprio attraverso un corpo più spesso, più alto, così come l’aggetto di un albero o di qualsiasi altro particolare.

È chiaro che l’affresco esige una fluidità, una rapidità di tocco, una decisione sempre pronta. Non sono ammessi indugi e pentimenti.

Ecco perché Tiozzo lavora a lungo, prima di passare all’affresco, su disegni e bozzetti preparatori. Di ogni affresco esiste almeno un corrispondente acquarello. Era così anche per gli antichi pittori: l’affresco e sempre stato inteso come la trasposizione in grande di una composizione-bozzetto. Si spiega in tal modo l’impressione di assoluta immediatezza e spontaneità anche dei grandi affreschi. L’affresco viene eseguito, come noto, "a giornata"; e soltanto nelle grandi composizioni le "giornate" sono più di una. Citiamo l’ultimo grande affresco (32 metri quadrati) nell’abside della chiesa parrocchiale di Mira Porte; o l’altro (22 metri quadrati) che decora il frontone della facciata della chiesa di Santo Stefano di Cadore; o la decorazione di una intera sala nel rustico di Villa Widmann-Costanzo a Riscossa di Mira, con cinque grandi riquadri figurativi. Sono imprese che dimostrano quanto importante sia la sicura compenetrazione nelle qualità intrinseche dell’affresco: cioè cosa significhi, anche per un artista d’oggi, il magistero tecnico. E non è forse inutile aggiungere che proprio la caduta degli sperimentalismi linguistici delle avanguardie storiche ha riportato oggi in auge, nell’arte anche cosiddetta impegnata, lo studio attento dei media, fino alle esercitazioni della cosiddetta "nuova pittura" (geplante Malerei, pittura pianificata, dicono i tedeschi) che è nient’altro che un ritorno all’abc della tecnica pittorica. Con una differenza: che mentre gli "sperimentali" elaborano fasce e fasce di stesure a variazioni tonali e materiche, Tiozzo porta avanti il discorso innestandolo in una dimensione rappresentativa che è ben superiore difficoltà tecnica.

Magistero pittorico, quindi. Il metro con cui va valutato Tiozzo è anche questo. Il suo arco di attività è ormai ampio (diciamo che parte dal 1943); la sua produzione ricchissima; le sue mostre cominciano dal 1949 (galleria Vigo, Chioggia). Naturalmente la produzione giovanile permane scolastica e quindi accademica; ma già dal 1954-‘55 essa s'innerva con decisione e dal 1959-60 assume i connotati della maturità. Abbracciando a volo d’uccello questa attività, si ha l’impressione di una straordinaria coerenza che nasce, appunto, dalla continua tensione di rinnovare dall’interno l’antico.

Tiozzo è un goloso di pittura, un insaziabile osservatore dei grandi esempi. Tutto gli serve, come esperienza, ma da ogni artista, da ogni epoca, da ogni maniera egli prende ciò che gli serve. E la prepotenza stessa dei veri artisti. Dal Tintoretto, ad esempio, Tiozzo coglie la grande lezione luministica, sfrangiature e bagliori di controluce, tocchi roridi e rugiadosi; da Tiziano (o meglio dall’ultimo Tiziano) deriva il gusto di una materia preziosa e sfatta, pregna di esistenziali pulsioni; al Veronese " ruba " la luminosità sgranata, quel colore che zampilla festoso e netto nei contrappunti e nei rapporti sinfonici; in Jacopo da Ponte (il Bassano) vede soprattutto la resa della vibrazione luminosa; da Tiepolo, naturalmente, attinge il chiarore solare dell’affresco come squarcio felicissimo di vita... Molto gli serve l’introspezione analitica della tecnica, come nelle citate Nozze mistiche di Santa Caterina del Veronese, la cui copia è stata considerata uno dei raggiungimenti più alti per compenetrazione globale dell’opera. Ma anche certe opere giovani (verso il 1955-56) che appaiono ben più disinvolte e quasi gestuali nelle stesure fluide e liquide (vedi Meditazione e il suggestivo Mistero della sera) rispondono allo stesso intento: a ben vedere, l’aria che vi circola, pur in un linguaggio assai disinvolto, è quella del Tintoretto e, magari, di certi settecentisti gestuali come Pellegrini.

