La sindone
di Torino
Nel precedente lavoro sulla sindone mi ero convinto che si trattava di un falso medievale fabbricato dai cristiani per ottenere finanziamenti e per organizzare le crociate, ufficialmente per la difesa del Santo Sepolcro mentre sotto sotto gli scopi dell'invasione e della colonizzazione erano ben altri. Ritenevo ancora che il corpo appartenesse ad un crociato dell'età apparente di 45 anni circa fatto prigioniero e punito dai turchi allo stesso modo del suo dio, fatto che avrebbe poi indotto dei cristiani a sfruttare la circostanza per confezionare una falsa sindone. Avevo trovato un disegno di crociato che assomigliava moltissimo all'uomo della sindone e speravo di saperne di più su chi l'avesse disegnato e da quale fonte. Ma ancora non l'ho trovata. Posso solo supporre che voglia rappresentare Jacques de Molay o un altro maestro dei Templari, anche se l'incisione proposta da Knight e Lomas nel loro libro è diversa, più invecchiata, di un uomo che del resto al momento della tortura aveva ben sessantatre anni. E sono ancor più diverse le incisioni di Jacques de Molay che mostra un articolo su internet molto critico sul lavoro di Knight e Lomas.
Durante le mie ricerche su internet a proposito del Nuovo Testamento sono venuto a conoscenza del libro di Knight e Lomas che sostengono che l'immagine della sindone sia quella dell'ultimo grande maestro dei Templari Jacques de Molay e ne ho ordinato una copia. Nel frattempo, messomi a rivedere il file per aggiornarlo sono giunto alla conclusione che quella della sindone non è un'immagine direttamente o indirettamente prodotta dal corpo di un individuo sanguinante avvolto in un telo di lino che ovviamente ove più ove meno si adagia sulla conformazione irregolare della parte frontale di un corpo umano, mentre per quanto riguarda quella posteriore è evidente che non tutte le parti del corpo sono schiacciate sul telo (supposto com'è ovvio che il morto sia deposto su un ripiano roccioso di una tomba scavata nella roccia come quelle note a Gerusalemme). In queste condizioni tutt'al più sul telo rimarranno delle chiazze di sangue qua e là non certo tali da riprodurre una fedele immagine del defunto come quella che abbiamo sulla sindone. L'immagine sulla sindone è originariamente piatta e non il risultato di una impressione da corpo bombato che poi viene allargata e deformata nel momento in cui il telo viene disteso su una superficie piana: fenomeno della Maschera di Agamennone. Che io sappia esistono - in teoria - solo due modi per realizzare un tale risultato: la pittura e la fotografia. In realtà ne esiste solo uno: la fotografia, perché la pittura va esclusa categoricamente, perché sull'immagine della sindone non vi sono tracce di pennellate, perché gli artisti medievali non avrebbero mai potuto riprodurre fedelmente un corpo umano, perché per osservare l'immagine della sindone occorre stare almeno a due metri di distanza, e non esistono pennelli tanto lunghi, né mano tanto ferma, perché l'immagine sulla sindone è un negativo ed è assurdo pensare che un pittore dipinga - sia capace di dipingere - al contrario. La prova che si tratti di una fotografia e non dell'impressione del sangue e del siero sul telo è data dal fatto che non abbiamo l'impressione della sommità del capo, dei capelli, intrisi di sangue sul telo. Fra la testa di fronte e la testa di dietro esiste uno spazio vuoto, mentre se l'impressione fosse dovuta ad un corpo piagato - poiché la sindone fu sovrapposta al corpo passando da sopra la testa, insanguinata dalla corona di spine, che in realtà nell'uomo della sindone è un casco di spine, in una posizione a U adagiata su un fianco - dovremmo notare in corrispondenza del capo una macchia grosso modo rettangolare terminante da una parte col volto e dall'altra con la nuca del morto. Si potrebbe credere che il morto portasse un copricapo tale da coprire il sangue fintanto che questo fosse asciugato, ma è da escludere che l'uomo della sindone abbia mai avuto un copricapo (sia stato questo mantenuto addosso al morto o tolto prima di avvolgerlo nella sindone) perché avrebbe lasciato la sua traccia, mentre è evidente che i capelli sulla testa di fronte e dietro sono belli rialzati e non c'è traccia di berretti di sorta soprattutto dove dovrebbe vedersi, sulla fronte.
Foto del volto dell'uomo della sindone che mostra l'immagine 'positiva' cioè reale
La verità è che il medievale sapeva fare le fotografie ma... non aveva nozioni di prospettiva e non ha pensato di fotografare la sommità del capo fra le due metà della testa, o, forse, ha compreso che la cosa sarebbe stata anche più inverosimile e ha lasciato tutto così, sufficiente a ingannare medievali... e moderni. Intanto il mio libraio mi ha procurato il libro di Knight e Lomas, Il secondo Messia, Nuovi Misteri, Oscar Mondadori, che mi è servito parzialmente per il mio lavoro sulla sindone mentre sono certo che ne farò uso se e quando tornerò sui miei studi neotestamentari. La lettura del primo capitolo, che è in perfetta sintonia con l'indirizzo preso dai miei studi, mi fa proporre a Knight e Lomas che dedichino un libro intero a questo argomento (e ad altri storico-archeologici in genere, per cui mostrano di avere la stoffa) piuttosto che perdere tempo dietro a sciocchezze come la celebrazione - ricercando presunte origini storiche avanti Cristo della massoneria - dell'anticultura ebrea o pseudoebrea. Tornando al nostro argomento, ho riscontrato che i due autori negano che l'immagine sia fotografica [sostenendo una teoria alquanto debole e cioè che 24 ore sarebbero state sufficienti per imprimere l'immagine sul telo - che però non era ovviamente steso orizzontale ma deformato dal corpo del ferito, per cui il telo dovrebbe mostrare delle alterazioni dell'immagine che non vi sono - per convezione; chiunque voglia saperne di più si legga il libro e, sul sito di N. P. L. Allen, la discussione critica del lavoro di Alan A. Mills (del 1995: Image formation on the Shroud of Turin: The reactive oxigen intermediates hypotesis, in Interdisciplinary Science Reviews, vol. 200, N° 4, pp. 319-327) compresa la teoria dei singoletti d’ossigeno come accolta e descritta da Christopher Knight e Robert Lomas ne Il Secondo Messia] ma danno le coordinate di Nicholas P. L. Allen (che ha scritto Verification of the Nature and Causes of the Photo-negative Images on the Shroud of Lirey-Chambery-Turin; si cita anche il sito internet che non è più lo stesso, ma se si scrive sul motore di ricerca Allen e Shroud of Turin lo si trova immediatamente come ho fatto io con Google; altrimenti si può risalire all'Home con http://www.petech.ac.za/shroud/Default.htm) che invece sostiene trattarsi di un processo fotografico di cui evidentemente i medievali erano a conoscenza (e che si sarebbe potuto realizzare con ingredienti oggi come allora disponibili) e che avrebbero sfruttato per fotografare l'uomo della sindone. Io concordo con Allen, i cui esperimenti riporto in appendice a questo lavoro. So perfettamente che è incredibile che i medioevali - io penso soprattutto alle conoscenze greche, poi persiane, poi arabe trasmesse ai turchi che possono essere state portate a conoscenza (ma penso anche all'attività stessa di uno scienziato greco, persiano o islamico) al servizio della truffa crociata - possedessero tali conoscenze sia pure di un procedimento differente rispetto a quello oggi noto, quando noi sappiamo o crediamo di sapere che la fotografia è stata inventata nel XIX secolo. Anche se Aristotele era già a conoscenza dell'azione fotochimica della luce. Ma finché non verrà qualcuno a convincermi di aver trovato una terza soluzione, io crederò fermamente alla sindone come negativo fotografico su lino. Non posso nemmeno credere che l'uomo della sindone sia Jacques de Molay perché se è vero che costui potrebbe rispondere a tre requisiti: 1) è un crociato, dunque di razza europea, di alta e robusta costituzione fisica e seguace della moda europea quanto a foggia di barba, baffi e capelli; 2) è stato torturato nel 1307 e cioè dentro il tempo che l'analisi al radiocarbonio attribuisce alla sindone o meglio al momento in cui il lino in cui fu tessuta cessò di vivere, fra il 1260 e il 1390 d. C. [notare che anche N. P. L. Allen, che data la sindone fra 1260 e 1355, sbaglia a mio avviso credendo che la foto-sindone sia stata scattata all'epoca stabilita dall'esame al radiocarbonio del 1988; questo significa che secondo me bisogna ricercare il materiale disponibile in Palestina con cui si sarebbe potuto 'fotografare' nell'XI-XII secolo e non fra XIII e XIV. Comunque Allen, che ha sperimentato con successo a giudicare dalle foto sul suo sito, mi conforta affermando che « the chemicals and apparatus needed for such a forgery were available collectively well before the eleventh century in Europe and possibly even earlier in the East. » Inoltre nell'Appendice in fondo al mio lavoro Allen fa riferimento alle ricerche sperimentali degli arabi (cita in particolare il Kitab al-manazir of Ibn al-Haytham, Arabia 965-1039, che scrisse numerosi testi di vario argomento scientifico ottico - che pare di leggere Il Nome della Rosa di Umberto Eco - e Jabir ibn Haayan, morto intorno al 815, che nel suo De inventione ventatis descrive come si prepara il nitrato d'argento) sulla fotografia, nello stesso tempo in cui gli antenati di Bush contendevano le ghiande ai porci]; 3) è parente del de Charney il cui discendente possedeva la sindone che la sua vedova espose (la prima pubblica ostensione documentata è del 1357), è vero anche che non si può far finta che non esista la miniatura del codice di Pray, di Budapest, del XII secolo, in cui l'uomo della sindone, della sindone di Torino, evidentemente, è già rappresentato (male dal punto di vista della raffigurazione di barba baffi e capelli, troppo corti, ma) con le quattro bruciature a L del telo, esattamente uguali a quelli sulla sindone di Torino.
