Quattro modelli di società,
quattro filosofie di vita
Nella preistoria, gli uomini
erano divisi in piccole comunità in lotta fra di loro
e con la natura. Per questa epoca non si può parlare di
civiltà, perché gli interessi di queste comunità
non vanno oltre il procacciamento delle risorse e la difesa dei
membri della propria tribù. Questi uomini non hanno una
coscienza sviluppata, pertanto le loro credenze religiose non
si spingono oltre il timore per gli dei della natura, il sole,
il fulmine, il fuoco, il vulcano.
Con la scoperta dell'agricoltura, le cose cambiano. La necessità
di coltivare i campi spinge gli uomini a creare delle comunità
più ampie, che vivono in un territorio ben preciso da
difendere; questo territorio diventa, di conseguenza, sacro ("la
Terra promessa da Dio"). Le comunità, siano esse
delle signorie, dei latifondi, dei feudi, delle dittature, degli
Imperi, hanno bisogno di una base sociale atta a garantire lo
scopo primario del mantenimento e della riproduzione degli individui
("crescete e moltiplicatevi"). Le condizioni ambientali
non offrono molte opzioni, in questo senso: le carestie, pestilenze
e guerre costringono le varie comunità a stabilire una
serie di regole inviolabili (la "Legge sacra").
La comunità può funzionare solo se tutti i membri
sacrificano il proprio interesse in nome del bene collettivo
("credere, obbedire, combattere"). Per assicurarsi
il controllo delle attività individuali, queste ultime
diventano ereditarie e la mobilità sociale si fa lenta
e difficile (il villaggio rurale circoscrive i legami alla sola
parentela). L'unico criterio per accedere ai vertici del potere
aristocratico è la virtù, e questo è uno
dei motivi per cui nasce la religione. La religione nasce anche
per giustificare la superiorità della propria comunità
rispetto alle altre (la "razza eletta").
L'idea di perfezione razziale si spinge fino a negare il concetto
di patologie ereditarie; se uno muore, la colpa è degli
altri. Forse un esempio attuale chiarisce: un giovane si droga,
la colpa è della modernità che gli ha dato troppa
libertà, degli stranieri che producono la droga (non ha
importanza se lo fanno perché sono poveri, il dogma economista
è negato in maniera totale), dei mafiosi che portano la
droga in Occidente, e dei comunisti che vogliono l'antiproibizionismo.
In nessun caso il giovane è già predisposto a drogarsi,
a meno che non sia un comunista egli stesso, e quindi un parassita.
La cosa più curiosa di questa presa di posizione è
che i progressi medico-scientifici hanno ridotto i tassi di mortalità,
quindi se in passato si moriva, la colpa non poteva essere di
nessun altro che di se stessi: questo non lo ammetterà
nessun nazionalista. E comunque anche se oggi si muore di meno,
"si stava meglio quando si stava peggio" perché
il progresso avrebbe portato vizi e lussi. In realtà,
se la gente vive il doppio che in passato si può dubitare
che abbia conosciuto questi vizi. Ma forse si voleva che molti
morissero perché viziosi: in questo caso, attribuire all'"altro"
il ruolo di "untore" è schizofrenia pura.
Ogni straniero è un nemico, perché - sottinteso
- ragiona come te e utilizza lo strumento della guerra per conquistare
le tue terre. Per difendersi dal nemico esistono due sole armi:
il primo è la "purezza della razza", cioè
l'alta prolificità e la subordinazione della donna, essere
geneticamente inferiore all'uomo ovvero "angelo del focolare";
il secondo è la scienza al servizio della guerra.
Tra parentesi, se lo straniero ragiona come te e può batterti
se utilizza la tua stessa tecnologia, come fa ad essere geneticamente
inferiore? Scientificamente non è dimostrato. Ed infatti,
se fino al '700 possiamo parlare di scontro tra civiltà
è perché le varie civiltà combattevano ad
armi pari. Secondo Huntington (vedere più avanti), la
globalizzazione ripristina la parità negli scontri.
Per evitare, inoltre, che la struttura piramidale del potere
venga a meno, si cerca di mantenere immutate le condizioni che
hanno permesso la conquista del potere medesimo (staticità
del sistema), ed ecco il perché dell'avversione per le
novità. L'odio verso la novità spinge ad un'attenzione
quasi maniacale verso tutti i riti e i simboli della comunità:
la barba e il velo islamici, la foto del dittatore in ogni abitazione,
l'iscrizione obbligatoria al Partito, il saluto nazista.
Tutte le comunità del passato, e molte del presente, ragionano
secondo questo schema. Riportiamo qui l'esempio del nazismo,
perché è stato il più discusso e il più
controverso; i postulati fondamentali della dottrina della razza
ariana si possono sintetizzare in breve così:
1) Ogni progresso sociale avviene attraverso una lotta per la
vita, in cui i più capaci sono selezionati mentre i più
deboli soccombono. Questa lotta avviene nell'ambito di una razza,
dando così origine ad una élite naturale, ed anche
tra le razze e le culture che esprimono le nature particolari
delle razze diverse ("la guerra come sola igiene del mondo").
2) L'ibridizzazione che avviene attraverso la commistione di
due razze porta sempre alla degenerazione di quella superiore.
Questi ibridismi razziali provocano la decadenza culturale, sociale
e politica, ma una razza può purificarsi per il fatto
che gli ibridi tendono a scomparire rapidamente.
3) Sebbene la cultura e le istituzioni sociali esprimano direttamente
le capacità creative proprie della razza, tutte le altre
civiltà o le culture di rilievo sono creazione di una
sola razza o al massimo di poche. Specificamente le razze si
possono dividere in tre tipi: la razza creatrice di cultura o
ariana; le razze portatrici di cultura che possono adottare ed
adattare la cultura altrui ma non crearne una propria; la razza
distruttrice della cultura e cioè la razza ebraica (il
fantomatico complotto giudaico-massonico-cristiano). La razza
creatrice esige degli "ausiliari" nella forma di lavoro
o servizi compiuti da razze-suddite o di qualità inferiore.
4) Nella razza creatrice, l'ariana, l'autoconservazione si è
trasformata da egoismo in cura della comunità. Il pieno
senso del dovere e l'idealismo (l'onore), più che l'intelligenza,
sono le qualità morali preminenti della razza ariana.
(Sabine, p. 696)
Implicito in questa analisi è il richiamo sentimentale
("romantico") ad un vagheggiato Impero medioevale,
che sarebbe esistito "molto prima che il continente americano
fosse scoperto", e che sarebbe decaduto in seguito alla
contaminazione con le "razze inferiori". Tutti i riti,
i simboli e le leggi approvate dal nazismo sarebbero già
esistiti nell'antico Impero, e sarebbero stati ripristinati in
senso di devozione verso i progenitori, ma anche per conservare
la purezza della nazione, per salvaguardare l'apparenza di staticità
e per imporre le vere e sacrosante regole di vita che porterebbero
al successo. (Sabine, p. 702)
Gli effetti pratici della dottrina razziale sulla politica nazista
sono stati triplici. In primo luogo essa ha portato ad una politica
generale d'incoraggiamento dell'aumento della popolazione e,
in particolare, degli elementi ariani, attraverso sussidi matrimoniali
e familiari, anche se nello stesso tempo si è insistito
sulla necessità d'espandersi territorialmente perché
la Germania è diventata sovrappopolata (lo "spazio
vitale": Marx, par. e). Questa politica è giunta
ad un virtuale incoraggiamento dei rapporti sessuali irregolari
e della nascita illegittima.
In secondo luogo, la dottrina razziale ha condotto alla legislazione
eugenistica del 1933. Dichiaratamente questa è diretta
a prevenire la trasmissione di malattie ereditarie, ma in pratica
è stata una politica generale di sterilizzazione e di
sterminio dei deficienti mentali. Questa politica è stata
seguita palesemente con barbara severità.