È semmai la dimensione del bozzetto, o meglio dell’impromptu. che dà a Tiozzo la possibilità di liberarsi dal rigore accademico. Allora prevale il momento della sintesi, laddove il tentativo di serrare la composizione affronta i maggiori problemi: ad esempio nella Crocefissione del 1955, che nella sua modernissima libertà espressionistica cela la gran matrice tizianesca; oppure nella Deposizione di poco successiva (1956) in cui sbattimenti di luce e fumiganti bagliori rivelano un gusto secentesco del chiaroscuro. È proprio da questo fondo che direi quasi manierista (di illustri esempi della Maniera) che Tiozzo negli anni successivi tende a liberarsi, fino a puntare, agli inizi degli anni Sessanta, ad un color più chiaro e diffuso, brillante e sfrangiato, talora guizzante, che rientra categorialmente nel sentire settecentesco. Lo si vede chiaramente in certi dipinti intorno al 1962-‘63, ed in particolare nella pala d’altare trevigiana con San Pio X: è il cielo azzurro che scandisce i ritmi di luce dorata che sovrastano la composizione, fino a darci in filigrana il senso di una vitalità solare che definirei riccesca, e che comunque prelude — come in Sebastiano Ricci — al momento folgorante della gran luce settecentesca.

Non c’è da meravigliarsi per questi riferimenti storici: anzi, essi dimostrano quanto il discorso pittorico di Tiozzo abbia rifiutato il condizionamento della moda contemporanea (si pensi all’ondata dell’astratto-informale all’inizio degli anni Sessanta in Italia!) e abbia mirato ad una conquista del dato naturale dopo aver lungamente indugiato alla conquista del dato storico. Già Il giudizio di Paride (1965), pur nella tecnica prevalente del chiaroscuro, tende a farsi aria, luce, vibrazione di atmosfera. È comprensibile quindi la diversione, sempre più netta, dalla figura al paesaggio. La fase di passaggio — che in realtà dura tuttora — è data dal connubio, per un certo periodo prevalente, della figura (soprattutto mitologica) col paesaggio. Il gusto è, appunto, settecentesco. Il paesaggio si fa cascata di luce nel San Benedetto (1965); struttura di mobilissimi segni in controluce in Incidente sul lavoro (1963); umido e ombroso sfondo in Venere e Adone (1969); verzura formicolante di colori nel Buon samaritano (1964). Poi, pian piano, diventa protagonista.

Allora, soprattutto a partire dal 1965, nella serie stupenda degli affreschi che tuttora perdura, la natura va prendendo i connotati amicali del paesaggio quotidiano, le rive del Brenta, gli alberi amati, le apparizioni delle ville antiche sul fondo. La storia cede il passo alla natura. Cessano i riferimenti culturali e l’artista si immerge, con un tuffo voluttuoso, nella natura che sente in perfetta simbiosi di vita. Anche se continuano le composizioni di figura (quasi sondaggi, punti di riferimento, giri d’orizzonte) il sangue di Tiozzo pulsa in sintonia con le acque del suo Brenta. Qui è difficile fare l’uno o l’altro riferimento: la sequenza è talmente compatta, talmente omogenea, che ogni opera non è che un comparto di un enorme polittico —quasi inno beethoveniano alla natura — che si snoda in aggregazione continua, come nei favi d’un alveare. Diversi punti di vista; diverse ore del giorno; diverse luci stagionali; diversi stati d’animo. Ma uguale il palpito che fa vibrare questi paesaggi.