I quattro fori-bruciature all’altezza delle mani (foto di destra) identificati anche in un disegno del Dürer e ovviamente anteriori all’incendio del 1532 che si riscontrano nell’immagine delle donne al sepolcro (foto di sinistra in basso; la mia riproduzione non consente di vederli ma nell'originale i fori sono esattamente quattro e disposti a L specularmente rovesciata e capovolta - come una T senza la traversa di destra - sul telo sindonico in verticale sotto il braccio destro della prima donna da sinistra per chi guarda) del codice di Pray provano fino a prova contraria (che Knight e Lomas non hanno portato - e nemmeno N. P. L. Allen - ignorando addirittura l'esistenza di questa miniatura, datata al 1192 d. C.) che la miniatura del codice di Pray raffigura la sindone di Torino.
Ciò potrebbe rallegrare quanti negano valore all'analisi del radiocarbonio. Per quanto non si possa negare l'attendibilità in assoluto di questo processo di datazione devo ammettere che preferisco datare gli oggetti da storico e da archeolgo e cioè in base alla datazione relativa, basata cioè col raffronto con altri oggetti di sicura datazione. Una datazione assoluta, cioè che prescinde dal contesto storico-archeologico per affidarsi alla sola tecnologia, del radiocarbonio, preferisco sia lasciata ai reperti preistorici. Comunque non è una novità che l'analisi al radiocarbonio possa sbagliare se i campioni sono alterati dalla presenza anomala di maggiore o minore carbonio dovuta a fatti diversi. Che poi i tre laboratori abbiano raggiunto una datazione affine non costituisce prova dell'esattezza delle loro analisi. Naturalmente non si facciano illusioni coloro che da queste mie conclusioni potrebbero ricominciare a sperare nella divinità dell'uomo della sindone. E' a tutti evidente che per ipotesi un dio che risorge può imprimere su un telo di lino un'immagine fotografica, ma questa fotografia da resurrezione avrebbe dovuto irraggiare il telo in tutte le direzioni fornendo un'immagine deformata in lunghezza e larghezza. Dunque, a maggior ragione, compresa la calotta cranica, che manca, e non è carino pensare che dio abbia l'encefalogramma... piatto. Se poi dio avesse voluto lasciare un'immagine di sé avrebbe fornito magari solo il volto, addirittura tutta l'immagine anteriore del corpo, ma non certo... il posteriore. La datazione al radiocarbonio fra 1260 e 1390 conferma semmai (tenendo conto delle anomalie costituite da incendi e accidenti vari che coinvolsero la sindone nel tempo) la mia datazione a non oltre il XII secolo. Fino a prova contraria, ovviamente.
La sindonologia nasce con le lastre fotografiche impresse da Secondo Pia il 25 e 28 maggio 1898 e avrebbe già dovuto concludersi, tenendo conto della miniatura del codice Pray del XII secolo. Baima Bollone nel suo lavoro qui citato non ha tenuto minimamente conto dell'ipotesi fotografica nonostante abbia citato lavori che io ritengo conclusivi in proposito:
« A me sembra che, al lume delle moderne conoscenze scientifiche, sia possibile stabilire oggi i seguenti dati di fatto sulle impronte della Sindone di Torino:
1) L'immagine del corpo umano che essa riproduce è senza dubbio una figura ortogonale, intendendo per figura ortogonale una proiezione ad angolo retto come quella che ci dà lo specchio o che si ottiene sulla lastra fotografica. Immagine quindi a due sole dimensioni, altezza e larghezza; manca la terza dimensione, la profondità...
Ma un'immagine ortogonale si può solo ottenere su un piano liscio come sono appunto lo specchio o la lastra fotografica, e poiché la Sindone contiene un'impronta ortogonale, ne viene la naturale conseguenza che al momento di formazione di detta impronta la tela doveva trovarsi perfettamente tesa come un piano tanto al di sopra quanto al di sotto della salma e in posizione parallela ad essa, in modo da raccogliere la sola proiezione ad angolo retto con esclusione di impronte laterali, mentre è chiaro ed evidente che sulla tela avvolta attorno al corpo e per di più legata e stretta con fasce, dovevano prodursi anche impronte laterali o tridimensionali, che invece mancano completamente...
Ma se la posizione orizzontale e tesa è ammissibile per la parte che si trovava sotto la salma, non pare possibile esserlo per l'altra parte che era al di sopra di essa e che è giocoforza la avvolgesse anche ali lati...
2) Le due figure della Sindone che ci rilevano l'impronta anteriore e quella posteriore... hanno gli stessi caratteri morfologici, sono cioè simili e dello stesso tipo; mentre è evidente che l'impronta anteriore avrebbe dovuto presentare una grande differenza da quella posteriore.
Basti pensare al peso del cadavere sulla tela per convincersi subito che l'impronta del dorso debba avere tutt'altri caratteri di quella del ventre, che è invece determinata dal solo peso della tela sul cadavere. A una differenza ponderale così enorme doveva seguire un'altrettanto enorme differenza fra i due tipi di impronte: lievissima, appena sensibile, quasi insignificante, quella prodotta dal peso del lino sulla salma; assai marcata, dura, densa e opaca quella data dal peso della salma sul lino. Invece le due impronte sono pressoché uguali: la differenza, se pure esiste, è minima e assolutamente non proporzionale alla differenza ponderale... » (B. B., pp. 191-192; G. Caselli, sindonologo, relazione al Congresso del 1950, rimasta inedita... noi aggiungiamo: ovviamente).
« Ogni opera dipinta riproduce gli oggetti non come essi sono nella realtà, ma come essi appaiono quando si proiettano su un piano. Le impronte per semplice contatto non sono in grado di realizzare questa proiezione. Al contrario se ne è prodotta una sul lenzuolo di Torino. » (B. B., p. 195; P. Vignon, Le Linceul du Christ. Etude scientifique, Parigi, 1902).
E potrei continuare. Insomma, si ammette la perfezione dell'immagine come fosse una fotografia che appunto si prende da distanza, si nega che possa essere un dipinto (che è l'unica cosa comparabile con una fotografia, ma che si può fare solo da vicino), e si induce a credere che si possa trattare solo di miracolo divino, senza ammettere l'ipotesi del falso fotografico, arricchito dall'aggiunta di schizzi di vero sangue.
Knight e Lomas ritengono - del tutto verisimilmente - che la famiglia del fratello (Jean de Charney) di Geoffrey de Charney (il precettore templare di Normandia morto sul rogo nel 1314 insieme a Jacques de Molay, l'ultimo grande maestro dei Templari) sia stata incaricata dall'inquisitore Imbert di occuparsi dei due dopo le torture del 1307, e ciò spiega perché fu poi un nipote di Geoffrey, anche lui Geoffrey de Charney, a chiedere e ottenere (nel giugno 1353) al re Giovanni II il Buono di innalzare una chiesa collegiata a Lirey. Dopo la morte di questo nella battaglia di Poitiers nel 1356 spunta fuori per la prima volta la sindone nelle mani della vedova (Jeanne de Vergy) che avendo bisogno di soldi ottiene dai canonici della collegiata di Lirey di poter esporre come sindone il telo che aveva scoperto tra le cose appartenute a suo marito. Il figlio di Jeanne de Vergy si chiamava ancora, curiosamente, Geoffrey de Charney. Non appena il vescovo di Poitiers, Pierre d'Arcis, seppe dell'esposizione fece opposizione affinché il telo non fosse più esposto, prima cercando di provarne il falso (riferendo le indagini del vescovo precedente, d'Arcis scrive: « Alla fine, dopo attente ricerche e analisi, egli scoprì la frode, per cui... si trattava di un prodotto dell'ingegno umano e non di qualcosa di miracoloso... Sono convinto di non poter esprimere sulla carta interamente né a sufficienza la deplorevole natura di questo scandalo, l'infamia gettata sulla Chiesa e sulla giurisdizione ecclesiastica e il pericolo incombente sulle anime. » (K. & L., p. 226) e poi, quando non poté convincere nemmeno il Papa, Clemente VII, divenuto nel frattempo cugino acquisito del de Charney, ottenendo solo che il Papa ribadisse al de Charney « l'obbligo di annunciare, a ogni esibizione della Sindone, il fatto che si trattava di " figura o rappresentazione " » della sindone di Cristo (K. & L. p. 226). Il primo de Charney era strettissimo al de Molay e dunque o l'uno o l'altro o entrambi affidarono le loro cose alla famiglia di Jean de Charney, e fra queste la falsa sindone di quei primi Templari che l'avevano confezionata e sfruttata forse addirittura per creare l'ordine stesso e comunque per ottenere i finanziamenti e nuove crociate come alibi per recarsi in Palestina e a Gerusalemme alla ricerca di tesori e di segreti di cui appropriarsi. E' dunque logico che la sindone, confezionata non oltre il XII secolo per tenere vivo l'interesse europeo per i finanziamenti alle crociate sia rimasta al seguito dei principali Templari e infine, al ritorno dalle crociate quando ormai non serviva più, come ricordo (da tenere nell'armadio insieme agli altri scheletri) della 'stangata' fatta a prelati e re d'Europa. Se la sindone fosse stata davvero il telo con l'immagine di Gesù recuperata dal Santo Sepolcro a Gerusalemme ancor prima d'essere portata in Europa dal primo de Charney o dal de Molay, ma comunque almeno dal loro ritorno, avrebbe fatto il giro d'Europa e sarebbe stata subito conservata ed esposta a Roma in San Pietro, al posto delle tante false reliquie fabbricate anche in doppioni, tripli ecc., e non per vie periferiche e dopo cinquant'anni dalla morte dell'ultimo proprietario dalla di lui vedova che aveva bisogno di soldi. Oggi, quando è la scienza che trionfa (ed è destinata la scienza a trionfare ormai per sempre, finché l'uomo sarà su questa terra) e con lei il laicismo, era tempo di abbandonare a se stesso anche quest'ennesimo 'pacco' cristiano, per cui dopo il verdetto dei radiocarbocronologi anche la chiesa ufficiale non può far altro che chinare il capo.