In terzo luogo, la dottrina razziale ha prodotto la legislazione
antisemita del 1935 e del 1938. Anche questa legislazione afferma
di mirare all'accrescimento o alla conservazione della purezza
della razza. Attraverso di essa sono stati messi fuori legge
i matrimoni fra tedeschi e persone con un quarto (o più)
di sangue ebraico; i beni degli ebrei sono stati confiscati;
gli ebrei sono stati esclusi dalle professioni e dagli affari,
sono stati ridotti ad uno stato di inferiorità civile
più propria di "sudditi dello Stato" che di
cittadini. Queste misure hanno raggiunto il culmine nella politica
di totale sterminio durante la seconda guerra mondiale, e nella
costituzione degli ebrei sopravvissuti al lavoro forzato. (Sabine,
p. 698-699)
Il sistema patriarcale non è l'unico possibile: ve ne
sono due in alternativa, quello borghese e quello comunista.
Entrambi si assomigliano quanto allo scopo prefissato, quello
di garantire il benessere dell'umanità, ma si differenziano
quanto ai mezzi: il denaro nel primo caso, la dittatura del proletariato
nel secondo. Per comprendere la filosofia borghese, prendiamo
come modello il fumetto di Topolino, che non a caso è
nato nella patria per eccellenza della borghesia (gli Stati Uniti).
(Topolino)
Uno dei personaggi più importanti è Paperon de
Paperoni, il papero più ricco del mondo. È lui
la formica parsimoniosa, che ha accumulato soldi a poco a poco:
il suo primo centesimo (portafortuna) come lustrascarpe a 5 anni
(o giù di lì) nel Klondike, una regione nordamericana
ricchissima di oro. Con il guadagno derivato dall'attività
di lustrascarpe, si procura il materiale per cercare l'oro (il
suo primo investimento); grazie al suo fiuto (leggendario) per
il denaro e i metalli preziosi, lo trova facilmente.
Diventato proprietario di alcune delle miniere più ricche
del mondo, fa investimenti ovunque possa trarre qualche guadagno,
così arriva a costruirsi il suo Impero economico. L'unico
limite che incontra Paperone, nei suoi affari, è il rispetto
per l'ambiente: il significato sottinteso è che il denaro
è utile, ma molto più importante è la legge
base della natura, cioè il mantenimento e la riproduzione
degli individui.
Al contrario, la cicala spendacciona è uno dei suoi nipoti:
Paperino. Costui preferisce la bella vita al denaro, ed a furia
di spendere finisce sommerso dai debiti: qualunque negoziante
ha un credito con lui, ma il suo primo creditore è lo
zio, che finisce così per ipersfruttarlo ogni volta che
lo ritiene opportuno.
Paperino ha a sua volta tre nipotini, Qui, Quo e Qua, tre ragazzini
di volta in volta intelligentissimi o ignorantoni, ottime prede
del consumismo sfrenato (e pertanto clienti ideali del mercato
capitalista). La fidanzata di Paperino si chiama Paperina, ed
è una donna gelosissima, pettegola, dominatrice, amante
delle telenovele strappalacrime: esattamente come tutte le femmine
protagoniste del fumetto. La parità uomo-donna spinta
all'eccesso, fino a questo punto arriva la visione capitalistica
della società! Per di più, il matrimonio è
tabù: nessuno si sposa, il fidanzamento è eterno.
Al massimo si può favoleggiare.
Un altro personaggio su cui vale la pena soffermarci è
Archimede Pitagorico, il più illustre scienziato del mondo:
ci serve per comprendere lo stretto legame tra capitalismo e
scienza. I Bassotti sono ladri di professione, che sognano di
rubare il denaro a Paperone per farsi la bella vita; il guadagno
onesto non fa per loro perché le virtù gli ripugnano,
il lavoro, la carità, l'educazione: ecco le "pecore
nere" della famiglia dei Paperi.
Paperopoli e Topolinia sono le città dove vivono i personaggi:
l'habitat è per l'appunto urbano, l'ideale per una famiglia
borghese, che può così dispiegare al meglio le
proprie risorse umane, politiche, economiche. I sindaci delle
due città sono raffigurati come maiali: un modo conformista
per dare l'idea dell'ingordigia dei politici, che però
sono utili lo stesso perché hanno l'autorità sui
cittadini, cioè sui clienti del mercato capitalista. I
cittadini di tanto in tanto, quando non sono soddisfatti, manifestano
apertamente la loro insoddisfazione, anche con qualche piccola
rivoluzione (un richiamo alle rivoluzioni borghesi?).
Tutti i personaggi del fumetto non hanno una personalità
ben precisa, ad ogni storia cambiano carattere: a volte irascibili,
a volte pazienti, a volte prudenti, a volte temerari. È
l'ambiguità tipica della società borghese: siccome
ogni persona può tirare fuori il meglio e il peggio di
sé, le indagini statistiche e sociologiche non riescono
ad imbrigliare queste personalità dietro modelli ben precisi.
Tuttavia, una cosa in comune questi personaggi ce l'hanno: la
curiosità verso tutto quello che è estraneo al
loro mondo. Molte storie sono ambientate all'esterno: un'isola
tropicale dove vivono indigeni bonari, creduloni, primitivi,
intelligenti, o anche violenti, fanatici, assetati di denaro;
uno Stato dove le consuetudini patriarcali sono rimaste inalterate;
un popolo diventato capitalista che fa affari o intrattiene relazioni
diplomatiche con Paperopoli e Topolinia.
Ogni volta, i personaggi del fumetto si mostrano affascinati
dalle culture locali, solidali e desiderosi di apprendere: non
come il religioso che giudica lo straniero come un "diverso",
o un essere inferiore, o un infedele, oppure qualcuno da convertire
a forza. Ed infatti né Paperone, né Paperino, né
Paperina, né gli altri hanno una loro religione essendo
dei tipi molto pratici; ragionamento borghese: non escludiamo
che un Dio possa esistere, ma se esiste non può non aver
costruito il mondo su basi materiali, ed è quello che
conta; qualunque cosa può andar bene, purché scientificamente
dimostrata.
La filosofia comunista è ben sintetizzata nella Repubblica
di Platone. "Uno Stato si organizza perché nessuno
di noi è autosufficiente, anzi ognuno ha molti bisogni.
Un uomo si mette insieme ad un altro per un bisogno, e a un altro
ancora per un ulteriore bisogno, perché entrambi ne hanno
molti. Così, riunendosi parecchie persone in un'unica
sede per ottenere compagnia e soccorso, si forma quella comunità
a cui diamo il nome di Stato". (Platone, p. 129)
Il guaio è che, come ammette lo stesso Platone, questo
Stato perfetto finora si è rivelato utopico, "è
fondato solo nelle nostre parole, perché penso che al
mondo non si trovi da nessuna parte. (
) Ma forse esiste
il suo modello in cielo per chi sia disposto a vederlo e a fondare
se stesso su di lui" (Platone, p. 761). Per questo la filosofia
comunista, in questi secoli, è stata una filosofia negativa
o fallimentare, che si caratterizza più per la contestazione
dell'ordine esistente (nologo, noglobal) che per la costruzione
di un ordine positivo.
Ma vi è qualcosa di più in questo tipo di contestazione,
qualcosa di patologico. Dal 1688 al 1917, sarebbe stata contestata
la società preindustriale in nome della democrazia industriale.
Dal 1917 al 1990, sarebbe stata contestata la democrazia industriale
in nome del comunismo iperindustrializzato. Dal 1990 in poi,
sarebbe stata contestata la democrazia industriale in nome della
società preindustriale. Queste contraddizioni, secondo
alcuni, sarebbero la prova della buona fede e dell'ingenuità
di amici sinceri di cui ti puoi fidare; secondo altri dimostrerebbero
l'ipocrisia del pensiero vetero-comunista e disfattista.