Proprio l’affresco, con la sua grana ruvida, con gli spessori che fanno corpo e quindi luce, con la sua stessa rapidità di stesura che rispecchia la mobilità dell’aria, col suo senso naturalissimo di "muro", ci apre la finestra ad un modo tutto particolare di vedere il paesaggio: un modo civilissimo, che è nostalgico ma nel contempo è vivo. Cioè: la lezione della grande civiltà pittorica veneta si sente, è qualcosa che vibra in trasparenza, eppure il senso dell’approccio alle cose è immediato, fresco, di tipo emozionale. Tiozzo s’è immedesimato nella qualità del paesaggio brentano, che è anche qualità sentimentale e — al fondo — culturale. Ho già notato come dote tipica dell’artista genuino sia quella di far rispecchiare nel quadro il paesaggio, ma anche nel paesaggio il quadro. Capita infatti, talvolta, di vedere uno scorcio paesistico, magari tenerissimo e trasognato: un apparizione improvvisa. Ebbene: quello scorcio ci riconduce d’improvviso alla memoria dolce di un quadro visto e goduto, cosicché le sue immagini—quella reale e quella memorizzata—si fondono, si mescolano. Impossibile, ad esempio, contemplare un paesaggio coneglianese o asolano senza pensare ad uno sfondo del Giorgione o ad una Madonna di Cima. Ora, ritengo che Tiozzo sia riuscito a darci, attraverso i suoi notissimi affreschi, un’immagine globale della terra amata che riassume in sé — ecco il suo segreto — il succo di una civiltà che contempera mirabilmente storia e natura, architettura e paesaggio, intelletto e senso.

L’inquadratura del paesaggio è pacata, meditata, vista cioè con occhio fermo; quasi sempre la prospettiva assume una linea di fuga verso l’esterno o comunque verso un punto non visibile; la quinta di un albero o d’una riva dà profondità alla composizione, permettendo tutta una gamma di sfumature; i tocchi rapidi del pennello punteggiano la mobilità della verzura, quasi la animano, le danno un senso di pungente vivacità; l’aria e la luce circolano tutto attorno, uniformando i particolari in una visione unitaria; le case, le ville lontane entrano in affabile colloquio con le creste della verzura, con gli alberi che si snodano lungo l’ansa del fiume; un’acqua tersa rispecchia questa natura ridente, esprimendo equilibrio e gioia di vivere... Siamo — è chiaro — in un’ottica non soltanto fisica, ma sentimentale. Il ricamo dei rami e delle fronde assume un ritmo che è naturale e, insieme, umano. Paesaggio civile, quindi: che non vuol dire paesaggio sottomesso all’ordine mentale dell’uomo, bensì perfetta armonia tra l’uno e l’altro dei due poli, contemperamento organico di un tutto. Ecco perché la pittura di Tiozzo, anche quella (di derivazione più culturale) in cui le figure ristanno nell’ambiente naturale, ha una cadenza, una souplesse, una sgranatura di colori, una vivacità di chiaroscuri, una gamma di tinte, che rispondono sempre ad una declinazione dell’animo, pur nel mutare delle ore e delle stagioni.

Sorprende l’economicità di mezzi con cui l’artista lavora, per cui anche l’apparente capriccio di un tocco svelto, svirgolatura fugace, obbedisce al senso di ordine, alla misura aurea che dovunque domina sovrana. Pittura antica e moderna insieme, tutta intessuta di motivi, fermentante di luce, vibrata, lievitante: una finestra attiva al mondo, cioè ricettiva sui piano dell’emozione. La nervosità della stesura risponde, in effetti, ad un desiderio di "catturare" le cose, che è stato tipico della pittura settecentesca più esistenziale (i riferimenti ai due Guardi sono evidenti) ma poi questa prensilità si placa nel disegno generale, laddove l’armonia classica, come classica è la concezione stessa del paesaggio.

Su questa classicità — che riflette ovviamente tutto un substrato di cultura veneta rinascimentale—sarebbe molto da dire: essa, in fondo, è il portato più alto di una civiltà, come s’è detto, che contempera senso ed intelletto. Paesaggio fugace, ma anche dotato di una sua alta universalità: e proprio per ciò sottratto alle leggi del tempo e a quelle della contingenza storica. Se nelle figure, pur trepidamente toccate, si sente ancora l’eco di un mondo passato, nei paesaggi l’immediatezza della vita scioglie ogni riferimento: l’affresco diventa geografia di una natura riflessa. Sul muro pigmentato si sciolgono i colori tenerissimi dei rosa, gli azzurrini, i verdi ora spenti ora vivi degli alberi dirimpettai. È come un raggio di luce che anima l’impasto rugoso della malta. Un soffio di felicità visiva; un palpito di abbandono panico alla bellezza del mondo.