Per confezionare il falso occorreva non solo un individuo che portasse i capelli alla nazarena, ma infliggere sul suo corpo (presumibilmente già morto, a meno che i turchi non abbiano voluto punire il templare con le stesse pene del suo dio) le stesse identiche pene inflitte secondo i vangeli a Gesù. Ovviamente per i cavalli dio è un Ribot, per i pigmei un nano, per i crociati un franco alto un metro e ottanta. Occorreva poi fotografarlo (da una distanza da due metri in poi) su lino e fermare il processo chimico fissando l'immagine. Poi il tocco da maestro verisimile e cioè (se sulla sindone c'è davvero il sangue) macchiare qua e là la sindone di sangue umano sottolineando le ferite. Pare che delle macchie (di sangue o meno) siano state sparse ad arte sulla foto della sindone dal falsario, come si ricava logicamente da quanto scrive il Prof. Baima Bollone nel libro Sindone la Prova, Nuovi Misteri, Oscar Mondadori, pp. 139-140: « sul negativo fotografico in bianco e nero le immagini [della sindone] risultano positive mentre sull'originale e sui positivi fotografici hanno carattere negativo. Ciò non vale per le macchie, che da sempre la tradizione religiosa e popolare ritiene di sangue. In corrispondenza di esse si è infatti realizzato un reale apporto di materiale al tessuto della Sindone così che, al contrario delle immagini corporee, risultano negative sul negativo fotografico e positive sul positivo, esattamente come qualsiasi registrazione fotografica di tracce. » Confronta anche cosa scrive Allen sul suo sito:
The
Stigmata
Nevertheless, apart from Christ's image, the depictions of his stigmata, as
seen on the Shroud of Turin tell a very different story. Readers should make
themselves familiar with the details of the various images of the stigmata
from the frontal and dorsal image (see fig. 1 and 2) These are ostensibly
flows of blood from different areas of the body, head, hand, torso, feet etc
and are each supposedly caused as a result of different types of wounds caused
respectively by nails, javelin points and thorns (see fig. 5,6,7,8, 9 and 10).
You will observe that each 'blood flow' regardless of the wound it supposedly
issues from, shares with its siblings, five distinct features:
* the blood flows are always visible as distinctive and
separate flows;
*
the blood flows are always of a similar thickness;
*
there is always clear directionality;
*
there is no smudging as one would have expected had a real bleeding
corpse been wrapped up in a cloth; and
Dunque delle due l'una. O sono state impresse prima le macchie di sangue e poi l'intera figura (assai inverosimile), oppure prima sono state fotografate le immagini davanti e di dietro e poi è venuta l'idea di dare un maggior tocco di verisimiglianza aggiungendo delle vere macchie, magari di sangue, del falsario stesso o di una sua povera vittima.
Allen è professore
della Facoltà d’Arte e Disegno al Technikon di Port Elizabeth, Sud Africa, e
sostiene che il falsario che fabbricò la sindone, un’icona, tenne presenti
i canoni artistici in voga al momento del falso. Giudica che questi canoni
fossero quelli in vigore fra XIII e XIV secolo. Però in un passo del 1994
credo che sostenga qualcosa che va nella mia direzione:
if viewed as an eikon, one may be tempted to favour the
interpretation that the Shroud is of Byzantine origin. This is because,
without the benefit of photographic enhancement, the image on the Shroud, (ie
as it would have appeared to the medieval viewer), depicts Christ with large
owlish eyes, whose feet point downwards, seemingly defying gravity. These
factors taken together with the observation that the composition is strictly
frontal, vertically symmetrical and appears to the uninformed spectator as a
mere two-dimensional design, seem to relate the Shroud more readily with the
accepted standards of early Byzantine iconography.
Another factor that supports this provisional
interpretation, is that, by and large, the west tended to look down on the
eastern churches' veneration of images. Geary points out that the latin terms veneratio
and adoratio were interchangeable by the ninth century
and according to the Libri Carolini, the proper
objects of devotion were relics and not images, because the relics of saints (as
latria), would share in the resurrection at the end of
the world, whereas images were ‘more or less faithful representations and
more or less beautiful, but they could not have any more than a didactic
function. Any greater honor or veneration was reserved for relics alone' (1978
: 42).
Infine riporto alcuni passi che possono ancora interessare del mio vecchio articolo.
La crocefissione è
una pratica semitica e documentata presso gli islamici ancora nel 1071, 1123,
1245, 1151 e 1247, ultimo caso in cui un giovane turco morì, a quanto si dice
nelle cronache, con una fortezza d’animo che certo Cristo non dimostrò con
l’unica sua frase documentata da tutti gli evangelisti: Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato? Possiamo dunque ipotizzare che un crociato
catturato vivo sia stato dai Turchi punito alla maniera del suo dio. E' possibile che un falso sia stato realizzato col cadavere fresco fresco di un
crociato cui vennero inferte le pene che circolavano nell’opinione comune
riguardo alla morte di Cristo e in particolare quelle desumibili dai vangeli.
Il crocifisso graffito
in una taverna di Pozzuoli nei pressi dell’anfiteatro
ha il viso « rivolto in alto con la bocca aperta, in quello che sembra
un atteggiamento di «fame d’aria» » (Pierluigi Baima Bollone, Sindone, la
prova, Mondadori, p. 60), e le gambe piegate con le ginocchia in fuori,
nonostante che il peso del corpo sia sostenuto da un palo trasversale. E’
possibile che il palo trasversale fosse presente anche nelle coeve croci dei
tre sul Golgota. Questo potrebbe spiegare lo stupore di Pilato circa la rapida
morte di Cristo (Mc XV 44), mentre forse non si sarebbe stupito se Cristo
avesse dovuto poggiare tutto il suo peso solo sul chiodo dei piedi. La rottura
delle gambe dei due ladroni si spiegherebbe allora non come accelerazione del
processo di asfissia, ma come mezzo per accelerare la morte per
dissanguamento. Dunque si può tranquillamente affermare che la causa
principale della morte del crocifisso è l’asfissia, stato nel quale non si
può essere loquaci quanto vorrebbero gli evangelisti. Nel caso di Cristo,
poiché fu prelevato dalla croce dopo breve tempo dalla morte, entro le tre
ore, il corpo è stato ricomposto agevolmente in un lenzuolo. Tuttavia
la smorfia del crocifisso di Pozzuoli deve essere rimasta stampata sul
volto di Cristo che una sola frase ha detto sulla quale sono concordi tutti i
vangeli: Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato? La sua non è stata
dunque una morte del tutto serena. E sappiamo che il suo corpo è stato
semplicemente posto in un lenzuolo senza alcun trattamento, non certo quello
degli specialisti americani di
make up mortuario che abbiamo visto all’opera in più di un film. Guardando
invece il morto della sindone risulta persino difficile pensare che sia morto
ucciso da fendenti di spada o di mazza e cose del genere. Pare piuttosto che
stia dormendo serenamente, non un solo osso, non un solo muscolo fuori posto.
La morte di Cristo avvenne all’ora nona, cioè
fra le 3 e le 6 del pomeriggio e fu subito preso in custodia da Giuseppe d’Arimatea
(e anche i ladroni furono tolti dalla croce) prima della notte (dalle 6 in
poi), che corrispondeva all’inizio del
sabato, affinché non rimanessero sulla croce durante il sabato (Gv XIX
31ss). Poiché secondo l’esperto in materia Baima Bollone il rigor mortis è
percepibile dopo 3-4 ore dalla
morte e raggiunge l’acme intorno alle 12-20 ore, è evidente che Cristo fu
composto nel lenzuolo senza problemi, perché entro l’ora nona, in tre ore,
era morto e sepolto. Viceversa nel caso dell’uomo della Sindone, secondo una
relazione inedita di Hynek R. W. al I Congresso Internazionale di sindonologia,
Torino 1950, condivisa nel suo libro dal prof.
Baima Bollone, « la rigidità subentrò mentre il corpo era in
posizione verticale e non orizzontale » (p. 113), cioè quando era ancora
sulla croce, contrariamente a quanto deduciamo dai vangeli. E infatti l'uomo
della sindone ha le gambe che si sovrappongono o quasi in corrispondenza dei
piedi come nel crocifisso tradizionale. Dunque l’uomo
della sindone è presumibilmente un cavaliere crociato crocifisso dai Turchi,
come volevasi dimostrare.
Come si fa a parlare di radiazioni da resurrezione quando non
si hanno altre sindoni, con o senza l’immagine dei rispettivi defunti, con
cui confrontare la nostra? A
questo proposito devo avvertire che lo studioso serio cerca solo la verità e
nient’altro. Circola una tesi priva di qualsiasi fondamento che utilizza un
passo del vangelo di Giovanni (XX, 3ss), per sostenere che Giovanni stesso si
rese conto fin dall’inizio dell’esistenza di una prova della resurrezione
di Cristo: « Uscì allora Simon pietro insieme all’altro discepolo
[Giovanni evangelista], e si recarono al sepolcro. Chinatosi, vide le bende
per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con
le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette »
(traduzione CEI).
Si afferma che Giovanni scrisse
il suo vangelo per
quarto, e dunque se qualcosa di straordinario fosse accaduto, tale da
dimostrare in sé stesso e magari permanentemente (volto o corpo impresso su
sudario o sindone) i primi tre evangelisti
avrebbero avuto tutto il tempo di dircelo, e state certi che ce lo
avrebbero detto. Dunque « vide e credette » appare piuttosto come un
meschino espediente per lasciar sospettare qualcosa ai semplici senza tirarsi
addosso l’accusa di truffatore che gli sarebbe venuta dai seguaci dei primi
tre vangeli. Ma cerchiamo tuttavia di interpretare noi, visto che Giovanni, e
con lui i suoi interpreti
interessati, è sibillino, cosa avrebbe potuto significare « vide e credette
». Prima però spieghiamo da dove viene fuori questa sindone o lenzuolo. I
vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) sono concordi nell’affermare che
questa fu acquistata da Giuseppe d’Arimatea che vi avvolse il corpo di
Cristo (enetylixen auto sindoni/involvit illud in sindone). Giovanni parla
invece di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo che (edesan auto othoniois/ligaverunt
illud linteis) lo legarono con bende (il che fa pensare immediatamente alla
classica mummia egizia). Il testo
è chiarissimo, e lo analizzeremo nel testo greco originario e latino (A. Merk,
Novum Testamentum Graece et
Latine Ed. XI, Romae, Sumptibus Pontificii Instituti
Biblici, 1992). Il testo greco di Giovanni riporta il termine othonia
tradotto col latino linteamina, cioè le bende, che dobbiamo intendere
(forzando un po’ il senso, a favore dei cristiani, perché ad essere precisi
dovremmo negare che Giovanni,
pseudo testimone oculare, sia al corrente dell’esistenza della sindone,
dunque a rigore la sindone non sarebbe mai esistita e ne farebbe testimonianza
Giovanni stesso) i teli in generale, cioè la supposta Sindone (un telo unico
che avvolge il corpo per lungo sotto e sopra unito dalla parte della testa) e
le bende poste di traverso da sopra e rimboccate sotto ad unire ciò che
altrimenti andrebbe per conto suo, e cioè i due lembi superiore e inferiore
della Sindone, all’altezza delle mani e dei piedi. A parte, ripiegato, i due
apostoli videro il sudario, greco soudarion, latino sudarium, che stava sulla
sua testa (su questo sudario per
ipotesi avrebbe dovuto esserci l’immagine
del volto di Cristo e dunque l’immagine sulla Sindone dovrebbe essere
decapitata e cioè con un rettangolo privo di immagini in corrispondenza del
volto a causa del ‘filtro’
costituito dal sudario). Dunque il telo della Sindone smentisce che sul volto
del morto relativo sia stato deposto un sudario. O Sindone o sudario quindi.