Ecco la tabella riepilogativa:
|
Società tribale |
Società patriarcale |
Società borghese |
Società comunista |
Struttura politica |
Tribalismo |
Religione |
Politica |
Dittatura |
Struttura economica |
Caccia |
Agricoltura |
Industria |
Industria |
Struttura sociale |
Nomadismo |
Tradizione |
Modernità |
Comunità |
Tipo di famiglia |
Comunitaria |
Estesa |
Nucleare |
Aperta |
Habitat |
Caverne |
Villaggio rurale |
Città |
Oscillazione tra villaggio rurale
e città |
Valori fondanti |
Prestigio, virilità, autonomia |
Eroismo, moralità, staticità |
Individualismo, responsabilità,
dinamismo |
Liberté, égalité,
fraternité |
Limiti |
Sopravvivenza, infanticidio femminile |
Carestie, pestilenze, guerre |
Patologie ereditarie, inquinamento |
Carestie, pestilenze, instabilità |
All'interno di questa tabella,
ci sembra molto istruttivo, per il proseguimento della lettura,
puntare la lente d'ingrandimento sulle morali patriarcale e borghese:
Morale patriarcale |
Morale borghese |
Chi sgarra va al rogo |
Nessuno è perfetto |
Bisogna essere virtuosi |
La virtù è roba
di pochi |
La virtù è roba
nostra |
Chi ha virtù fa carriera |
I vizi vanno puniti |
Bisogna frenare l'istinto |
Hai scelto il male e non puoi
più pentirtene |
Ogni famiglia ha le sue pecore
nere |
Bisogna inventarsi uno scopo (così
nasce la religione) |
Lo scopo di tutte le comunità
è il mantenimento e la riproduzione degli individui |
La natura è malvagia in
quanto fenomeno materiale e non spirituale |
La legge di natura dice che ogni
specie vivente accudisce i propri figli |
La morale patriarcale spesso
si dimostra a doppio senso, e se spinta all'eccesso può
diventare inquisitoria. Per esempio, si dice che "la virtù
premia"; in realtà, siccome la virtù è
roba di pochi, allora diventa una scusa per governare. Che cosa
si intenda poi per virtù, la risposta veritiera e taciuta
è "quello che piace a noi". Si osanna tanto
la tradizione, ma si tralascia di studiare le tradizioni altrui
perché, se lo si facesse, verrebbe a meno l'idea dello
straniero come immorale (anche lo straniero rispetta le tradizioni).
I criteri guida della società patriarcale sono la santità
e l'eroismo; l'altra metà del discorso è che tutti
gli altri muoiono. Psicologicamente, è il desiderio di
dominare riducendo la gente in schiavitù, "la vile
plebe". Infatti "il vizio viene sempre punito";
in realtà, prima si lascia libero sfogo agli istinti per
dimostrare che quella persona è viziosa, così dopo
si ha la scusa per punire tutti i vizi che vuole. Si prenda il
ragionamento opposto della morale borghese e platonica: frena
i tuoi istinti, solo così potrai costruirti una vita armonica.
Infine, le donne sono caste e pure; in realtà, possono
solo fare figli e nient'altro.
L'inquisizione impera sempre sotto i sistemi patriarcali, "si
tratta della forma di falsità più diffusa, quella
veramente sotterranea, che esista sulla faccia della terra"
(Nietzsche, af. 9: l'aforisma, che abbiamo già citato
nel paragrafo e, inizia con "A questo istinto di teologo
muovo guerra"). Sono quattro i modi con cui si manifesta
la volontà inquisitoria:
1) nega il diritto alla conoscenza del bene e del male, ed impone
così la censura (ricordiamo che educazione è sinonimo
di libertinaggio);
2) nega il diritto a mettere in gioco la propria vita, in una
scommessa con la morte (la morale del gregge, si veda Nietzsche,
Crepuscolo
, "I "miglioratori" dell'umanità");
3) fa attribuire anche ai figli le colpe dei padri; vi è
una differenza molto sottile nel lessico dei processi inquisitori
e in quelli moderni ("borghesi"): nel primo caso si
puniscono le "persone", così i figli, in quanto
figli della persona, ne subiscono le conseguenze; nel secondo
caso si puniscono le "azioni", così i figli
non possono aver commesso quelle azioni e non vengono puniti;
4) insegna il gusto della vendetta: occhio per occhio, dente
per dente (da dove si crede che trovino alimento le guerre?).
Per il futuro della cultura e della società, le opinioni
sono discordanti. Con la fine della Guerra fredda, gli opinionisti
si sono divisi in due schiere: gli apocalittici e gli integrati.
I primi affermano che il mondo si sta autodistruggendo: inquinamento,
integralismo, guerre tribali, corruzione. I secondi, più
ottimisti, affermano che il mondo si sta avviando verso l'integrazione
di tutte le nazioni, le culture, le economie, permettendo il
raggiungimento di livelli di benessere e di stabilità
mai raggiunti finora.
Naturalmente le posizioni non sono così estreme, però
esprimono bene i punti di vista. Nelle prossime pagine esponiamo
tre opinioni tra le tante: quella noglobal e quella - testuale
- degli studiosi Huntington e Fukuyama. La scelta delle opinioni
non è casuale: i noglobal sono l'espressione concreta
della filosofia comunista del mondo; Huntington ha scritto "Lo
scontro delle civiltà", un libro pessimista che ricalca
(volontariamente o meno) la filosofia patriarcale; Fukuyama,
con il suo ottimistico "La fine della storia", ricalca
invece la filosofia borghese. Alla fine, per concludere, faremo
qualche riflessione polemica.
Nologo, noglobal
Senza pretendere di ergerci
a ermeneutica sicuri del pensiero comunista, ci pare di poterne
individuare tre punti cardine. Il primo è il deficit di
democrazia che i noglobal riscontrano nella globalizzazione e
nelle istituzioni che, di fatto, la guidano e dovrebbero governarla.
Innanzitutto l'espropriazione della sovranità dello Stato
nazionale che sarebbe, invece, la sede vera della sovranità
e della democrazia rappresentativa.
Poiché le decisioni che possono incidere sulle cause e
sugli effetti della globalizzazione avvengono al di fuori degli
Stati nazionali (FMI, BM, OMC e ONU dominati dai rappresentanti
del G8, che secondo i noglobal non ha alcuna rappresentatività
democratica), esse espropriano di fatto la loro sede naturale
e, quindi, i cittadini che hanno democraticamente eletto i loro
rappresentanti. È quindi necessario pensare a forme di
governo appropriate a quelle politiche globali. Forse un vero
e proprio governo globale.
Il secondo punto è la dinamica con la quale è avvenuta
tale progressiva espropriazione illegittima e antidemocratica.
Essa è legata alla logica del mercato e agli interessi
delle multinazionali. Il potere di queste ultime sovrasta il
potere delle politiche nazionali e la logica di mercato sovrasta
la logica del governo umano, che deve invece farsi carico anche
dei più deboli.
Tutto è piegato agli interessi del mercato e tutto si
spiega in questo modo: dall'eccesso di ozono nell'atmosfera agli
organismi geneticamente modificati, alle liberalizzazioni del
commercio ad opera della OMC (Organizzazione mondiale del commercio),
alle ricette di risanamento imposte dal FMI e dalla BM, alla
distruzione delle identità culturali deboli ad opera delle
multinazionali dell'audiovisivo, all'abbandono dei Paesi in via
di sviluppo alla loro povertà, all'impossibilità
di curare le malattie infettive (HIV/AIDS in testa) per le logiche
esclusivamente mercantili che guidano la ricerca e la produzione
farmaceutica, alla negazione dei diritti dei lavoratori. E via
di questo passo.
Il terzo punto contiene le conclusioni. Occorre fermare tale
logica di mercato e i suoi maggiori artefici: le multinazionali
da una parte e le istituzioni che operano nella loro logica -
FMI, BM, OMC - dall'altra. Fermando queste ultime, o intralciandole,
si può pensare di mettere in difficoltà anche ciò
che esse promuovono (mercato e multinazionali), indebolire il
loro potere e, quindi, riconoscere altre priorità: un
altro ethos globale dettato dai noglobal stessi, il quale rappresenterebbe,
quello sì, i più autentici valori dell'uomo esprimendo
il patrimonio comune di tutta l'umanità. Nel frattempo
queste istituzioni, in particolare l'OMC, devono occuparsi di
diritti del lavoro e di ambiente piegando la loro opera, i loro
regolamenti e la loro "giurisdizione" a quei valori.