Dovremmo rifiutare tutto questo in nome di una tecnologia che s’è fatta mostruosa? O in nome di una nevrosi che sopraffà sempre più il sentimento? Tiozzo vive nella campagna, in una villa tutta affrescata da maestri del Cinquecento, oasi di intatta civiltà veneta. I-la gli occhi aperti a ciò che succede, non ha certo chiusure nostalgiche o aristocratiche: tutta la sua vita è stata una battaglia di operose iniziative. La voce lontana di Arturo Martini in lui non è spenta: essa incita soprattutto all’anticonformismo, alla ribellione contro le mode e le pseudo-mode. L’animo di Tiozzo è spesso polemico, d’una fierezza oggi forse inusitata. Ma il suo mondo è là, tra le morbide volte del Brenta, in un luogo dove per secoli s’è diffusa la gentile civiltà di campagna dei veneziani: e la pittura che ne esce è qualcosa di genuino, di fragrante.

Anche la sensualità che qua e là serpeggia — nell’abbozzo spiritoso di Marte e Venere, nelle Grazie nascoste tra la verzura, nel caldo abbraccio di Adone a Venere, nelle nudità svelate allo sguardo — si fa qualcosa di naturale, senza cerebrali erotismi, senza implicazioni freudiane. È anch’essa un fatto biologico, che s’innesta nel contesto del paesaggio senza stacchi. La luce calda dell’imbrunire vela i corpi caldi delle tre dee, sottoposti al giudizio imbarazzato del pastorello Paride. Una rosa gialla si posa accanto alla morbidissima carne rosata della fanciulla ignuda. Laggiù, in fondo, la Malcontenta cela i suoi ombrosi recessi, il suo alitare umidi respiri: macchie scure, barbagli di luce, muri corrosi. La mitologia, quasi d’incanto, rivive in mezzo alla natura. Il grande albero ha vampe di luce rovente, abbaglio degli occhi: forse, sotto le fronde, serpeggia il corpo d’un fauno in agguato; o si sparge lontano il suono d’un piffero. Par di veder sorgere le ninfe dalle acque chiete del Brenta, là dove gli alberi si fanno fitti, attorno alla villa coperta di muschio... Suggestioni. Ma cos'è la pittura se non suggestione—e allusione—di una diversa, e ben più vera realtà, che si nasconde tra le cose, succo stesso della vita?

Paolo Rizzi, 1979.

 

Sandro Zanotto, Profilo d’artista, in "TURISMO VENETO", dicembre 1985

IL GUARDIANO DEL BRENTA

C.B. Tiozzo, un uomo che si è sempre battuto per la difesa e la salvaguardia della Riviera del Brenta che ha celebrato nelle sue tele con grande amore e poesia.

Ormai da decenni, specialmente attraverso le Biennali veneziane, tutto il pubblico pare legga l’arte collegandola ai criteri delle avanguardie. Infatti le posizioni e le estetiche di questo nostro Novecento sono state quasi sempre di rottura col passato, di lacerazione con la tradizione. Sui risultati di tante polemiche si continuano a spargere fiumi di inchiostro, nel senso che ora l’arte, completamente liberata dal suo passato, lamenta la perdita delle antiche radici. C’è chi ha anche autorevolmente parlato di "morte dell’arte".

Non avrebbe senso entrare in una polemica ancora aperta, ma è importante sottolineare l’attuale crisi delle avanguardie, divenute ormai solo oggetto di studi accademici. Da questa crisi è nato uno spazio nuovo, un terreno antico che oggi viene riscoperto da alcuni artisti che vivono in un sogno, anziché nella polemica.

Clauco Benito Tiozzo è esponente tipico di questi artisti che continuano a camminare controcorrente, che non sono raggruppabili in una scuola, nel senso che non hanno subito la crisi delle avanguardie, perché hanno sviluppato un loro modulo pittorico che le ignorava. Se lo slogan delle avanguardie era quello di afferrare e rendere visiva l’identità del nostro tempo, tempo dei sognatori è invece quello che essi vivono, indipendentemente dalle date segnate sui calendari.