Noi, per non
tralasciare alcuna ipotesi, considereremo che ripiegato a parte gli apostoli
videro il sudario e in alternativa (anche se questo non è il dettato del
vangelo di Giovanni) la sindone.
Ma dove sta il fatto
sconcertante che fece capire a Giovanni che Cristo era resuscitato? Va
premesso che Pietro e Giovanni si recarono al sepolcro che era già stato
aperto (da chi ovviamente non lo sapremo mai) e dunque anche un trafugamento
avrebbe potuto esserci, come in effetti vi fu, tale da indurre Tiberio ad
emanare un decreto contro i trafugatori delle salme dei giustiziati, che è
stato effettivamente ritrovato in Palestina.
Quanto all’apertura
della porta del sepolcro si trattava di un’operazione agevole, spostando la
pietra circolare nella sua guida, mentre chissà, qualcuno s’immagina
qualcosa di simile alla pietra che chiudeva la caverna del gigante Polifemo, e
dunque alla necessità di un intervento trascendente come l’operato degli
angeli.
Dov’è la cosa
strana? Se Cristo fosse stato bendato come una mummia egiziana le bende
giacenti a terra sgonfie per la fuoriuscita del corpo ma ancora tutte
perfettamente intrecciate fra loro avrebbero potuto sorprendere chiunque e
costituire una prova della resurrezione. Disgraziatamente le bende sono
semplicemente le fasce trasversali che rimboccarono all’altezza delle mani e
dei piedi la sindone e la sindone stessa e dunque chiunque al limite avrebbe
potuto disporre il tutto nella
posizione originaria, mentre il testo non ha nemmeno questa pretesa.
Del resto Giovanni vide e capì solo quando entrò dentro il sepolcro e
vide il complesso dei teli, e non quando semplicemente per primo si affacciò
e sbirciò vedendo le sole bende giacenti!
Allora passiamo al sudario ripiegato a parte. Se Cristo fosse stato
bendato come una mummia il sudario a parte sarebbe una prova del fatto che da
dentro il medesimo sarebbe uscito fuori portatovi ovviamente da qualcuno, e
cioè Cristo in persona, e magari con la sua impronta del volto per dare più
valore alla cosa. Disgraziatamente Cristo non fu bendato come una mummia e
dunque mettere il sudario a parte ripiegato non costituisce prova alcuna.
Però si noti bene che il testimone oculare Giovanni è un buon falsario.
Prima, contro la verità attestata dai suoi predecessori (dunque che testimone
oculare è se anche Matteo che è apostolo dice il contrario?), induce a
pensare ad una mummia all’egiziana, poi fa balenare l’idea di
un’immagine di Cristo sul sudario. E’ da qui che nascerà l’idea
di fabbricare il Mandylion.
Dopo tutto questo
discorso andiamo a vedere cosa
dice realmente Giovanni: « e vide e credette. Non avevano infatti ancora
compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti » (Giov.
XX 8ss). Cioè vide e credette che Cristo era risorto… poiché non lo trova
nel sepolcro. Se fosse stato lui a spostare la pietra avrei potuto anche
capirlo, ma arriva, e le donne prima di lui arrivano, e trovano
la pietra già
spostata… non si saprà mai da chi. Dunque il Sopolcro era aperto…
e lui ne deduce che mancando il corpo questo è resuscitato, cioè si è
smaterializzato. Da questa logica così carente dobbiamo farci un giudizio
assai negativo sul quoziente intellettivo sia degli Ebrei che dei Cristiani.
In linea con quella dello pseudo Giovanni, è l’ingenuità di Pietro, che «
tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto » (Lc. XXIV 12). Per fortuna
questa ingenuità giudeo-cristiana è alla base di una letteratura (Omero
compreso) assai ricca e fantasiosa, che narra le favole (vedi Omero) come se
fossero fatti reali, tant’è vero che ancora oggi c’è chi giura sulla
verità storica dell’arca di Noè, e la va a cercare scalando l’Ararat, o
della guerra di Troia o di ogni particolare evangelico riguardante la vita di
Cristo narrato nei quattro vangeli.
Il vangelo di Luca
documenta che solo Pietro [non Giovanni evangelista] si recò al sepolcro e
vide semplicemente e genericamente gli othonia/linteamina, le bende
(XXIV, 12ss) e se ne tornò indietro meravigliato, anima semplice, di
quanto avvenuto, cioè della sparizione (per lui ovviamente resurrezione) del
corpo.
Il vangelo di Matteo
tace del tutto sull’apparizione delle bende agli apostoli. Il vangelo di
Marco evangelista tace ugualmente del tutto
sull’argomento. Ciò la dice lunga sul significato da dare a quel « vide e
credette ». Se vogliamo, anche dall'evoluzione di questo episodio nei vangeli
si ricava al contrario che proprio il vangelo di Giovanni è stato scritto per
primo con le sue favole, poi ridimensionate al massimo dalla rilettura degli
altri vangeli man mano che rispondevano alle critiche di faciloneria dei
pagani e di coloro che rifiutavano di essere evangelizzati da impostori così
troppo ingenui e sempliciotti.
Se il sudario o la
sindone avessero ricevuto davvero l’immagine del volto o del corpo di Cristo
questo fatto non avrebbe costituito una prova della resurrezione ma sarebbe
stato importantissimo come reliquia anzi come somma reliquia e possiamo star
certi che ne avrebbero parlato, e da subito, i vangeli, e tutti i papi, vescovi,
santi e beati e semplici monaci che per altre sciocchezze ritennero invece di
scrivere e scrivere a volte moltissimo. Io non so di alcuna testimonianza né
nei vangeli né posteriore, fino al Medioevo, della venerazione di due icone
naturalmente prodotte da Cristo stesso al momento della sua permanenza per tre
giorni nel sepolcro fino alla sua ‘resurrezione’. Eppure, come tutti
sanno, i cristiani amarono dai primi tempi fino al Medioevo e oltre di
fabbricare false reliquie, compresa, se ricordo esattamente d’aver letto nel
celebre romanzo (Il Nome della Rosa) di Umberto Eco, una testa di San Giovanni
Battista, di quando aveva otto anni…
Scherzi a parte, i
Cristiani conservano praticamente tutte le reliquie della passione di Cristo:
a scelta, varie colonne della flagellazione, spine e corone di spine, titoli
(contenenti la motivazione della condanna a morte), legni della croce, sudari
(come il Velo della Veronica o Volto Santo o Santo Sudario che dir si voglia
conservato a S. Pietro in Vaticano, Moroni, vol. 103, pp. 91-99, vol. 55 p.
265 e vol. 88 p. 231, vol. 103 pp. 92-93, la cui immagine del volto non ha
nulla a che vedere, ed è certo un falso, e invece per ipotesi dovrebbe
combaciare, con quella della Sindone), velo/perizoma sulla croce che secondo
il Moroni, Dizionario di
erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro ai nostri giorni, vol. 77, p.
90, si conserverebbe nella chiesa
di S. Giovanni in Laterano a Roma (rinvio a quanto ho scritto a proposito
delle tracce che di questo velo si dovrebbero vedere sulla Sindone), chiodi, ecc.
ecc. Si tirano in ballo tante
scuse per spiegare il silenzio durato tanti secoli sull’esistenza del
sudario e della sindone con l’immagine presunta del volto e del corpo di
Cristo. E’ vero che fino a Costantino i cristiani furono perseguitati, sarà
pur vero che in terra ebraica esporre un telo funebre oltre tutto con un’immagine
sarà stato proibito… Il fatto è che di queste icone per ipotesi
straordinariamente sante non è fatto cenno in nessun testo cristiano dei
primi secoli, anche quando l’Oriente era esclusivo dominio dei cristiani. Nei loro testi che pure
sono sopravvissuti tutti alle persecuzioni di ogni genere e in grandissimo
numero, i cristiani mostrano di non conoscere l’esistenza del sudario e
della sindone con l’icona di Cristo. Questa è la sola cruda verità.
Del resto il pagano
Celso (II-III sec. d. C.), che è scrupolosamente informato
sui cristiani (e come avrebbe potuto non solo informarsi ma anche
scrivere su questo argomento se fosse stato vietato da qualcuno? Come avrebbe
potuto scrivere lo stesso Origene la sua confutazione?) e contesta che la
nascita di Cristo sia stata annunciata dalla cometa, quanta maggiore materia
di discussione avrebbe avuto confutando l’esistenza di un velo dipinto a
mano eventualmente con sangue umano (pratica ripugnante ad ogni etica qualora
un simile velo i cristiani avessero davvero confezionato) o di una Sindone (la
nostra Sindone)?
Invece il più
assoluto silenzio. Come avrebbero potuto Celso e i Cristiani stessi discutere
dell’immagine di un uomo brutto e insignificante come Cristo secondo le scritture
se avessero avuto a disposizione almeno la sua immagine sulla Sindone, che al
contrario è di un bel pezzo d’uomo che certo non poteva passare inosservato
fra i semiti brutti, piccoli e neri, di Palestina?