(Del Debbio, p. 7-9)
Huntington e lo scontro
delle civiltà
"La storia umana è
la storia delle civiltà. È impossibile pensare
allo sviluppo dell'umanità in termini diversi da questi,
uno sviluppo che percorre intere generazioni di civiltà:
nel corso della storia, le civiltà hanno rappresentato
per l'uomo la più importante fonte di identificazione.
(Huntington, p. 43)
Esiste una ragionevole convergenza di opinioni sull'esistenza
di almeno dodici grandi civiltà, di cui sette ormai estinte
(mesopotamica, egiziana, cretese, classica, bizantina, centroamericana,
andina) e cinque ancora esistenti (cinese, giapponese, indiana,
islamica e occidentale). A queste sei civiltà del mondo
contemporaneo sembra utile, ai fini dell'analisi, aggiungere
quella latinoamericana e forse anche quella africana. (Huntington,
p. 51)
I rapporti tra le civiltà hanno attraversato due fasi,
ed oggi ne stanno vivendo una terza. Per oltre tremila anni successivi
alla nascita delle prime civiltà, i contatti tra esse
sono stati, salvo alcune eccezioni, o del tutto inesistenti,
o limitati, oppure intermittenti ed intensi. Le civiltà
erano, infatti, distanti nel tempo e nello spazio. (Huntington,
p. 56-57)
Il cristianesimo europeo ha iniziato ad emergere come civiltà
a sé stante nell'VIII e IX secolo. Dopo essersi assicurati
il controllo sull'intera Europa, i vari Stati hanno cominciato,
a partire dal 1500, a conquistare i territori d'oltremare, fino
a raggiungere la massima espansione nel periodo tra le due guerre
mondiali. Tra le possibili cause di un così drammatico
e straordinario sviluppo, sono stati inclusi: il pluralismo sociale,
ovvero la creazione di varie istituzioni preposte alla difesa
degli interessi corporativi; l'individualismo; la separazione
tra Stato e Chiesa; il progresso tecnologico, che ha permesso
il potenziamento dell'apparato economico e militare. (Huntington,
p. 61)
Con il processo di decolonizzazione, i rapporti tra le varie
civiltà sono passati da una fase caratterizzata dall'influenza
unidirezionale di una civiltà su tutte le altre, a una
serie di interazioni variegate e multidirezionali tra tutte le
civiltà. Dall'unico mondo (occidentale) del 1920, si è
passati agli oltre sei mondi degli anni '90. (Huntington, p.
64-65)
Gli Stati nazionali restano gli attori principali della scena
internazionale. Le loro azioni sono ispirate come in passato
dal perseguimento del potere e della ricchezza, ma anche da preferenze,
comunanze e differenze culturali. I principali raggruppamenti
di Stati non sono più i tre blocchi creati dalla Guerra
fredda, ma le sette o otto maggiori civiltà del globo.
Le società non occidentali, particolarmente in Asia orientale,
stanno sviluppando le loro potenzialità economiche e creano
le basi per l'acquisizione di una maggiore potenza militare e
influenza politica. Via via che acquisiscono sempre maggiore
potere e sicurezza di sé, le società non occidentali
tendono a difendere sempre più strenuamente i propri valori
culturali e a rifiutare quelli imposti loro dall'Occidente. (Huntington,
p. 16-17)
Nella prima metà del XX secolo, le élite intellettuali
hanno di norma creduto che la modernizzazione economica e sociale
dovesse portare alla scomparsa della religione quale elemento
significativo dell'esistenza umana. La seconda metà del
secolo ha dimostrato l'infondatezza di questa tesi. La modernizzazione
economica e sociale ha raggiunto dimensioni mondiali, eppure
al tempo stesso si è verificata una generale rinascita
religiosa. (Huntington, p. 131)
È venuto alla luce un nuovo approccio religioso, volto
non più a un adeguamento ai valori laici, bensì
al recupero della sacralità invece come fondamento dell'organizzazione
della società, se necessario anche attraverso un cambiamento
della società stessa. Questa posizione, variamente articolata,
invoca il distacco da un modernismo rivelatosi fallace nel momento
in cui ha voluto allontanarsi da Dio.
Cristianesimo, islamismo, ebraismo, induismo, buddismo, ortodossia
hanno goduto tutte di un rinnovato impulso in termini di adesione
e partecipazione popolare. All'interno di ciascuna di queste
religioni sono sorti movimenti fondamentalisti dediti alla purificazione
delle proprie dottrine e istituzioni, nonché a una riconfigurazione
dei comportamenti individuali, sociali e pubblici in accordo
con i dogmi religiosi. (Huntington, p. 132)
Non è un caso che il fondamentalismo sia sorto in Paesi
in cui la pressione demografica rende impossibile, per gran parte
della popolazione, il perpetuarsi del vecchio modello del villaggio,
ed in cui le comunicazioni di massa, imperniate su uno stile
di vita urbano, penetrando nei villaggi hanno iniziato a corrodere
una tradizione di vita agreste vecchia di secoli. (Huntington,
p. 136)
I protagonisti della rinascita religiosa provengono da tutte
le classi sociali, ma in particolare da due ceti, entrambi di
estrazione urbana ed entrambi socialmente mobili. Gli elementi
di fresca urbanizzazione hanno generalmente bisogno di sostegno
e guida emotiva, sociale e materiale, tutte cose che i gruppi
religiosi offrono più di chiunque altro. L'altro ceto
è la nuova classe media: nei Paesi musulmani come altrove,
la rinascita religiosa è un fenomeno urbano e coinvolge
persone di mentalità moderna, istruite, impegnate in carriere
di successo in ambito professionale, statale e commerciale.
La rinascita delle religioni non occidentali è la più
possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società
non occidentali. Non costituisce un rifiuto della modernità:
è un rifiuto dell'Occidente e della cultura laica, relativista
e degenerata ad esso associata. È un rifiuto di quella
che è stata definita l'"intossicazione occidentale"
delle società non occidentali. È una dichiarazione
di indipendenza culturale dall'Occidente, la fiera dichiarazione
che "saremo moderni, ma non saremo come voi". (Huntington,
p. 140-142)
La rinascita delle culture locali è ulteriormente favorita
dal paradosso della democrazia: l'adozione di istituzioni democratiche
occidentali da parte delle società non occidentali consente
lo sviluppo e finanche l'avvento al potere di movimenti politici
antioccidentali. Negli anni '60 e '70 del Novecento, i governi
occidentalizzati e filooccidentali di vari Paesi in via di sviluppo
sono stati minacciati da rivoluzioni e colpi di Stato; negli
anni '80 e '90 hanno corso, e corrono tuttora, il rischio sempre
maggiore di essere rimossi in seguito ad elezioni politiche.
La democratizzazione fa a pugni con l'occidentalizzazione, e
quello democratico è per sua natura un processo di provincializzazione
anziché d'internazionalizzazione. Gli esponenti politici
delle società non occidentali non vincono le elezioni
facendo vedere a tutti quanto sono occidentali. Al contrario,
la competizione elettorale li induce ad abbracciare quelli che
considerano i valori prevalenti nel Paese, e questi hanno solitamente
un carattere etnico, nazionalista e religioso. (Huntington, p.
129)
Nel mondo che sta nascendo, i rapporti tra Stati e gruppi appartenenti
a civiltà diverse non saranno stretti e avranno spesso
carattere antagonista, come dimostra la rinnovata competizione
nel campo degli armamenti (in particolare le armi di distruzione
di massa). Le cause di conflittualità tra Stati e gruppi
appartenenti a civiltà diverse sono, in larga parte, le
stesse di quelle che da sempre hanno generato conflitti tra i
popoli: controllo sulla popolazione, territorio, ricchezza, risorse
e potere relativo, vale a dire la possibilità di imporre
i propri valori, istituzioni e canoni culturali a un altro gruppo
e impedire che tale gruppo faccia lo stesso. (Huntington, p.
