3. Fluorescenza risolta nel tempo (3,4)

 

3a. Principi generali

Se anziché colpire il campione in esame con una radiazione prolungata nel tempo si usa una radiazione incidente a impulsi, cioè con durata molto breve (~ ns), è possibile studiare la fluorescenza emessa dal campione nel tempo. Come già detto nel paragrafo 1, il fenomeno di decadimento dallo stato eccitato ha un andamento del primo ordine, segue cioè l’equazione:

d[M(t)]/dt = -kM[M(t)] Þ [M(t)] = M0exp(-kMt)

dove kM = 1/tF = kF+kic+kis+kq (par.1) e [M(t)] indica il numero di molecole nello stato eccitato al tempo t. La conseguenza più importante di tutto questo è che kM e quindi tF, pur essendo influenzate da tutti i processi che coinvolgono la molecola, e quindi dal suo microambiente (pH, polarità), in maniera analoga alla stessa intensità di fluorescenza, non dipendono invece dalla concentrazione della molecola fluorescente nel campione. Questo implica anche che la riproducibilità dei dati non è influenzata dal photobleaching, cioè dalla distruzione foto-indotta del fluoroforo, purché la sua concentrazione non diminuisca in maniera significativa durante il tempo necessario per l’acquisizione dei dati, e questo è generalmente ciò che accade. In figura 3-1 è riportato un esempio di andamento dell’intensità di fluorescenza nel tempo: nel caso specifico si ha un fenomeno biesponenziale con evidente photobleaching, che però non influisce in maniera significativa sulla determinazione dell’andamento della curva e quindi delle costanti di tempo.

3b. Acquisizione e rielaborazione dei dati

In via di principio per eseguire misurazioni di questo tipo è sufficiente, nello schema generale di uno spettrofluorimetro (fig. 1-5), sostituire la sorgente continua con una a impulsi (ad esempio laser) e il normale rilevatore con uno capace di misurare l’intensità della radiazione emessa nel tempo, tramite conteggio di fotoni per mezzo di un fotomoltiplicatore. Procedendo in questo modo si possono ottenere direttamente grafici con l’intensità di fluorescenza (numero di fotoni emessi) in funzione del tempo, in realtà però si incontrano diverse difficoltà, tra cui distorsioni dovute alla durata finita dell’impulso e al tempo di risposta del rilevatore; per superare questi inconvenienti è necessario registrare anche il profilo di eccitazione e apportare le dovute modifiche. In alternativa è possibile lavorare nel dominio delle frequenze piuttosto che nel dominio del tempo. In questo caso si usa una radiazione incidente modulata sinusoidalmente, caratterizzata da una ampiezza e da una fase, e vengono misurate ampiezza e fase della radiazione emessa (fig. 3-2). Dalle differenze tra le due fasi e le due ampiezze è infatti possibile risalire al tempo di decadimento del fluoroforo (tº tF), secondo le equazioni:

wt = tanf ; wt = [(1/M2) - 1]1/2

dove f è lo sfasamento delle due onde e M la modulazione, correlata alla variazione di intensità (fig. 3-2), mentre w è la frequenza di modulazione angolare, cioè la frequenza che caratterizza la variazione di intensità nel tempo sia della radiazione incidente che di quella emessa. Poiché per avere una buona sensibilità è necessario utilizzare frequenze w pari a circa l’inverso di t, quando i tempi di decadimento sono nell’ordine di alcuni picosecondi il segnale risulta molto veloce ed è piuttosto difficile misurarlo in continuo. In questi casi si può usare una particolare tecnica in cui il detector è modulato a una frequenza uguale (homodyning) o diversa (heterodyning), ma comunque vicina, a quella della sorgente, convertendo così il segnale a frequenze più basse. Per ottenere f e M è necessario poi operare la trasformata di Fourier veloce (FFT). Per tempi fino al nanosecondo si possono usare fotomoltiplicatori convenzionali.

3c. Applicazione alla microscopia

La fluorescenza è usata da molto tempo in microscopia per localizzare specifiche proteine all’interno della cellula, tramite un sistema di riconoscimento antigene-anticorpo, con una sonda fluorescente legata a quest’ultimo, grazie all’uso di appositi microscopi dotati di specchio dicroico (fig. 3-3). Volendo però ricavare informazioni sulle proprietà chimico-fisiche dell’interno della cellula misurando l’intensità emessa da probes fluorescenti, si incontra l’insormontabile difficoltà di non conoscere la concentrazione della sonda nei vari punti della cellula. L’uso della fluorescenza risolta nel tempo supera questa difficoltà poiché le costanti di tempo, a differenza dell’intensità di fluorescenza, non dipendono dalla concentrazione della sonda. Inoltre usando due molecole fluorescenti con tempi di rilassamento diversi è possibile evidenziarle entrambe in un’unica immagine, lavorando nel dominio delle frequenze e separando le due componenti. Il problema da superare a questo punto è come ottenere l’immagine bidimensionale dei tempi di decadimento (imaging). Esistono sostanzialmente due tipi di acquisizione di dati: in serie o in parallelo. Nel primo caso si abbina un normale detector a un microscopio confocale a scansione, simile al normale microscopio a fluorescenza ma con un laser come sorgente (fig. 3-4). Muovendo il campione o la sorgente con un apposito meccanismo si acquisiscono i dati punto per punto, infatti l’uso del raggio sottile del laser permette di mettere a fuoco, attraverso il foro confocale, solo la luce proveniente dal "punto focale", eliminando quindi quella degli altri piani e degli altri punti dello stesso piano. Per acquisire i dati in parallelo, cioè contemporaneamente su tutta l’immagine, è invece necessario usare un particolare rilevatore CCD (charge-coupled device), cioè un apparato di rilevamento bidimensionale, abbinato a un normale microscopio a fluorescenza. In entrambi i casi si possono ottenere "mappe" della cellula in cui ai diversi valori di t si fanno corrispondere diversi colori, individuando così, nei vari casi, zone differenti per pH, polarità, idrofobicità, densità, viscosità, ecc…

Un’ulteriore tecnica è quella basata sull’eccitazione a due fotoni, che permette di ottenere un effetto di profondità e quindi immagini in tre dimensioni, in maniera analoga a quanto si può fare con un microscopio confocale, variando il piano focale lungo l’asse z, senza però la necessità di fori confocali (evitando così di perdere una quantità significativa di luce di fluorescenza). Il principio alla base di questa tecnica è quello di provocare l’eccitazione della molecola fluorescente tramite l’assorbimento simultaneo di due fotoni, ciascuno con energia pari alla metà di quella necessaria per la transizione. Poiché la probabilità che avvenga tale fenomeno è molto più bassa rispetto alla normale transizione ad un fotone, è necessario avere una elevata concentrazione di fotoni nello spazio e nel tempo, che si ottiene con potenti laser. L’intensità della radiazione emessa è proporzionale al quadrato del flusso di fotoni di eccitazione, che decresce molto rapidamente per punti distanti dal piano focale: questo è alla base dell’effetto di profondità. Di conseguenza anche i danni provocati sul campione dai fotoni sono localizzati in una regione molto ristretta. Un ulteriore vantaggio di questa tecnica sta nell’elevata separazione che si ottiene tra spettro di eccitazione e di emissione (fino a 400nm).

 

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