Ad avvalorare l’ipotesi
che il morto non sia Cristo c’è la descrizione fisica che l’antichità ci
ha lasciato del medesimo. Sia ben chiaro che per i Romani di allora Cristo fu
un perfetto sconosciuto. La sua fama seguì solo alla vittoria dei cristiani
nel III d. C. che del resto essi pure conservano pochissime o nulle informazioni attendibili sulla
sua figura esteriore. Secondo Celso, che nel II-III d. C. scrisse contro i
Cristiani il ‘Discorso della
verità’ Cristo « come dicono, era piccolo, brutto e volgare » (VI, 75).
Secondo Giustino, Trif. 14,8 « fu
annunciato che apparirà senza gloria, senza bellezza e soggetto alla morte
». Secondo Clemente Aless. Pedag. 3,1 « Che lo stesso Signore sia stato brutto all’aspetto, lo testimonia lo Spirito per
mezzo di Isaia (53,3): e lo vedemmo e non aveva bell’aspetto, né bellezza,
ma il suo aspetto era senza pregio ».
Per la verità Isaia
53,2 (ed. Paoline) dice: « senza grazia, senza beltà da attrarre lo sguardo,
non aspetto da doversene compiacere » e Isaia 53,3 « Disprezzato, rifiuto
dell’umanità, uomo di dolori, assuefatto alla sofferenza, come uno davanti
al quale ci si copre il volto, vilipeso, e di nessun conto per noi ». La
traduzione della ed. ufficiale della CEI è sostanzialmente la stessa.
Viceversa l’uomo
della sindone è un uomo ben fatto e di bella statura (e, come si dice,
altezza, mezza bellezza). Concludendo, delle due l’una, o sono false le
profezie o la sindone non contiene l’immagine di Cristo. O entrambe le cose.
No, no, no e poi no. La Sindone è un falso cristiano medioevale.
Chi realizzò la
falsa Sindone si documentò in modo da non sollevare i sospetti di falso
inserendo tutto quel che circolava nelle fantasie dei pittori del tempo oltre
quanto poteva apprendere dai Vangeli. La prima crociata fu promossa nel 1095. Con tutta
verosimiglianza la sindone fu realizzata a supporto delle crociate. Andare a
liberare il sacro lenzuolo con l’immagine di Cristo sarebbe stato più
stimolante per i volontari di questa armata Brancaleone. E’ perciò possimile che il nostro falso dati
perfio all’XI sec. a. C. Tenuto conto che
l’inquinamento carbonico della sindone l’ha ringiovanita si spiega una
datazione al radiocarbonio più recente di quella effettiva. La Sindone è
sempre rimasta nelle mani di persone normali, e mai fu contesa da re o alte
gerarchie della chiesa. Ciò basta già a farlo ritenere quello che è, un
falso. Ne L’Histoire de ceux qui conquirent Constantinople di Robert de Clerì,
che partecipò alla IV crociata si parla di un « monastero chiamato Santa
Maria delle Blacherne, dove stava la Sindone in cui fu avvolto Nostro Signore,
che ogni venerdì si alzava tutto dritto, così che se ne poteva vedere bene
la figura ». Lo stesso de Clarì dice che « Nessuno, né greco né latino, conosce cosa avvenne della Sindone dopo il
saccheggio della città ».
I Cristiani dapprima
cominciarono a produrre false reliquie della passione di Cristo e poi anche
sulla base del sibillino « vide e credette » di Giovanni anche falsi sudari.
Pensare di dipingere il corpo intero su lenzuolo fu passo breve. L’immagine
detta Mandylion, fazzoletto, ebbe una certa fortuna in oriente e nel 944 fu
portata da Edessa in Turchia a Costantinopoli. Secondo lo storico inglese Ian
Wilson questa era la Sindone ripiegata in modo da potersene vedere la testa e
dunque apparire come se fosse un sudario. Contro questa ipotesi c’è il
fatto che la Sindone è ripiegata in 48 rettangoli e la prima fra tutte le
pieghe è proprio quella longitudinale mediana che taglia cioè a metà per
lungo l’immagine del morto. Le quattro bruciature a L di cui abbiamo detto
provano che in età più antica il lenzuolo era ripiegato in 4 o 12
rettangoli. Queste piegature originarie sono state conservate da quelle
posteriori in 48 rettangoli, ciò che prova che mai nessuno si azzardò a
piegare in maniera diversa il lenzuolo per non creare ulteriori inutili danni
allo stesso (anche se in effetti il primo danno fu proprio quello di piegare a
metà il lenzuolo longitudinalmente; ma ciò si può spiegare proprio perché
si sapeva di aver a che fare con un falso, altrimenti si avrebbe avuto più
rispetto per il volto di Cristo). Se lo storico inglese avesse ragione le
pieghe tradizionali sulla Sindone sarebbero ben diverse.
La confusione fra
volto e corpo intero riprodotto su tela avviene ben presto, per cui fu facile
interpretare il Mandylion come una sindone con impresso tutto il corpo, ciò
soprattutto dopo che il falso della Sindone era già circolante. E’ per
questo che in una miniatura del XIII secolo nel codice Skylitzes alla
Biblioteca nazionale di Madrid il Mandylion all’arrivo a Costantinopoli,
ossequiato dall’imperatore Romano I Lecapeno, è già raffigurato come se
fosse una sindone e cioè una testa di uomo con capelli corti e barba corta
che esce dalla metà di un lenzuolo completamente bianco.
Come che sia è certo
che questo Mandylion, sudario o sindone che sia, non è la nostra Sindone, era
certamente anch’esso un falso, e andò distrutto nell’incendio che nel
1349 distrusse la cattedrale di Santo Stefano a Besançon dove, secondo un
documento (andato distrutto nella seconda guerra mondiale) copiato dal
paleografo e umanista Benedetto d’Acquisto, sarebbe stato inviato da Otto de
la Roche, duca di Atene dal 1205 alla morte avvenuta nel 1225.
Il corpo del morto
della Sindone è nudo, mentre è del tutto verisimile che Cristo avesse uno
straccio attorno ai fianchi, straccio che nessuno, credo, avrebbe mai osato
togliergli (violando con la vista l’intime parti del corpo di un dio) per
cospargerlo di unguenti al momento della sepoltura. Dei contorni di questo
perizoma non v’è traccia.
Anche il rinvenimento
sulla Sindone di polline della Terra Santa, Turchia, fino alla Francia e alla
Savoia non dice null’altro se non che la sindone fu confezionata in Terra Santa (e ciò è
pacifico, perché solo qui poteva essere confezionato un falso; mentre, se
Knight e Lomas avessero ragione la sindone portata candida dalla Palestina
sarebbe stata impressa fotograficamente nel 1307 e a Parigi da un de Charney,
ciò che non mi persuade) e da qui
giunse, come bene sappiamo in Francia dove poi divenne proprietà dei Savoia.
Nessuno, che io sappia, è in grado di affermare che il polline trovato sulla
sindone è proprio il polline del tempo di Cristo e non quello generico della
Terra Santa di ieri come di oggi. Solo un’analisi del sangue del morto della
sindone (confrontandolo magari con la raggiunta mappatura del DNA) potrebbe
dimostrare che il sangue dell’uomo della sindone non può essere
quello di un ebreo (e magari confermerebbe che appartiene ad un europeo), e
potrebbe dirimere la questione definitivamente. Questa e solo questa era l’indagine
che l’autorità ecclesiastica avrebbe dovuto e dovrebbe autorizzare come l’unica
capace, come si dice, di tagliare la testa al toro. Ma considerato il fatto
che troppi interessi religiosi e d’altro genere vengono toccati a quanto
pare quando si parla di questi argomenti ritengo che ci sarà sempre qualcuno
disposto a rimettere in gioco anche l’eventuale responso degli esperti del
DNA. Sembrerebbe che si tratti di sangue, maschile… e anche femminile.
Pier Luigi Baima Bollone sostiene che il sangue della Sindone è di
gruppo AB.
Se il sangue dovrebbe
esserci è evidente che sulla Sindone ci sono anche aloe e mirra, che invece
non dovrebbero esserci, a meno che il vangelo di Marco e Luca dichiarino il
falso. Secondo Marco la domenica le donne comprarono gli aromi per imbalsamare
Gesù, ma giunte al Sepolcro lo trovano vuoto e dunque non li utilizzano (XVI
1ss). Secondo Luca le donne di sabato seguono Giuseppe d’Arimatea e si
rendono conto dove depone Cristo, avvolto nel lenzuolo, poi comprano aromi e
profumi ma essendo sabato stettero in riposo. La domenica vanno al Sepolcro e
lo trovano vuoto (XXIII 53ss-XXIV 1ss). Si noti che il particolare degli aromi
comprati ma non usati deve essere autentico, poiché essi erano essenziali nel
rituale funerario giudeo e dunque
si poteva anche omettere di parlarne come cosa scontata. Tant’è vero che
Matteo, come e prima degli altri, dice che Cristo fu avvolto nel lenzuolo e
non parla di aromi, evidentemente perché,
come sostengono gli altri due, non ne furono usati (XXVII 59ss). Chi parla di
aromi (proprio aloe e mirra) è lo pseudo Giovanni (XIX 38bss), che
sicuramente non fu testimone della vita di Cristo (e se ha azzeccato la
circostanza degli aromi s’è sbagliato sulla sindone, cui non fa
riferimento, dando l’idea che Cristo sia stato fasciato alla maniera di una
mummia egizia). Ma il falsario medioevale lo credette invece come il più
ispirato e lo seguì nell’aggiungere al suo falso anche gli aromi.
Inoltre le bende trasversali non furono utilizzate sulla sindone di Torino perché non avrebbero mancato di lasciare indirettamente le proprie tracce, che invece mancano.