183)
La conflittualità tra gruppi di diversa cultura può
anche investire questioni di carattere, appunto, culturale. Le
differenze ideologiche tra marxismo-leninismo e democrazia liberale
possono quanto meno essere discusse, se non risolte. Le vertenze
di carattere materiale possono essere negoziate e spesso risolte
mediante un compromesso. Nessuna di tali soluzioni è invece
possibile con i problemi di natura culturale. È poco probabile
che indù e musulmani possano risolvere la disputa se ad
Ayodhya debba essere costruito un tempio o una moschea costruendo
entrambi, oppure né l'uno né l'altra, oppure erigendo
un edificio sincretico che funga al contempo da tempio e da moschea.
(Huntington, p. 184)
L'Occidente occupa oggi una posizione dominante e resterà
il numero uno in termini di potere e influenza per buona parte
del XXI secoli. Nel contempo, tuttavia, si sta verificando un
graduale, inesorabile e fondamentale mutamento nei rapporti di
forza tra le varie civiltà, e il potere dell'Occidente
in rapporto a quello di altre civiltà continuerà
a declinare. Via via che il primato dell'Occidente si riduce,
buona parte del suo attuale potere finirà semplicemente
con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su
base regionale tra le altre grandi civiltà. (Huntington,
p. 111)
Asiatici e musulmani proclamano entrambi la superiorità
della propria cultura rispetto a quella occidentale. Per contro,
i popoli di altre civiltà non occidentali - indù,
ortodossa, latinoamericana, africana - pur rivendicando il carattere
distintivo della propria cultura, quantomeno fino a metà
anni '90 esitavano a proclamare la propria superiorità
su quella occidentale. Asia e Islam sono dunque sole, e a volte
alleate, nella loro sfida all'Occidente.
Dietro queste sfide vi sono motivi correlati ma diversi. Il desiderio
di affermazione asiatico si fonda sulla crescita economica; quello
musulmano scaturisce in considerevole misura dalla mobilità
sociale e dallo sviluppo demografico. Entrambe le sfide hanno
- e continueranno ad avere nel XXI secolo - conseguenze fortemente
destabilizzanti sul quadro politico mondiale. La natura di tali
conseguenze, tuttavia, differisce in modo significativo.
Lo sviluppo economico dell'Asia e la sempre maggiore autostima
delle società asiatiche stanno disgregando l'ordine politico
internazionale in almeno tre modi:
1) Lo sviluppo economico consente agli Stati asiatici di espandere
il proprio potenziale militare, genera incertezza sui rapporti
futuri tra quei Paesi e porta alla luce vertenze (specialmente
territoriali: confini ed isole) e rivalità rimaste sopite
durante la Guerra fredda, accrescendo così la probabilità
di conflitti e di instabilità nella regione. La sola Asia
orientale è il crogiolo di sei civiltà: giapponese,
sinica, ortodossa, buddista, musulmana ed occidentale, cui l'Asia
meridionale aggiunge l'induismo.
2) Lo sviluppo economico accresce l'intensità dei conflitti
tra le società asiatiche e l'Occidente, Stati Uniti in
testa, ed aumenta le possibilità per le società
asiatiche di prevalere. Ad esempio il Giappone, rivale economico,
sta cominciando a rendersi autonomo sul piano diplomatico; inoltre
la questione dei diritti umani in Asia rimane irrisolta, malgrado
le pressioni occidentali.
3) La crescita economica della maggiore potenza asiatica, la
Cina, rafforza l'influenza cinese nella regione e la probabilità
che la Repubblica popolare riaffermi la propria tradizionale
egemonia in Asia orientale, costringendo così altre nazioni
o ad "allinearsi" e adattarsi a tali sviluppi in nome
della comune cultura, oppure a fare da "contrappeso"
e tentare di contenere l'influenza cinese. (Huntington, p. 320)
Quanto all'Islam, la conflittualità con l'Occidente è
aumentata per una combinazione di vari fattori:
1) La crescita della popolazione musulmana ha prodotto un altissimo
numero di giovani disoccupati ed esasperati che abbracciano la
causa islamista, premono sulle società confinanti ed emigrano
in Occidente.
2) La rinascita dell'Islam ha dato ai musulmani nuova fiducia
nella superiorità della propria civiltà e dei propri
valori rispetto a quelli dell'Occidente.
3) I paralleli tentativi dell'Occidente di universalizzare i
propri valori e le proprie istituzioni, di mantenere la propria
superiorità militare ed economica e di intervenire nei
conflitti del mondo islamico provocano nei musulmani un forte
risentimento.
4) Il crollo del comunismo ha eliminato un nemico comune dell'Islam
e dell'Occidente, rendendo più acuta in entrambi la percezione
della reciproca minaccia.
5) I sempre maggiori contatti e rapporti tra musulmani ed occidentali
stimolano in ciascuna delle due parti un senso tutto nuovo della
propria identità e delle differenze che le separano. Tanto
nelle società musulmane quanto in quelle cristiane, negli
anni '80 e '90 la tolleranza ha registrato un netto declino.
(Huntington, p. 309-310)
Le civiltà meridionali - africana e latinoamericana -
sono relativamente deboli dal punto di vista militare ed economico.
È probabile che per quanto attiene ai rapporti con l'Occidente
esse imboccheranno direzioni opposte. Il matrimonio tra la civiltà
latinoamericana e quella occidentale non sarà facile da
realizzare, i preparativi procederanno probabilmente con grande
lentezza per buona parte del XXI secolo, e potrebbe anche non
consumarsi mai. E tuttavia le differenze tra Occidente e America
Latina restano di poco conto rispetto a quelle che dividono l'Occidente
dalle altre civiltà.
In Africa, è possibile che il governo sudafricano decida
di realizzare un nuovo arsenale nucleare per assicurarsi il ruolo
di Stato guida dell'Africa e scoraggiare l'Occidente dall'intervenire
negli affari africani. Diritti umani, immigrazione, economia
e terrorismo sono altri temi di confronto tra Africa ed Occidente.
Sembra che oggi sia in atto in Africa un processo a lungo termine
di de-occidentalizzazione: riduzione degli interessi e dell'influenza
occidentale, autoaffermazione della cultura indigena, subordinazione
in Sudafrica degli elementi di cultura afrikaner-inglesi alla
prevalente cultura africana.
Se l'America Latina sta diventando più occidentale, l'Africa
lo sta diventando sempre meno. Entrambe, tuttavia, restano -
seppur in modi diversi - dipendenti dall'Occidente e incapaci,
voto alle Nazioni Unite a parte, di influenzare in modo decisivo
l'equilibrio tra l'Occidente e i suoi sfidanti. (Huntington,
p. 355-357)
In un futuro dominato dagli scontri tra civiltà, l'Occidente
dovrebbe rispondere rivendicando la propria cultura e sfruttando
il proprio potenziale militare ed economico. Nel primo caso,
bisognerebbe smettere di proclamare l'universalità dei
valori occidentali ed anche il pluralismo culturale degli Stati
Uniti, con la correlativa rinuncia alle radici storiche comuni
con l'Europa, perché ciò disgregherebbe l'Occidente
proprio mentre le altre civiltà acquistano sempre più
potere nel mondo. (Huntington, p. 454-459)
Nel secondo caso, il rischio che i conflitti locali si allarghino,
fino a divenire guerre di civiltà, dovrebbe indurre ad
evitare i richiami pacifisti volti allo smantellamento delle
armi, ma anche a rispolverare il famoso detto "la politica
è la continuazione della guerra con altri mezzi",
vale a dire ad utilizzare gli strumenti della diplomazia per
contenere il conflitto a livello esclusivamente locale, astenendosi
dall'intervenire militarmente, o quantomeno procurarsi degli
alleati fuori dai confini dell'Occidente nel caso il conflitto
si allargasse. (Huntington, p. 472)
Se l'uomo riuscirà mai a sviluppare una civiltà
universale, questa emergerà gradualmente mediante l'esplorazione
e l'espansione di valori comuni. E dunque, in aggiunta alla regola
dell'astensione e a quella della mediazione congiunta, la terza
regola per il mantenimento della pace in un mondo di civiltà
composite è la regola delle comunanze: i popoli di tutte
le civiltà dovrebbero cercare di trasmettere i valori,
le istituzioni e le usanze condivise da popoli di altre civiltà".