Il sogno di Tiozzo è quello della venezianità, intesa non solo come cultura figurativa, ma come modulo di vita, cioè un recupero nel tempo presente di un paesaggio, un ambiente e una cultura che sono da considerare ancora vitali ed esistenti. Se ora l’identità veneziana è in crisi e si tengono addirittura convegni per definire in che modo essa potrebbe inserirsi nel mondo contemporaneo, questo è un tema che non tocca certo gli artisti, e Tiozzo in particolare, che nella venezianità è immerso da sempre. Solo chi è in crisi può porre dei dubbi sulla propria identità: chi di essa è ben certo, non ha alcuno bisogno di porsi il problema.

C.B. Tiozzo, pur essendo vissuto nel pieno del Novecento, anziché cedere alle lusinghe delle rotture col passato, è rimasto ostinatamente fedele alla tra dizione del mondo a cui appartiene antropologicamente e culturalmente. La sua opera di artista viene quindi a saldarsi, continuandola, a quella della più tipica tradizione lagunare.

Se il suo punto di partenza può essere stato Giambattista Tiepolo, rielaborò poi la sua pittura alla luce dell’esperienza dei successivi pittori all’aperto lagunari, riscoprendo così anche artisti che erano stati dimenticati, come Ettore Tito.

Nell’aderenza alla tradizione pittorica, c’è anche la ripresa della pittura di paesaggio, nei moduli che le avanguardie avevano disprezzato. Tiozzo riscopre cioè, oltre alla laguna veneziana, i paesaggi assorti della Riviera del Brenta, un mondo d’acqua e di verde, di ville, di giardini popolati di statue. Le sue tele si muovono sempre nell’idea di rappresentare un paesaggio in un dato momento, cioè in quella intonazione di luce che permette di comprenderne il significato riposto.

E certamente ancora l’eco della pittura tonale dei grandi veneti, in cui il gusto per il colore si accoppia al piacere di dipingere e all’amore per ciò che viene fissato sulla tela. Sono valori che molta cultura di questo secolo volle rifiutare: occorreva perciò che qualcuno, anche nel Veneto, ci richiamasse agli elementi di base delle grandi civiltà figurative.

Gli incantati paesaggi della Riviera, come sognati da Tiozzo, si vanno spesso popolando di ninfe rappresentate come bagnanti. Sono gli abitanti di un mondo favoloso nel quale incontriamo anche i grandi personaggi del passato. Li vediamo negli affreschi che egli ha impostato per le ville e le chiese della Riviera, sempre nel clima di inserirsi nell’ambiente naturale e architettonico senza creare fratture o polemiche.

In questo c’è la consapevolezza acquisita dalla sua importante attività di restauratore, con la quale ha dato un grande contributo alla conservazione di quel mondo che ama. Nel far questo egli ha inserito la grande tradizione nel mondo presente, cioè ha contribuito a condizionano.

Se anche questo suo non è un modo allineato alle teorizzazioni delle avanguardie, anzi ne è l’opposto, certo Tiozzo non si è sottratto alla polemica, continua anzi a dar battaglia ad ogni occasione sul tema che più gli è congeniale, quello della difesa e conservazione della Riviera del Brenta in tutti i suoi elementi. Di questa bella battaglia restano a documento, oltre a un vero mare di articoli e saggi, anche stupende monografie, oltre a una esemplare guida turistica.

Questa è l’altra faccia di Tiozzo, quella cioè in cui il pittore lascia i pennelli e si dedica a consultare archivi e antiche mappe, con perlustrazioni dal vivo. Anche i documenti che infaticabilmente riscopre sono infatti un atto d’amore per quel suo paesaggio, un modo per penetrano ancor più in profondità.

Nella sua villa a Mira Vecchia, la Querini-Stampalia che ripristinò con le sue mani, si riscoprono tutti i suoi amori: la Riviera del Brenta, le ricerche erudite sull’arte veneta, e soprattutto la pittura, di cui il suo studio mostra sempre una vasta antologia.

Tiozzo è infatti un lavoratore infaticabile, con un rigore e una coerenza artistica e morale che stupiscono, specie in questo periodo di continui ripensamenti e crisi.