Dato quanto precede
non posso accettare i risultati della ricerca, peraltro certamente condotta in
piena buona fede, fra gli altri dal prof. Pier Luigi Baima Bollone, presidente
del Centro internazionale di Sindonologia, che dichiara:
« Abbiamo raggiunto
la certezza che le due tanto discusse monetine esistano senza possibilità d’errore
» (Teologica, Edizioni Segno, Udine, n° 14 marzo/aprile 1998, p. 5). Si
tratterebbe di due monetine sull’occhio destro e sinistro del morto
emesse nell’anno 16 dell’impero di Tiberio, dunque nel 29 d. C.,
dal prefetto Ponzio Pilato, monetine di circa 17 millimetri di diametro che di
solito portavano sul recto la dicitura in lingua greca (la lingua della parte
orientale dell’impero, dove il latino era pressoché sconosciuto e comunque
snobbato) TIBERIOU KAICAROC, con il sigma lunato C, e con differente immagine
impressa, sul recto della prima un lituo e su quello della seconda un
simpulum, la coppa delle libagioni pagane. Queste monetine sono
conosciute e fotografate in vari esemplari sia sul recto che sul verso. Che
però corrispondano a quelle supposte impresse sulla Sindone è un altro
discorso. Cominciamo con la prima. Vi sarebbero impresse solo le lettere UCAI,
presunte corrispondenti al greco (TIBERIO)U
KAI(CAROC), con U italiana (i latini avrebbero scritto V) e C latina! Una
contaminazione latino-greca è inammissibile. Pertanto
la moneta è stata scritta interamente in latino, il che è
inverosimile. Dunque se davvero questa dicitura è visibile sulla sindone si
tratta di un falso. Cosa pensare di una moneta
scoperta nel 1992 con lo stesso… errore di conio e addirittura riportante
sul verso l’anno di conio in lettere latine LIS (anche se nell’esemplare
– con conio corretto, in greco – disegnato
a p. 239 leggo LIZ), che, non capisco come, vorrebbe indicare il 16°
(o 17° o 18°) anno di regno di Tiberio (14-37 d. C.). Passiamo alla seconda
monetina che sul recto, dopo l’iscrizione greca già detta, di cui conserva
solo le tre lettere iniziali TIB, e oltre all’immagine del simpulum,
conserva, sempre sul recto, la sigla LIS, in latino, che convenzionalmente
(chi lo dice?) significherebbe il 16° anno del regno di Tiberio. Io confesso
di non riuscire a distinguere nulla delle dette monetine che « sull’originale
e nelle fotografie si distinguono con estrema chiarezza » (P. L. Baima
Bollone, Sindone la Prova, Nuovi Misteri, Oscar Mondadori, p. 241). Accludo in fondo a questo lavoro le foto che
evidenzierebbero tale estrema chiarezza (ma lo stesso professore di seguito
dice: « La realtà è che qualora vi fosse davvero la presenza delle due
monetine in corrispondenza delle due orbite, il che viene confermato da più
parti… »; ora disgraziatamente una certezza è tale in base a quanto ci
dice la scienza e non perché
confermata da molti che si possono sbagliare). E’ però interessante che il
prof. Pier Luigi Baima Bollone affermi che « In realtà… le due monetine…
sollevano un maggior numero di dubbi rispetto a quelli che risolvono… le
dimensioni delle scritte sono al di là delle possibilità teoriche di
impressione di una struttura tessile come quelle della Sindone… non è noto
un uso giudaico di quell’epoca di porre… delle monetine, sulle palpebre
dei defunti… E’ quindi inspiegabile come per la sepoltura di un Maestro
come indiscutibilmente era Gesù siano state messe sulle palpebre del suo
cadavere monete contrarie alla sua fede e ai suoi insegnamenti », offendenti
coi loro simboli del potere romano la sensibilità e l’orgoglio dei giudei
sottomessi (P. L. Baima Bollone, op. cit. p. 242). Ma se le monetine ci sono
davvero il falsario della Sindone ha commesso un errore, anzi due, e cioè la
falsificazione della prima monetina e l’aver messo entrambe le monete dalla
parte del recto e anche in posizione verticale: « Ciò che è certo è che le
due monete sono state entrambe orientate secondo il loro asse verticale, vale
a dire in maniera che potessero essere viste e lette da chi osservava il volto
del cadavere » (P. L. Baima Bollone, op. cit. p. 242).
Dunque le monetine
sulla Sindone non ci sono (almeno io non sono capace di vedere le ‘prove’
addotte in foto dal prof. Baima Bollone), ma se per avventura ci fossero
sarebbero la prova delle prove del falso, perché chi pone le monete su un
cadavere, per legge, per consuetudine, per pratica religiosa, ecc. ha il solo
scopo di deporre due piccoli oggetti sulle palpebre per tenerle abbassate, per
il traghettamento all’Aldilà o
altro. Non si cura di metterle dal dritto o dal rovescio, datosi che il loro
valore venale è noto ad una sommaria occhiata… anche dall’eventuale
Caronte. Il nostro falsario medioevale - molto furbo e abbastanza
documentato... anche troppo - s’è tradito volendo dare una prova temporale
della sua immagine di Cristo confezionata in lenzuolo.
In
Since
1988 I have been conducting research which is looking very seriously at the
possibility that a form of photography was the cause of the image on the Shroud.
It has been discovered that a person can very easily make a permanent
photographic negative image on linen which utilises chemicals and substances
which collectively, were known to have existed at least by 1280 AD, viz:
·
silver nitrate (in
solution), (4)
·
ammonia (in
solution),
·
linen cloth
(which naturally contains cellulose, hemicellulose, lignin, pectin etc.,
·
natural
quartz (optical quality)
·
magnifying
glass or bi-convex lens.
It
has been found that if any three-dimensional object (including a deceased
human subject) (5)
is set up in front of a camera obscura and is illuminated by direct sunlight
over a period of a few days, (6)
that a negative purple-brown image will form on linen cloth which has been
impregnated with silver nitrate in solution. In addition, this image may be 'fixed'
simply by soaking the cloth in a mild solution of ammonia. During this process
the image turns to faint straw-yellow. This image is in the negative and only
forms on the upper fibrils of the linen material. In other words, no image is
visible on the reverse side of the cloth. This image is extremely subtle and (like
the images as viewed in a camera obscura with pin-hole apertures and apertures
with a fixed lens) not easily discernable at close range. In addition the
image is not a 'snap-shot' of a particular moment in time (as is the case with
most modern photographs). Rather it is the record of the passing of many days.
This means that those parts of the body which have literally received more sun
(such as the bridge of the nose, cheeks, eye brows etc) are registered more
intensely on the cloth than those areas which were further away (such as the
neck, sides of the head etc) or received less radiation (such as the sides of
the nose).
Although
an image may be focused onto a piece of linen cloth by means of a simple
bi-convex lens and this image (viewed at the correct distance) is clearly
visible with the naked eye (inside the camera obscura) it was discovered that
in actual fact, the visible spectrum had no discernable affect on the
silver-nitrate solution at all. Rather, it was the action of ultra violet
radiation (specifically 320 - 190 nm) that actually formed the image over a
period of many hours. In this regard a glass lens is quite useless for this
technique since glass absorbs ultra violet light whereas quartz will not.
It
was also discovered that if the subject (to be 'photographed') was painted
white that the image formation would take place in considerably less time. In
short, increased reflectivity of the surface of the subject ensured that
higher concentrations of ultra violet radiation would enter the camera obscura.
In many ways the images that were achieved had all the characteristics of a
severe suntan and were uncannily similar to the image on the Shroud of
Turin (Cf plates 5, 6 and 7). I am certain, that if a human subject could
be found who has the identical physiognomy to the unfortunate man who died
sometime before 1357 AD, that for all intents and purposes an identical image
could be achieved today. Stigmata and other 'blood' areas on the Shroud
were most probably daubed on by brush in real blood (with or without a slight
addition of red ochre) after the negative body image had been achieved (this
latter image needing two separate exposures to obtain the frontal and dorsal
views of the suspended man).
Osservando
questo modello che compare sul sito di Allen si può notare che il morto è
appeso a un cappio. Baima Bollone nel libro citato scrive che «
Il capo, senza appoggi, è flesso in avanti in maniera che il volto risulta
piegato verso il petto. Questa posizione forzata fa sì che manchi l'immagine
anteriore del collo, mentre essa risulta allungata all'indietro. »
(p. 100)
This
subject (corpse) would have had to have been situated opposite an aperture (containing
a simple bi-convex quartz lens) of a light-proof room (camera obscura).
Inside this room or camera, it would have been necessary for a large screen to
support the linen cloth (Shroud) which had been previously treated with a very
dilute solution of silver-nitrate (0.5%). The inverted image of the corpse
would have been focused onto this prepared support and after a few days the UV
sensitive silver-nitrate or silver-sulphate would have turned purplish-brown,
forming as it did a negative photographic image of the subject (cf plates 4
and 5). In order to achieve the two-fold image which now appears on the Shroud
of Turin, it would have been necessary for this operation to have been
repeated twice so as to obtain an impression of both the frontal and dorsal
images of the sun-illuminated corpse. After both exposures had been completed
the linen cloth would have been soaked briefly in a dilute solution of
ammonium hydroxide (5%) or possibly even urine. This latter action would have
ostensibly removed all silver (both exposed and unexposed) from the linen
cloth and also allowed for it to be exhibited outside of the camera without
further discolouration occurring.
However,
despite this, the cloth would have still contained a faint negative
straw-yellow image -one which seemed to be encoded in the very structure of
the linen itself, albeit on the upper fibrils (cf plate 6) 1,2.
Towards
formulating a theoretical model for image formation
From
this visible result, the following hypothesis may be conjectured:
*
the purplish-brown image (Plate. 5) is caused by reduced silver-nitrate in the
presence of UV radiation;
*
after immersion in an ammonia solution, most of the silver is removed from the
linen cloth; and
*
the resultant straw-yellow image is formed not by the presence of silver but
by a structural (chemical) alteration to the linen (cellulose) itself.
To
examine this hypothesis a number of tests were conducted...
Discussion
In
the light of the work undertaken by the STURP commission in 1978 and from the
data reviewed briefly in this article, it is possible to propose a
hypothetical model for both the nature and the causes of the structural
alteration which occurs to the cellulose of organic fibres such as linen,
cotton and hemp when they are saturated in silver-nitrate solution, exposed to
UV radiation and immersed in dilute ammonia, viz:
The
silver-nitrate is reduced by the actions of the UV range of the light spectrum.
This reduction may be expressed chemically as
Ag
NO3 UV radiation Ag+ NO-3
and
is thus responsible for the production of free radicals (either silver or
nitrate ions) which cleave the molecular chains which form the cellulose
structures of the linen fibrils. These cleavages (oxidation) are possible in
certain places along the cellulose polymers (ie both branched and linear
structures). It should be kept in mind that linen is a very complicated
structure and that it would be very difficult to state with any degree of
certainty, the specifics of these cleavages. In this regard, the following
diagram (Figure 1) is a proposed model which explains one possible occurrence
of photochemical degradation of a typical carbohydrate polymer (such as may be
found in an organic fiber such as linen).