(Huntington, p. 477)
Fukuyama e la fine della
storia
"Si può affermare
con sicurezza che il secolo XX ci ha reso tutti profondamente
pessimisti riguardo alla storia. Le esperienze del secolo hanno
reso molto problematica la concezione di un progresso basato
sulla scienza e sulla tecnologia. La capacità della tecnologia
di migliorare la vita umana è infatti decisamente dipendente
da un parallelo progresso morale dell'uomo. Senza quest'ultimo
la potenza della tecnologia verrà sicuramente utilizzata
a scopi malvagi, e l'umanità starà peggio di quanto
si prevedeva in passato.
Le guerre totali non sarebbero state possibili senza le conquiste
fondamentali della rivoluzione industriale: ferro, acciaio, motore
a combustione interna ed aeroplano. E da Hiroshima in poi l'umanità
è vissuta sotto la minaccia della conquista tecnologica
più terribile di tutte, quella delle armi nucleari. La
fantastica crescita economica resa possibile dalla scienza moderna
ha un lato negativo, perché in molte parti del pianeta
essa ha portato ad un grave degrado ambientale ed ha fatto sorgere
addirittura la possibilità di una catastrofe ecologica
globale. (Fukuyama, p. 28-29)
Nonostante questo, però, gli avvenimenti in questi decenni
hanno preso un'altra piega. La più grande delle sorprese
è stata il crollo del comunismo in gran parte del mondo,
verificatosi alla fine degli anni '80; a questo va aggiunta la
crisi dell'autoritarismo, di destra come di sinistra. In alcuni
casi il crollo ha portato all'instaurazione di democrazie liberali
stabili e prosperose; in altri casi all'autoritarismo è
successa l'instabilità, o un'altra forma di dittatura.
Ma, al di là di un eventuale successo finale della democrazia,
gli autoritarismi di ogni genere sono piombati in una grave crisi
praticamente in ogni parte del globo. (Fukuyama, p. 34)
La debolezza dei governi autoritari della destra sta nel loro
controllo incompleto della società civile. Andando al
potere con un preciso mandato di ristabilire l'ordine o di imporre
una "disciplina economica", molti si sono trovati a
non avere più successo dei loro predecessori democratici
quanto a stimolare lo sviluppo economico od a creare nella società
un senso dell'ordine. E coloro che non hanno avuto successo hanno
finito per rimanere presi nelle proprie reti. Questo perché
le società alla cui sommità essi sedevano, man
mano che in esse aumentavano l'istruzione, il benessere e le
dimensioni della classe media, diventavano per loro un vestito
sempre più largo. Inoltre, con lo svanire del ricordo
dell'emergenza specifica che aveva giustificato i governi forti,
queste società hanno finito con l'essere sempre meno disposte
a tollerare regimi militari. (Fukuyama, p. 60)
I governi totalitari della sinistra hanno cercato di evitare
questi problemi assoggettando al loro controllo l'intera società
civile, ivi compreso quello che i loro cittadini potevano pensare.
Ma un autentico sistema di questo genere poteva essere tenuto
in piedi unicamente attraverso un terrore che minacciasse gli
stessi reggitori del sistema. Solo che l'attenuarsi di questo
terrore ha messo in moto un lungo processo di degenerazione,
in cui lo Stato è venuto e perdere il controllo di certi
aspetti chiave della società civile. Cosa quanto mai grave,
lo Stato ha perso il controllo del sistema delle credenze. E
siccome la formula socialista per lo sviluppo economico non ha
funzionato, lo Stato non ha potuto impedire che i suoi cittadini
prendessero atto di questo fatto e ne traessero le loro conclusioni.
(Fukuyama, p. 61)
Oltre alla crisi dell'autoritarismo politico, è proseguita
nel campo dell'economia una rivoluzione più silenziosa
ma non meno rilevante. Avvenimento ad un tempo rivelatore e causa
di questa rivoluzione è stato il fenomenale sviluppo dell'economia
nell'Asia orientale, dopo la seconda guerra mondiale. Uno sviluppo
che non si è limitato solo a Paesi di più antica
modernizzazione come il Giappone, ma che ha finito per includere
praticamente tutti i Paesi asiatici disposti ad adottare l'economia
di mercato e ad integrarsi nel sistema capitalistico mondiale.
I risultati da essi ottenuti hanno portato a pensare che anche
dei Paesi poveri, senza altre risorse che le loro laboriose popolazioni,
potevano trarre vantaggi dall'apertura del sistema economico
internazionale e a creare quantità impensate di nuova
ricchezza, colmando rapidamente il gap con le più radicate
potenze capitaliste dell'Europa e dell'America settentrionale.
(Fukuyama, p. 63)
Naturalmente non si può escludere che un giorno non verremo
sorpresi da una nuova irruzione proveniente da una fonte che
non era stata individuata preventivamente (l'attentato dell'11
settembre - la parentesi non è di Fukuyama: sia lui che
Huntington hanno scritto i rispettivi libri prima di quella data).
Ma le eventuali battute d'arresto e le delusioni che indubbiamente
puntelleranno il processo di democratizzazione, oppure il fatto
che non tutte le economie di mercato prospereranno, non devono
farci perdere di vista il disegno più vasto che sta prendendo
forma nella storia mondiale, cioè la democrazia. In altre
parole, esce vittoriosa non tanto la prassi quanto l'idea liberale,
in mancanza di altri concorrenti validi. (Fukuyama, p. 66)
La tesi che fossimo alla "fine della storia", ossia
che non c'erano alternative praticabili alla democrazia liberale,
ha suscitato una quantità di repliche irritate da parte
di persone che indicavano come alternative il fondamentalismo
islamico, il nazionalismo, il fascismo e un certo numero di altre
possibilità. Nessuno di questi critici ritiene tuttavia
che queste alternative siano superiori alla democrazia liberale,
e nessuno - per quanto se ne sappia - ha suggerito una forma
alternativa di organizzazione sociale ritenuta personalmente
migliore. (Fukuyama, p. 360)
L'irreversibilità del processo è dimostrata anche
dallo sviluppo della scienza moderna. La scienza conferisce un
vantaggio militare decisivo a quelle società che sono
in grado di sviluppare, produrre e dispiegare tecnologia nella
maniera più efficiente. La possibilità della guerra
è una forte pressione che spinge alla razionalizzazione
delle società, ed alla creazione di strutture sociali
uniformi tra le varie culture. Ogni Stato che voglia conservare
la propria autonomia politica è costretto ad adottare
la tecnologia dei suoi nemici, e a ristrutturare il proprio sistema
sociale.
Ad esempio, per competere con i propri vicini gli Stati devono
essere di una certa dimensione, il che costituisce un potente
incentivo all'unità nazionale; devono essere in grado
di mobilitare risorse a livello nazionale, il che richiede la
creazione di un forte Stato centralizzato capace di imporre tasse
e regulation; devono rompere vincoli regionali, religiosi e parentali
che potrebbero ostacolare l'unità nazionale; devono aumentare
il livello della pubblica istruzione in modo da preparare un'élite
capace di produrre tecnologia; devono tenersi al corrente degli
sviluppi che hanno luogo al di là dei loro confini; e
dopo l'introduzione, con le guerre napoleoniche, degli eserciti
di massa, devono cominciare a concedere il diritto di voto anche
alle classi più povere delle loro società se vogliono
essere capaci di una mobilitazione totale. (Fukuyama, p. 93)
Nessuno può sottrarsi a questa evoluzione, e le eccezioni
sono poche: se uno vive in un territorio isolato o poco attraente,
può anche sottrarsi alla razionalizzazione tecnologica.
Oppure ci possono essere dei Paesi fortunati: l'Iran islamico
ha potuto scagliarsi contro il razionalismo occidentale che produce
armi potenti solo perché poteva comprarsele con i proventi
del petrolio.
Il secondo modo in cui le scienze moderne possono arrivare a
produrre cambiamenti storici direzionali è attraverso
la conquista progressiva della natura, fatta per soddisfare i
desideri umani, un progetto altrimenti noto come sviluppo economico.