Una fede di questo tipo merita senz’altro di venire riconosciuta e premiata, anche perché la difesa del paesaggio veneto è oggi un grande tema di risonanza europea.

In un mondo come il nostro siamo abituati purtroppo ai meriti che vengono misconosciuti: è bello quindi sottolineare che per Tiozzo è invece avvenuta l’eccezione.

Dopo i successi nella professione di restauratore e i riconoscimenti alla sua attività di studioso (spesso saccheggiato e citato appena in bibliografia), è venuto il momento in cui la sua pittura trova un pubblico sempre più vasto e riconoscimenti sempre più autorevoli, anche in ambito ufficiale. Tiozzo infatti è stato chiamato a ricoprire la prestigiosa cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia.

Nella presente crisi delle "neo" e "post" avanguardie, in quella situazione cioè in cui si è parlato di’ ‘morte della pittura", si sono venuti a riscoprire i valori della tradizione, della pittura di per sé stessa, al di là delle formulazioni teoriche e dei postulati filosofici. E' accaduto cioè che le parti si sono rovesciate e chi aveva continuato un discorso artistico accusato spesso di "passatismo", ora si trovi molto più avanti di tanta falsa avanguardia.

 Sandro Zanotto, dicembre 1985

 

Ugo Fasolo, La pittura di C. B. Tiozzo, in "Clauco Benito Tiozzo", Canova, Treviso 1979.

Talvolta ci sorprendiamo della costanza secolare dei caratteri che la terra matrice inserisce nei propri figli quasi a rappresentarla; caratteri che stanno come scolpiti nella natura profonda dell’uomo e che si rivelano quindi nelle opere direttamente connesse alla psiche come il linguaggio e l’invenzione poetica o artistica.

Questa riflessione si è ripresentata alla mente vedendo ora le recenti opere di Clauco Benito Tiozzo ricordando le precedenti e rilevando quanto esse si possono (quasi a loro diritto, data l’evidenza) immettersi nella prospettiva storica della civiltà veneta.

E' fatto noto come nel Rinascimento i due poli pittorici che hanno informato di sé l’arte italiana abbiano avuto sede in Firenze e Venezia quali centri della Toscana e del Veneto. A Firenze l’espressione figurativa si accentra sull’uomo e sulla sua grandezza, a Venezia l’uomo si compone nella visione dell’ordine della natura e nella sua bellezza. Oggi ancora, nonostante i secoli trascorsi, i caratteri base di allora ci appaiono presenti e la prospettiva storica segue le sue linee senza deviare dallo stabilito punto di fuga sull’orizzonte dello spirito. Ci meraviglieremo dunque se nel lavoro di un artista d’oggi possiamo rintracciare i caratteri già rilevati in artisti d’altri tempi e della stessa terra? Ed in questo riaffermarsi della matrice non vi è forse un attuale sigillo dell’autenticità?

Le sollecitazioni che Tiozzo capta e rivive intimamente per trasferirle poi nelle sue figurazioni derivano dalla spontanea predisposizione ad accogliere le visioni di una natura amica in un’ampia contemplazione lirica e a immedesimarsi in essa; il paesaggio diviene così una situazione dell’animo che vi consuona in vasta armonia, e si libera in essa.

Tiozzo vive in luoghi nei quali la stupefazione visiva può essere continua: luoghi rigogliosi d’alberi e del verde alimentato da un diffuso scorrere d’acque limpide e dell’aria marina; anche se la terra per alcuni mesi soffre l’inverno caliginoso, presto la ripresa delle stagioni fiorenti che dominano gran parte dell’anno, riapre in gioia chiara il ritmo del racconto universale della natura.

E' quindi naturale che la partecipazione fomentata dalle continue scoperte, porti all’insorgere di una tensione che chiede di svolgersi concretamente nell’espressione e di immettersi nel tempo come inesausta fonte di rivelazione e di partecipazione agli altri. Le figurazioni che ne derivano si collocano spontanee nella visione di un mondo che il Veneto è sempre stato chiamato a diffondere: vi si afferma l’intima conoscenza dei parametri universali della natura accolti dall’uomo che in essi si specchia ed esalta nella trascendente unità che l’arte concreta nelle forme che nutrono lo spirito offrendosi alla comprensione degli uomini.