Figure
1
Showing
reaction type a: photochemical oxidation; and type b: hydrolytic cleavage (Chemical
notation by Mr Ray Venter, PE Technikon)
Figure
1a represents a section of a carbohydrate polymer, if this is saturated with a
silver salt and subjected to UV radiation, photochemical degradation of the
carbohydrate polymer will result. In the case of silver nitrate, the silver
ions would reduce to silver atoms, releasing radicals which would cause a
photochemical degradation of the carbohydrate (cellulose) polymer. In addition,
the nitrate anions may also form radicals which would speed up the process of
photochemical degradation. In the case of silver sulphate, the silver ions
would reduce to silver atoms, releasing radicals which would cause a
photochemical degradation of the carbohydrate (cellulose) polymer. It is
unlikely that the sulphate anions form radicals to any significant degree (if
at all) and this point is supported by the fact that it takes longer to
produce a 'shroud' with silver sulphate than with silver nitrate.
Figure
1b shows subsequent hydrolytic cleavages that would occur as a result of the
photochemical degradation. This chemically induced oxidation of the cellulose,
which is structurally similar to oxidation caused by natural ageing and
scorching is proportionally more prevalent on the upper-most fibrils which
constitute the linen threads and is presumed to be more intense in low
crystallinity zones.
It
is also important to note that in addition to the possible cleavages caused
directly by the action of either silver or nitrate ions (free radicals) as
stated above, the possibility equally exists that these free radicals could
give rise to an energy transfer. Briefly stated, as a result of the action of
UV radiation, the generated radicals (either silver or nitrate ions) could
cleave the hydrogen bond of the hydroxyl group of cellulose. This in turn
could liberate a hydrogen ion which could also be responsible for yet further
cleavages in any of the following cellulose groups, viz:
*
the carboxyl group;
*
the ketone group;
*
the adelhyde group;
It is quite certain that it is not possible to achieve the very specific qualities of image as found on the Shroud of Turin (Plate 1) and the 1992 test samples (Plate 6) by any artistic or natural process which involves the use of vapours, dyes, pigments, powders or stains. It is known that the Shroud was most likely manufactured sometime after the mid-thirteenth century 10 (definitely not later than 1357 AD), and is not miraculous. It would seem therefore, (subject to further corroborative testing of the Shroud itself), that the hypothetical photographic technique as elucidated earlier in this article, is the only plausible explanation for image formation on the Shroud of Turin and implies very strongly that persons living in the late thirteenth or early fourteenth century were indeed privy to a photographic technology which was previously thought to be unknown before the beginning of the nineteenth century.
Since 1990, the author has conducted a number of
experiments which have employed the kind of technology available to certain
medieval societies c 1200 - 1350 AD, and has shown that it is quite possible
to produce a fixed negative photographic image on a piece of linen employing
only three substances, all of which (as will be proved) were available to
persons living well before the thirteenth century. These substances are quartz
(rock-crystal), silver nitrate (eau prime and silver) and ammonia (Allen,
1993a & 1993b).
More
specifically, if a piece of linen, permeated with
a dilute solution of silver nitrate is positioned inside a camera obscura (see
plate 1, 2 and 3), it can record (in the negative) the details of a
sun-illuminated subject situated outside of the camera. This image is focussed
onto the linen cloth by means of a quartz bi-convex lens. It is important to
stress here, that a glass lens will not suffice for this purpose, because only
optical quality quartz will permit the passage of UV radiation from the
subject to the silver nitrate impregnated linen and silver nitrate is only
sensitive to the UV end of the light spectrum (specifically 195 to 240 nm).
The image thus obtained (see plate 2) is faint, extremely subtle and (surprising
as it may seem), chemically stable. By immersing the cloth in urine or dilute
ammonia it is possible to remove all traces of silver (reduced or otherwise),
and the cloth together with its encoded image may be brought out of the camera
into the light of day. The image is only visually coherent at a distance of
some two metres, appears only on the upper fibrils of the cloth and is a
record of the illumination of the subject over a period of days. For this
latter reason, the visual record contains a negative encoding of the
three-dimensional characteristics of the original subject. In this context at
least, the image is unlike a modern photographic negative in that it is not a
snap-shot of a particular moment in time, but rather the record of the
original subject according to the physical distance of a particular feature of
the subject from the prepared linen cloth.
Is it really possible that someone living in the late
thirteenth century had the necessary knowledge to produce the Shroud by means
of a photographically related technique? Surprising as it may seem, this was
quite possibly the optimum period for this type of scientific/artistic
innovation. For example, if one reviews both the level and the kinds of
technology available in the late thirteenth and early fourteenth centuries one
is immediately struck by the fact that there was a particularly great interest
in the subject of optics between 1250-1350. This undisputed fact is borne out
by the number of important natural scientists and philosophers of both the
Latin Christian west and the Moslem east who concerned themselves with optical
issues 5.
Most authorities agree that this interest was due to
the singular influence of the Kitab al-manazir of Ibn
al-Haytham. This publication was known in the West as early as the thirteenth
century as the Perspectiva or De aspectibus.
This was later published by Friedrich Risner along with Witelo's Perspectiva
as the Opticae thesaurus Alhazeni Arabis libri septem
in 1572. Sarton (1947 : 141) asks
How shall we account for such ubiquitous and
simultaneous efflorescence? The explanation is that all these scholars were
drinking from the same source, which became available to them (or which they
were ready to use) at about the same time. That source was the Kitab
al-manazir.
Figure
1
Diagram illustrating Al-Haytham's theory of
image formation. (Lindberg, 1968 :
155.)
Abu `Ali al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham (known as
Alhazen or Alhacen in the Latin west) lived in Arabia c 965 - c 1039 AD and
not only produced the Kitab al-manazir but numerous
other texts which covered such subjects as optical illusions, the height of
the atmosphere, the apparent increase of the size of the moon near the horizon
and atmospheric refraction, perspective, binocular vision, shadows and colours.
In addition he produced a treatise on burning mirrors (translated into Latin
as the De speculis comburentibus). More importantly,
he also wrote on the structure of the human eye and the camera obscura. In
particular, he formulated a detailed and fairly accurate analysis of pinhole
images 6. In addition, al-Haytham was probably one of the first recorded natural
scientists to realize that images, produced by the aid of an aperture (finite
or geometric) were in fact composite. In other words, he fully realised that
the image is formed by the superimposition of an incalculable number of image
patches, each in the shape of the aperture and each radiated from every point
of the object (see figure 1). These overlapped images give the soft-focus
appearance of the original object and not the shape of the aperture. This of
course explains why a pinhole image is more focussed in appearance than an
image produced with the aid of a larger aperture. Hence, an image in a camera
obscura may only be discerned at some distance and often is unrecognizable at
close range.
If one doubts that medieval cultures had light
sensitive substances at their disposal it is worthwhile to consider that a
number of very simple chemical compounds that are more or less sensitive to
light exist in the natural world. The most obvious examples being silver
chloride and silver nitrate.
Silver
chloride, which is a solid (often produced by
precipitation), is not soluble in water and whether in liquid suspension or
dry powder form is extremely sensitive to the action of sunlight. Mellor (1922
: 390), informs us that in nature, silver chloride occurs in veins of clay
slate together with other silver ores, and is known as
horn
silver, chlorargyrite, ceragyrite, or keragyrite...[t]here can be little doubt
that silver chloride was known in the time of Pliny for in his Historiae
naturalis...he refers to operations in which this compound must
have been formed. Geber also, in his Summa perfectionis magisterii,
describes its color mirabilis.
If used as a light sensitive emulsion/solution on a
suitable two dimensional support it will form a latent image fairly rapidly.
After some time a visible dark grey-brown discolouration will appear.
Silver
nitrate, is highly soluble in water and will
change from a colourless to a purplish-brown liquid in the presence of direct
sunlight. There is much evidence for the existence of this reagent in both
medieval Christian and Moslem societies. Jabir ibn Haayan (Geber) (died c 815
AD), in his De inventione ventatis (12th or 13th century AD) not only
describes how silver nitrate may be prepared by dissolving silver in nitric
acid (eau prime) but also showed how silver nitrate (as a solid) may be
prepared by crystallization from a solution of silver in diluted nitric acid.
(Mellor, 1922 : 459.)
In
addition, there is no doubt that Albertus Magnus (c
1193/1207-1280), must have also produced silver nitrate. Although he doesn't
give this reagent a name, he does mention that silver dissolved in eau prime
`tingit cutem hominis nigro colore et difficulter mobili' (Hoefer, 1866 :
389). However, no evidence exists that Albertus Magnus or indeed any other
alchemist or metallurgist (before the seventeenth century) knew exactly why
silver nitrate changed colour. Even so, given the early occurrence of this
reagent in western history, it would be safe to assume, that both silver
nitrate and silver chloride could have been employed by a hypothetical
medieval `photographer'.
If one also doubts that medieval cultures had the
ability to produce bi-convex lenses, then one should consider that until quite
recently, most authorities believed that the die-sinking and gem-cutting tasks
of ancient times were undertaken by persons who were very short sighted. (Beck,
1928 : 327.) Such persons, (according to this scenario) would have been much
sought after since they would have possessed (in effect) a pair of magnifying
glasses permanently attached to their eyes. Beck, 1928 : 327) states that
[t]his
idea is so prevalent that when ancient magnifying glasses are found, scholars
go to the trouble of trying to find some other use to which they could be put,
the favourite suggestion being that they must have been ornaments.
In
fact, the invention of glass and the subsequent
manufacture of lenses may be traced back to Predynastic Egypt, the Ancient
Near East and the Aegean. In this regard, a large piece of blue glass was
found at Abu Shahrein in Mesopotamia which dates from c 3000 BC.
Magnifying glasses were not always made from glass and
many have been found which are made from crystal (optical quality quartz).
This latter point is important, since it implies that the discovery of the
lens does not necessarily depend on the manufacture of glass per se. In this
context it is interesting to note that in the British Museum there are housed
two Egyptian magnifying glasses. They are now tarnished through age, but
originally would have been quite able to focus the Sun's rays. Both lenses,
are about two and a half inches diameter (55 mm) and three and a half inches
focus (80 mm), which would mean they could magnify about three diameters. Both
of these examples, which I have seen at first hand, are ground glass lenses
and are not cast. Both of these lenses were found at Tanis and have been dated
to c 150 AD.