Lo sviluppo economico ha prodotto in tutte le società
certe trasformazioni sociali uniformi, indipendentemente dalle
loro precedenti strutture sociali. (Fukuyama, p. 96)
Le società industriali devono essere prevalentemente urbane,
perché solo nelle città è possibile trovare
un'offerta adeguata di manodopera qualificata qual è quella
che richiedono le industrie moderne, e perché solo le
città hanno le infrastrutture ed i servizi capaci di supportare
imprese grandi ed altamente specializzate.
I lavoratori non possono rimanere legati permanentemente ad un
lavoro particolare, ad un luogo particolare od a determinati
rapporti sociali, ma devono essere liberi di spostarsi, devono
imparare lavori e tecnologie nuove e vendere la loro forza lavoro
al miglior offerente. Tutto questo provoca effetti sconvolgenti
in gruppi sociali tradizionali come le tribù, i clan,
le famiglie allargate, le sette religiose, e così via.
(Fukuyama, p. 97)
L'industrializzazione coronata da successo produce società
di ceti medi, e le società di ceti medi esigono la partecipazione
politica e l'eguaglianza dei diritti. Nonostante le disparità
nella distribuzione del reddito che si verificano frequentemente
nelle prime fasi dell'industrializzazione, lo sviluppo economico
tende in definitiva a promuovere un'ampia eguaglianza di condizioni
in quanto questa crea un'enorme domanda di forza lavoro numerosa
ed istruita. E questa ampia eguaglianza di condizioni predisporrebbe
la gente ad opporsi a sistemi politici che non rispettano tale
eguaglianza o non permettono alla gente di partecipare alla vita
politica su basi di parità. (Fukuyama, p. 134-135)
Capita spesso che la democrazia, una volta al potere, non rimanga
stabile. La ragione sta, in definitiva, nell'imperfetta concordanza
tra popoli e Stati. Gli Stati sono creazioni politiche con un
determinato scopo, mentre i popoli sono comunità morali
preesistenti. I popoli sono cioè comunità che,
a proposito del bene e del male o del sacro e del profano, hanno
credenze comuni, che possono risalire ad una fondazione voluta
in un lontano passato ma che ora esistono come tradizione. (Fukuyama,
p. 228)
Quello degli Stati è il regno della politica, la sfera
della scelta autocoscienze circa il modo opportuno di governare.
Quello dei popoli è invece un regno subpolitico: è
il regno della cultura e della società, le cui regole
raramente sono esplicite o riconosciute autocoscientemente perfino
da quelli che ne fanno parte. Gli Stati si impongono ai popoli.
A volte essi li formano, come nel caso di Romolo o della costituzione
statunitense. Ma in molti casi gli Stati hanno con i loro popoli
rapporti tesi, ed a volte so potrebbe dire che sono addirittura
in guerra con i medesimi. (Fukuyama, p. 229)
Così la cultura nel senso antropologico, quando si oppone
alla trasformazione di certi valori tradizionali in valori democratici,
può costituire un ostacolo alla democratizzazione. I fattori
culturali che ostacolano l'instaurazione di stabili democrazie
liberali appartengono a diverse categorie.
La prima ha a che fare con il grado e la natura della coscienza
nazionale, etnica e razziale di un Paese. Tra il nazionalismo
ed il liberalismo non c'è niente di intrinsecamente incompatibile:
nel secolo XIX tutti e due sono stati stretti alleati nelle lotte
per l'unità nazionale dell'Italia e della Germania. D'altro
canto, è difficile che una democrazia possa sorgere in
un Paese dove il nazionalismo o l'etnicità dei gruppi
che lo compongono sono così forti da impedire il sorgere
di un sentimento dell'unità nazionale e del riconoscimento
dei diritti degli altri, ed è il caso - in particolare
- dell'ex-Unione Sovietica. (Fukuyama, p. 231)
Il secondo ostacolo culturale alla democrazia ha a che fare con
la religione. Come per il nazionalismo, anche tra religione e
democrazie liberale non c'è un conflitto intrinseco, salvo
il caso in cui la religione cessa di essere tollerante ed egualitaria.
Huntington suggerisce che il gran numero di Paesi cattolici che
partecipano all'attuale "terza ondata" di democratizzazione
la rende in un certo senso un fenomeno cattolico, collegato al
mutamento della coscienza cattolica in direzione più democratica
ed ugualitaria avvenuto nel corso degli anni '60. Vi è
certamente qualcosa di vero in questa argomentazione, ma a sua
volta essa pone una nuova questione: perché la coscienza
cattolica sia cambiata proprio allora. (Fukuyama, p. 392)
Di per sé la religione non crea società libere.
In un certo senso il cristianesimo ha dovuto, attraverso la secolarizzazione
dei suoi fini, rinnegare se stesso prima che potesse emergere
il liberalismo. Ma anche altre religioni si sono adattate ad
un analogo processo di secolarizzazione: ad esempio il buddismo
e lo scintoismo, ora confinati al campo del culto privato incentrato
nella famiglia. L'eredità dell'indusismo e del confucianesimo
è mista: mentre come dottrine sono tutte e due relativamente
permissive, la sostanza del loro insegnamento è gerarchica
ed in egualitaria. Al contrario, l'ebraismo ortodosso e l'Islam
fondamentalista sono religioni totalistiche che cercano di regolamentare
ogni aspetto della vita umana, sia pubblica che privata, ivi
compreso il campo della politica: la sola democrazia esistente
nel mondo islamico contemporaneo è la Turchia, l'unico
Paese rimasto fedele al rigetto esplicito dell'eredità
islamica proclamata agli inizi del secolo XX, quando ebbe inizio
il suo processo di laicizzazione. (Fukuyama, p. 232)
L'attuale revival del fondamentalismo islamico, che praticamente
tocca ogni Paese del mondo con una consistente popolazione musulmana,
può essere visto come una reazione al fatto che in genere
le società musulmane non riescono a conservare la propria
dignità di fronte all'Occidente non musulmano. (Fukuyama,
p. 251)
Il revival del fondamentalismo islamico venuto alla ribalta con
la rivoluzione iraniana del 1978-79 non è però
un caso di sopravvivenza in età moderna di "valori
tradizionali". Questi valori, corrotti e latitudinari, erano
già stati sonoramente sconfitti nel corso dei cento anni
precedenti. Il revival islamico è piuttosto la riaffermazione
di una serie di valori più antichi e più puri,
che si dice fossero esistiti in un lontano passato, e che non
sono né i discreditati "valori tradizionali"
del passato recente né i valori occidentali trapiantati
così malamente nel Medio Oriente.
Sotto questo aspetto il fondamentalismo islamico assomiglia al
fascismo europeo in maniera tutt'altro che superficiale. E, come
nel caso del fascismo, non desta meraviglia che il revival fondamentalista
colpisca più duramente i Paesi apparentemente più
moderni, perché le loro culture sono state quelle più
minacciate dall'importazione di valori occidentali. (Fukuyama,
p. 252)
Oggi la sfida più rilevante all'universalismo liberale
delle rivoluzioni americana e francese non viene dal mondo comunista,
il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti, ma da quelle
società dell'Asia che combinano le economie liberali con
una specie di autoritarismo paternalistico. L'inaudito successo
economico dell'Asia ha evidenziato sempre più come esso
non fosse dovuto solamente alla perfetta imitazione dei modelli
occidentali, ma anche al fatto che le società asiatiche
conservassero certe caratteristiche tradizionali delle loro culture,
come la forte etica del lavoro e la superiorità del gruppo
sull'individuo, e le integrassero in un moderno ambiente economico.