Secondo le sollecitazioni e le possibilità di scoperta d’ogni artista, anche le accentuazioni e la stessa rivelazione possono variare negli innumerevoli orientamenti delle direttrici d’approfondimento.

Nelle opere di Tiozzo un aspetto, un elemento appare subito evidente e dichiarato: l’intensità luminosa, solare, che impregna le sue figurazioni. Luminosità che tuttavia si diffonde senza violenza poiché in essa vi è trasfusa la chiara temperie del cielo veneto aperto sopra una pianura che respira il vento del mare; una luminosità appena dorata quale il giorno sereno diffonde nelle limpide giornate del settembre e ne veste gli alberi, i campi, le case, le acque dei canali e dei fiumi in cui il cielo si riflette tramutando anche l’acque così che gli oggetti della terra sembrano quasi sospesi tra due estensioni di una stessa luce che sovrasta il mutare delle stagioni. Tiozzo ne comprende il dono significante e colloquia con la natura che l’attornia, ne scopre e fa proprie le aperture più intense e segrete, le più rivelatrici dell’essenza intima del paesaggio quale volto della terra che ama. Poiché esso è un volto di chiarezza, la pittura di Tiozzo già fin dall’inizio presenta quell’individuazione luminosa che ci ha accolto fin dal primo incontro.

Forse non è necessario precisare che la luce della quale Tiozzo si avvale nelle sue tele non è certo quella delle radiazioni rettilinee che all’incontro con l’oggetto, immoto o indifferente, ne precisa le forme con le scansioni chiaroscurali. Nelle sue opere la luce dominante non ha sorgente d’irradiazione fisica, ma appare come diffusa nell’aria impregnando e quasi dissolvendo gli elementi che avvolge. E nemmeno è l’impersonale luce impassibile della pittura metafisica, collegata a una misteriosità di formali apparenze, ed anche, benché meno estranea, non è la luce spaziale ed estatica di Guidi che esprime la tendenza verso un’ansia d’assoluto oltre il moto del tempo, aprendo una nuova interpretazione della luminosità veneziana.

La luce di Tiozzo è libera e nello stesso tempo, connessa alle forme che circuisce e penetra; è moto vibratile di accensioni richiamate dal comportamento vitale della natura, sia esso il tremolio dei riflessi dell’acqua in movimento o sollecitata dal vento, l’oscillare delle foglie, il variare dei toni al passaggio delle nuvole, tutto un trepido lievitare sugli elementi del paesaggio e sui corpi umani dentro un incanto che è anche vita in azione. Le stesse ombre ne sono intrise divenendo anch’esse un diverso elemento luminoso.

Per l’arte di Tiozzo si parla, e giustamente, di assonanze con la pittura tiepolesca specie per il coincidente tono di chiara felicità, che in esse appare, tuttavia ben diversa è la sintassi della definizione formale e plastica che nel Tiozzo si avvale di apposizioni luminose riportate ed appena guidate da rapidi accenni di limiti, secondo un fare che, inventato dall’ultimo Tiziano, è continuato poi nei secoli fino ad oggi come si riscontra in Semeghini e Dalla Zorza.

Ma insieme ai richiami coincidenti con alcuni aspetti di un’indistruttibile tradizione, esistono anche le peculiari note dell’artista che vive il proprio tempo. Ogni epoca risulta composta nel suo aspetto da un insieme di lampeggiamenti rifratti come da un diamante dalla molte sfaccettature: dalla quantità e dalla qualità delle rifrazioni risulta il valore e la preziosità dell’epoca. Anche l’arte di Tiozzo vi concorre con la riconoscibile singolarità del proprio apporto. L’avvivarsi della fantasia nelle visioni naturali che predilige, conduce queste alla trasmutazione in termini pittorici nello stesso tempo che assurgono all’espressa partecipazione emozionale. A questo punto con l’ausilio dell’ampiezza costruttiva propria del Tiozzo e dei riporti luminosi che abbiamo già rilevato, l’insieme dell’opera si compone in poesia e diviene un tutto unico di lirica e cromatica modulazione che volta a volta può scegliere la dolcezza delle tonalità risonanti o la vivezza delle accensioni dilatate e intense.

