1. Malattie da prioni (Prion Diseases)

 

1a. Introduzione e prospettiva storica [1]

Il termine inglese prion (pronunciato come si scrive) è stato introdotto nel 1982 da Stanley B. Prusiner per caratterizzare l’agente infettivo, causa di varie forme di encefalopatie spongiformi negli animali e negli uomini, come una "particella infettiva di natura proteica". Prusiner e i suoi colleghi infatti, cercando la causa di queste patologie, così definite per la presenza di ampi vacuoli nel cervello degli individui colpiti, trovarono che l’agente infettivo, estratto dal cervello degli individui infetti, in grado di trasmettere la malattia se iniettato in individui sani, non perdeva minimamente la sua efficacia se esposto a radiazioni ultraviolette o ionizzanti, che normalmente distruggono gli acidi nucleici, inattivando virus e batteri, mentre la sua capacità infettiva diminuiva se lo stesso estratto subiva trattamenti in grado di denaturare o degradare proteine. Tutto questo portò al concetto di una proteina prionica (PrP) come parte essenziale, se non unica, dell’agente infettivo. Il problema successivo era quello di spiegare come una proteina da sola riuscisse a duplicarsi e a diffondersi, per poi generare la malattia; inoltre da un punto di vista clinico le stesse patologie presentavano un certo grado di ereditarietà, e in alcuni casi non sembravano causate da nessun tipo di infezione: un modello molecolare corretto doveva spiegare tutti questi fenomeni, apparentemente così diversi. Una scoperta decisiva fu quella di trovare un gene codificante per la proteina prionica isolata in un individuo malato nel genoma dello stesso individuo: si scoprì poi che tutte le specie animali, dai topi all’uomo, codificano per una proteina prionica. Questa però una volta espressa e inoculata in individui sani non provocava la malattia: dovevano quindi esistere due forme della stessa proteina, una "buona" e una "cattiva". Effettivamente sembravano esistere almeno due tipi di proteine prioniche, che si distinguevano per la diversa capacità di resistere alle proteasi: mentre la proteina isolata da individui sani era estremamente sensibile all’azione delle proteasi (PrPC, C=cellulare), quella estratta da individui malati era parzialmente proteasi-resistente (PrPSc, Sc=scrapie, si veda più avanti). Dopo aver escluso, con opportuni esperimenti, la possibilità che la differenza tra le due forme fosse dovuta alla struttura primaria o a modifiche chimiche post-traduzionali, non rimaneva che una possibilità: la principale differenza tra PrPC e PrPSc doveva essere di natura conformazionale. Ciò fu confermato da studi successivi (si vedano i paragrafi seguenti), portando all’idea che la proteina prionica sia normalmente espressa nei neuroni del cervello (anche se la sua funzione fisiologica non è ben chiara, par. 2c) assumendo al momento della sintesi la forma PrPC grazie all’azione di chaperon molecolari, mentre la variazione conformazionale (probabilmente a-elica à b-sheet, fig. 1-1) che porta alla forma PrPSc (che poi genera la malattia) è catalizzata dalla stessa PrPSc, che è perciò in grado di scatenare un processo a catena. Un tale modello è in grado di spiegare la natura infettiva di queste malattie, in quanto causata dall’assunzione di una certa quantità della proteina in forma PrPSc, e la diversità di rapidità di azione e di specificità, attribuita alla esistenza di più di due conformeri (ancora da dimostrare) e al differente grado di omologia tra proteine prioniche di specie diverse; in questo ultimo caso è importante notare che l’omologia non deve essere riferita all’intera proteina, ma ai domini coinvolti nel cambiamento di conformazione. Inoltre questo modello è compatibile con la natura ereditaria (che in molti casi è una predisposizione allo sviluppo della malattia) di alcune forme di queste patologie, in quanto certe mutazioni (che per esempio portano alla presenza di residui come la prolina che destabilizzano l’a-elica) possono portare a forme di PrPC maggiormente sensibili all’azione di prioni provenienti dall’esterno, o addirittura in grado di trasformarsi spontaneamente, nel tempo, nella forma PrPSc, generando poi la reazione a catena; infine è chiaro che ogni fenomeno in grado di azionare il processo di conversione della proteina prionica può portare a casi sporadici della malattia (sono noti casi di malattia nell’uomo sviluppatasi in seguito a trapianto di cornea, inserimento di elettrodi nel cervello, uso di ormoni di crescita). L’azione patologica di PrPSc non è chiara, ma sembra importante (anche se non essenziale, in quanto in alcuni pazienti non se ne sono trovati) la formazione di aggregati di questa forma della proteina prionica, o di alcuni suoi frammenti, che vanno sotto il nome di placche amiloidi (perché si colorano come l’amido). A questo proposito è importante notare che le definizioni molto generali dei termini "prioni" e "placche amiloidi" possono indurre una certa confusione, anche in letteratura. Oltre alle encefalopatie spongiformi (tra cui: scrapie nelle pecore, BSE – bovine spongiform encephalopathy o morbo della mucca pazza – nelle mucche e CDJ – Creutzfeld-Jacob Disease – nell’uomo) esistono infatti altre patologie neurodegenerative (quali il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson) che coinvolgono altre proteine, in un meccanismo però apparentemente molto simile con la formazione finale di placche, per cui questi termini possono essere usati. La confusione è aumentata dal fatto che si stanno scoprendo altre malattie a danno del sistema nervoso periferico e dei muscoli con questo stesso meccanismo di base e dal fatto che diversi ricercatori usano il termine "prione" con diversi significati (chi per indicare la proteina nella forma "cattiva", chi per indicare entrambe le forme). Per maggior chiarezza in questa relazione si intende per prione o proteina prionica l’unica proteina codificata dal gene cellulare coinvolta nello sviluppo delle encefalopatie spongiformi, mentre le due forme sono esplicitamente indicate come PrPC e PrPSc, e gli aggregati proteici relativi sono individuati con il nome di placche amiloidi. Infine è doveroso sottolineare che l’idea, piuttosto rivoluzionaria, di un agente infettivo di natura esclusivamente proteica e tutto il modello che ne consegue è supportata da evidenze sperimentali molto forti, ma non incontrovertibili, e non è universalmente accettata dagli scienziati che studiano questi fenomeni.

 

Torna all'indice