Although, as has been ascertained, the late thirteenth
century witnessed the genesis of what was to become the scientific era and by
employing the levels of technology available to this period it is quite
possible to produce a 'photographic' or 'solarographic' image on linen,
medieval alchemists and natural scientists were more inclined to understand
their world in terms of both symbol and allegory. For them, the world was
filled with constant reminders of God's divinity (Eco : 1986 : 53).
For example, important medieval thinkers such as St
Thomas Aquinas, in keeping with the Aristotelian principles of hylomorphism,
held that all material substances were compounds of prime matter (which had
the potential to become form); and substantial form. This latter aspect of a
substance was what made it possible to determine what a particular substance
was. According to this theory it was possible to logically infer the existence
of a metaphysical realm by contemplation of the concrete objects that make up
the natural world. In other words by reflecting on the intrinsic nature of
God's creations it was possible to make deductions about God himself.
In this regard, John Scotus Eriugena believed that the
world was a grand theophany - one which manifested God through its primordial
and eternal causes. He states that there 'is nothing among visible and
corporeal things which does not signify something incorporeal and
intelligible' (Eco, 1986 : 56-7).
However, it was not possible, in terms of this
philosophy, for essence and existence to exist as phenomenologically separate
entities. They could however, be distinguished intellectually as the two
consecutive metaphysical principles of every finite being. Only in God (as the
uncreated, infinite and pure spirit), could these two principles be identical
and in his Summa Contra Gentiles, St Thomas Aquinas, (whilst comparing God
unto light), tells us that: "God exists necessarily because His essence
is existence: all other things receive or 'participate in' existence, and that
which receives must be distinct from that which is received." (Copleston
1965 : 333). Eco (1986 : 54) sums up this point beautifully when he states,
Even
at its most dreadful, nature appeared to the symbolical imagination to be a
kind of alphabet through which God spoke to men and revealed the order in
things, the blessings of the supernatural, how to conduct oneself in the midst
of this divine order and how to win heaven.
Thus, the medieval mind believed that the natural world
mirrored the transcendent world where symbols and the divine principles that
they engendered were believed to have certain characteristics which may be
related.
Having deduced that it was perfectly possible for an
alchemist or natural scientist living in the late thirteenth century to have
utilised the specific substances, forms and processes that are pre-requisites
for manufacturing a Shroud-like image, it also occurred to me that perhaps
this photographic technique (far from being viewed as a fraudulent act), may
have been considered to have been miraculous and/or divinely sanctioned. For
example, a devout Roman Catholic who accepts the hylomorphic framework of the
Eucharist will not consider transubstantiated bread and wine to be 'forgeries'
of Christ's body and blood.
In the same way, the hypothetical photographic
manufacturers of the Shroud, apart from their indebtedness to certain aspects
of Islamic scientific knowledge, may also have worked within the symbolic
framework of their hylomorphic universe. Moreover, if there is any validity to
this argument, it should be possible to find some symbolical correspondence
between such substances and forms as linen, crystal, silver, ammonia etc.
Incredible as it may seem, all of the substances which
are critical to the success of this technique (ie making a photographic image),
are indeed related symbolically and there appears to be a correspondence
between them and the fundamental principles and tenets which underscore the
Christian concept of the intercession of Christ and the atonement of sin (see
figure 2). In this regard, the relevant forms and substances listed below, may
be interpreted as follows:
* The square
camera obscura.
A dark, enclosed chamber may be viewed as a symbol of
the earth (square) and the fallen and sinful state of man (darkness
representing man's separation from God's divine light).
* The linen cloth.
Apart from its more obvious reference to the burial
cloth of Christ, linen is a symbol of purity. According to Pliny, linen was
the most beautiful dress material or pulchioriam vestem (de Vries, 1981 :
299), and according to Ovid, Io (who was venerated as Isis in Egypt), was
administered to by priests who were referred to as the linen-robed throng (de
Vries, 1981 : 299). Thus, linen refers indirectly to the status of priesthood
and symbolizes the spirit of mediation. Twelfth century cabalists referred to
the sephiroth which represented intercession as Tipareth (beauty). Linen also
speaks of the atonement of sin and release from divine punishment. In this
regard, it was a man dressed in linen and carrying an ink horn, who went
through Jerusalem to mark with a special sign those who were righteous in the
eyes of God. Those who were not marked in this manner, were killed (Ezekiel, 9
: 1-11). Linen may also refer indirectly to the Virgin Mary as only virtuous
woman wore linen as apposed to promiscuous women who wore silk. In addition,
the very art of weaving is symbolic of the incomplete man (de Vries, 1981 :
495; Olderr, 1986 : 147; Cooper, 1978).
* The crystal lens.
Crystal is as an overt Marian symbol and may be seen as
the embodiment of the Virgin Mary as the speculum sine maculum,
which in turn encapsulates the spiritual qualities of the immaculate
conception.
Two circles are normally employed to symbolize the
upper and lower worlds ie heaven and earth or the macrocosm and the microcosm,
and the union of these two worlds is the almond shaped zone of intersection or
interpenetration which in turn represents the world of appearances. This
almond shape (which is normally depicted in the vertical axis) is the Vesica
Piscis or Mandorla, and is also coincidently the shape of a
bi-convex lens as seen in profile. According to Cirlot (1971 : 203-4), the
Vesica Piscis is also a symbol of perpetual sacrifice that regenerates the creative force through the dual
streams of ascent and descent, appearance and disappearance, life and death,
evolution and involution. In terms of its morphology the Mandorla is cognate
with the spindle of the magna mater and with the magical spinners of thread.
The substance of crystal by virtue of its transparency
represents the 'conjunction of opposites' and 'matter seen through' (de Vries,
1981 : 121). It also refers to intuitive knowledge, translucence of thought,
the spirit and the intellect and is associated with the human eye (de Vries,
1981 : 121). It is also related to the sacrament of baptism with water and
crystal as fossil ice or frozen dew or tears is associated with both
immortality and the firmament over the four living creatures (Ezekiel, 1 :
22). Finally, crystal being formed of moisture falling from the sky like pure
snow refers to the icy north and north is where God dwells (de Vries, 1981 :
121). It should be pointed out here, that anyone producing a Shroud-like image
in the northern hemisphere would have had to have positioned the quartz lens
in the north facing wall of the camera obscura in order to receive both the
morning and afternoon light. This set-up is crucial to the success of the
endeavour (Allen, 1993a).
* Silver.
Silver is the symbol of purity, innocence and a clear
conscience and refers in this context to the qualities of the Virgin Mary.
Traditionally, chastity, fidelity and virginity are related to the Moon-Diana
(de Vries, 1981 : 424).
Figure
2
MEDIEVAL SYMBOLS AND THEIR
SIGNIFICANCE
APPARATUS OR SUBSTANCE | SYMBOLIC REFERENCE |
Sunlight | Almighty God, Divine Spirit, Heaven, Kefer |
Crystal | Virgin Mary, Innocence |
Vesica Piscis | Intercession, Divine Union, Perpetual Sacrifice, Tipareth |
Silver | Purity of Heart, Wisdom of God, Creation |
Linen | Beauty, Purity, Priesthood, Tipareth |
Urine | Life indicator of man |
Nakedness, Venus Pudica | Shame, Loss of control |
Camera Obscura | The Earth, Darkness, Sin, Malkuth |
Silver also refers to the wisdom of God:
'The words of
the Lord are pure words: as silver tried in a furnace of earth, purified seven
times' (Psalms, 12 : 6). Again, 'the tongue of the just is as choice silver'
(Proverbs, 10 : 20). Silver relates here to speech and indirectly refers to
the incarnation of Christ, viz., 'And the word was made flesh, and dwelt among
us, and we beheld his glory, the glory as of the only begotten of the father,
full of grace and truth' (John, 1 : 14). Not surprisingly, silver is also
related to mirror and to pearl, both of which are Marian symbols.
* A crucified, naked man.
A naked man was used as the subject for this image.
Nakedness itself is a symbol of man's separation from God and signifies his
uncleanness and impurity (Ezekiel, 16 : 39; 23 : 29). Camille (1990 : 93),
reminds us that the sons of Noah covered their eyes so as not to see the
nakedness of their father. Because of Noah's drunkenness, he demonstrates his
loss of control which in turn leads to his shame. It is important to remember
here, that despite the fact that the Shroud depicts nudity this was never
really conspicuous before the advent of modern photography. In addition, in the Shroud, Christ crosses
his arms over his pelvic region for the purposes of modesty (ie the venus
pudica pose) and no doubt to symbolize the crucifixion itself.
Indeed, the depiction of the naked upper torso seems to have been quite
acceptable to medieval mores 7.
Although this paper has explored (albeit cursorily),
some of the possible responses that the Shroud of Lirey-Chambéry-Turin might
have elicited from thirteenth century Christians there is obviously much doubt
that this encolpia of the Eucharist was originally intended for the eyes of
the vulgar. Indeed, we can only speculate as to how a minor French noble
(Geoffrey de Charny) ended up possessing such a prominent artifact and there
seems to be little doubt that whilst he was yet alive (ie before 1356), few
persons, if any were aware of its existence. This interpretation seems to be
supported by the fact that immediate clerical pressure was brought to bear on
both his widow and son once they started to hold the first recorded
expositions of the Shroud at Lirey in 1357. It is quite clear that even at
this early date, the Catholic Church did not know how to deal with the
Shroud's import and this relic had to wait another 150 years (ie until the
reign of Pope Julius II [1506]), before it was unreservedly accepted as a most
important relic of the Passion of Christ, celebrated as the Feast of the Holy
Shroud (May 4), complete with its own Mass and Office.
Regrettably, the Catholic Church (together with the
modern scientific community) is once again uncertain as to how this artifact
should be treated, many having too conveniently labelled it as a 'fake'.
However, I am certain that time will prove my suspicion, that this incredible
product of medieval ingenuity, will come to be more correctly regarded as one
of the most significant embodiments of the late thirteenth century, not only
because of its wealth of socio-theological content but more precisely because
it is quite possibly, the single, greatest technological and artistic
masterpiece ever produced for its time.