Se poi la ricerca si approfondisce e la partecipazione di chi guarda diviene comunione con l’opera, è possibile avvederci che lo stesso oggetto è coinvolto nell’onda dell’esclamazione lirica di cui tutto l’insieme è pervaso, penetrando e talora dissolvendo le forme e pittoricamente risolvendosi in essa.

Di certo non sarebbe possibile raggiungere realizzazioni di tale libertà se la tecnica esecutiva e gli elementi dell’espressione si dimostrassero ancora incerti o inutili: ma il Tiozzo dispone di un dominio dei mezzi della tecnica pittorica quale pochi altri possono vantare e ciò in ispecie nel trattamento dell’affresco che egli preferisce per caratteristica congeniale che gli consente d’ottenere un’immediata, ariosa levità. Ma sia che nel suo fare egli usi l’olio o l’acquerello o la tempera, non troverete mai nelle sue opere il rallentamento dell'incertezza o il tocco esitante che altera o ritarda la compiutezza pressione. Le sue vaste architetture di paesi, le sue splendide figure ci appaiono esistenti nei dati d’una spontanea invenzione naturale.

Quando nelle opere di Tiozzo dominano le figure umane, anch'esse risultano accolte nella stessa trasfigurazione lirica che avvolge le modulazioni dei paesi così che i personaggi assumono vicende e aspetti di figure mitiche, tramandate dall’antica rappresentazione della natura: appaiono quali dèi e ninfe della classicità risorti a creature vive tutte splendide della loro giovinezza. Non è fatto letterario, sono presenze, miraggi sempre attuali in questa terra veneta dove ancora le favole della classicità mediterranea hanno possibilità di partecipe vita. Pure ci si può anche chiedere se è il passato, con le sue memorie, che anima e sollecita la pittura del Tiozzo. Sarebbe un errore dell’incomprensione il crederlo: ciò che raffigura egli lo sente come realtà attuale anche se si tratta di un Giudizio di Paride; le tre giovani donne della sua opera, che quali lievi immagini di bellezza sono ammirate dall’uomo seduto a loro innanzi, hanno la vitalità di splendide creature di tutti i tempi ma più sono del nostro per la fresca immediata naturalezza che le anima e il brillare della luce che le fa trepidamente ansiose di gioia.

Ma non è soltanto il mondo della gioia che l’arte del Tiozzo può accogliere ed esprimere. Egli conosce la tragedia e il dolore e sa raffigurarli come si vede nella recente desolata e cupa raffigurazione di un gruppo di terremotati tra le macerie, e in altre opere di dolorosa gravità.

Nel definire il proprio impegno di artista, Tiozzo ha fatto la scelta dell’intento ispiratore in lui dominante, quello consono alla natura quale vita e che ama la vita. E' vero che il nostro tempo è tempo di crisi, e per alcuni anche di sgomento: Tiozzo lo vive e lo sa. Ma quale apporto reca all’uomo un’arte che lo degradi ancor più, che lo annulli con la frantumazione dei valori dello spirito? Un’epoca grave di inquietudini e mutazioni sociali e religiose investì anche la seconda metà del Cinquecento; eppure lo stesso Tiziano già vecchio (che ne fu artisticamente il maggior rivelatore, con il linguaggio delle ultime opere) non abbandonò la continua ricerca dell’armonia, e l’ancor giovane Veronese seppe donare all’umanità le sue serene e splendenti figure. Il compito dell’artista, in ogni epoca, è di soddisfare la sete di bellezza che, sia pure inconsapevolmente, esiste in ogni uomo.

Tiozzo, che vive attivamente il nostro tempo ha di certo affrontato il quesito del come operare nell’attualità; la scelta che egli ha fatto denota la validità di chi, seguendo la propria vocazione, ha deciso di adoperare i talenti ricevuti perché anche gli altri uomini se ne illuminino.

UGO FASOLO, 1979.