(Fukuyama, p. 254)
Se gli asiatici si convincono che i loro successi sono dovuti
più a loro stessi che alle culture alle quali alle quali
hanno attinto, se in America ed in Europa la crescita economica
vacilla rispetto a quella dell'Estremo Oriente, se le società
occidentali continuano a sperimentare un sempre maggiore sgretolamento
di istituzioni sociali basilari come la famiglia, allora è
possibile che in Estremo Oriente guadagni terreno un'alternativa
sistematica illiberale e non democratica, che combina il razionalismo
economico tecnocratico con l'autoritarismo paternalistico. (Fukuyama,
p. 259)
Nel mondo contemporaneo noi vediamo un curioso, duplice fenomeno:
la vittoria dello Stato universale ed omogeneo, e la persistenza
dei popoli. Da una parte vi è una crescente omogeneizzazione
del genere umano prodotta dall'economia e dalla tecnologia moderne,
e dalla diffusione dell'idea del riconoscimento razionale quale
unica base legittima di governo in tutto il mondo. Dall'altra
vi è dappertutto una resistenza a questa omogeneizzazione,
ed insieme una riaffermazione, in gran parte a livello subpolitico,
di identità culturali che finiscono col rafforzare le
barriere esistenti tra popoli e nazioni. (Fukuyama, p. 260)
Secondo molti - in particolare Huntington -, si sta arrivando
ad un sistema "multipolare", in cui la potenza è
distribuita tra un numero maggiore di nazioni, con conseguente
aumento del rischio di nuovi conflitti perché le varie
civiltà si organizzerebbero secondo l'ottica della massima
potenza, attraverso il rafforzamento dell'apparato militare.
Nelle società aristocratiche - che fino a due secoli fa
costituivano la grande maggioranza delle società umane
- le guerre di conquista per l'ingrandimento territoriale o le
guerre di religione erano ritenute un'aspirazione normale, anche
se qualche moralista e qualche scrittore condannavano il loro
impatto distruttivo. (Fukuyama, p. 274)
Con la formazione dello Stato liberale ed il diffondersi dell'eguaglianza
sociale, però, si sono verificati cambiamenti importanti
anche nell'economia di guerra. Prima della rivoluzione industriale,
la ricchezza nazionale doveva essere tirata fuori dai piccoli
surplus sudati dalle masse di contadini che vivevano al livello
di sussistenza o appena sopra di esso in società quasi
totalmente agricole. Un principe ambizioso poteva aumentare la
propria ricchezza solo requisendo le terre ed i contadini a qualcun
altro, o conquistando nel Nuovo Mondo territori ricchi d'oro
e d'argento.
Ma dopo la rivoluzione industriale l'importanza della terra,
della popolazione e delle risorse naturali in quanto fonti di
ricchezza è diminuta fortemente rispetto alla tecnologia,
all'istruzione ed all'organizzazione razionale del lavoro. L'enorme
aumento della produttività del lavoro che questi ultimi
fattori consentono si è rivelato di gran lunga più
importante e sicuro dei guadagni realizzati con le conquiste
territoriali. Paesi come il Giappone, Singapore ed Hong Kong,
con poca terra, popolazioni limitate e senza risorse naturali
si sono trovati in una posizione economicamente invidiabile,
non dovendo ricorrere all'imperialismo per aumentare la propria
ricchezza.
Come dimostra il tentativo fatto dall'Irak di occupare il Kuwait,
il controllo di certe risorse naturali come il petrolio dà
la possibilità di grandi vantaggi economici. Sembra però
che le conseguenze di questa invasione non siano tali da invogliare
altri a seguire in futuro un simile metodo per assicurarsi delle
risorse. Dato che l'accesso a queste risorse si può ottenere
pacificamente attraverso un sistema globale di libero scambio,
la guerra ha economicamente molto meno senso che non due o tre
secoli addietro. Nello stesso tempo i costi economici della guerra
hanno subito, con i progressi della tecnologia, aumenti esponenziali.
(Fukuyama, p. 276-277)
Coloro che scorgono nel nazionalismo una forza troppo elementare
e potente per poter essere vinta da una combinazione di liberalismo
ed interesse economico personale, dovrebbero pensare al destino
delle religioni organizzate, il veicolo per il riconoscimento
che ha preceduto il nazionalismo. C'è stato un tempo in
cui la religione ha avuto un ruolo enorme nella politica europea,
con protestanti e cattolici che, organizzati in fazioni politiche,
si sono combattuti fino a dissanguare il continente. Dopo un
confronto secolare con il liberalismo, la religione ha finito
col diventare tollerante. (Fukuyama, p. 286)
Le recenti manifestazioni del nazionalismo vanno inquadrate nella
giusta prospettiva. Sostituendo le barriere di classe con quelle
nazionali e creando entità centralizzate e linguisticamente
omogenee, le forze economiche hanno incoraggiato il nazionalismo.
Ma queste stesse forze economiche sono quelle che ora, con la
creazione di un mercato mondiale unico ed integrato, incoraggiano
la rottura delle barriere nazionali. Ed il fatto che la neutralizzazione
definitiva del nazionalismo non possa aver luogo in questa o
nella prossima generazione non cambia niente: la sua fine è
ormai segnata. (Fukuyama, p. 290)
Ancora una volta, facciamo un confronto con l'Europa: il fascismo
in Italia e il nazismo in Germania sono sorti in quanto questi
due Paesi sono stati, nell'Europa occidentale, gli ultimi ad
industrializzarsi ed a raggiungere l'unità nazionale.
(Fukuyama, p. 285)
Le possibilità di conflitti però non cesseranno
totalmente. Ci saranno diversi assi lungo i quali le varie civiltà
potranno entrare in collisione: il petrolio, l'ambiente e l'immigrazione.
Per prevenire le future guerre, le democrazie mature avranno
un interesse comune sia a difendersi dalle minacce esterne che
a promuovere la causa della democrazia in Paesi dove essa ora
non esiste". (Fukuyama, p. 293)
Qualche riflessione polemica
Il tema di questo libro è
la popolazione. Tuttavia, non si può parlare di popolazione
senza conoscere anche il contesto socio-culturale in cui opera
il meccanismo demografico. Popolazione significa anche procreare
un figlio, accudirlo ed educarlo; orbene, questi tre fattori
- procreazione, mantenimento, educazione - variano notevolmente
perché sono influenzati da una miriade di altre variabili
- il tipo di territorio, le risorse, le malattie, le guerre,
le tradizioni, ecc. Per questo almeno la metà del libro
è dedicata ad argomenti diversi da quello della popolazione,
ma ad essa strettamente connessi.
La cultura è legata alla demografia in tanti modi. Quello
più semplice, che abbiamo schematizzato nel paragrafo
a, è: nomadismo-infanticidio femminile, tradizione-alta
prolificità, modernità-pianificazione familiare.
I problemi nascono con il passo successivo, che consiste nel
chiedersi se sia stata la variabile popolazione ad influenzare
la variabile cultura o viceversa.
Il percorso storico da noi seguito è marxista, nel senso
del determinismo storico. La successione dei fatti riscontrata
è la seguente:
In principio era il nomadismo |
- tribalismo, caccia, sopravvivenza |
Con l'agricoltura nasce
la tradizione |
- Dio, patria, famiglia |
La tradizione è uguale
per tutti |
- bianchi, neri, gialli |
Ed è un sistema imperfetto |
- carestie, pestilenze,
guerre |
Cede il passo alla modernità |
- denaro, educazione, divertimento |
Il passaggio è violento |
- rivoluzioni, colonialismo |
La transizione non è
conclusa |
- globalizzazione |
Il risultato temporaneo è lacunoso - patologie ereditarie,
inquinamento
Mentre è relativamente facile affermare che sono stati
il nomadismo e la modernità a portare - rispettivamente
- alla bassa natalità, per il passato patriarcale permangono
ostruzionismi. Soltanto dopo che l'agricoltura si è affermata
come modello di sviluppo, la gente ha cominciato a fare tanti
figli; e soltanto dopo questo processo di adattamento, la cultura
ha tracciato le sue linee filosofiche per giustificare sia l'ambiente
difficile sia l'alta prolificità. Il guaio è che,
nel tracciare queste linee, la cultura patriarcale ha mescolato
le carte ed ha stravolto la successione dei fatti.
Prima sarebbe stata creata la "razza eletta", solo
dopo - e logicamente - i membri avrebbero dovuto garantire la
purezza della razza attraverso l'alta prolificità. Prima
sarebbe stata creata la morale del sacrificio (per l'appunto
"la guerra come sola igiene del mondo"), solo dopo
il Dio (anche il Dio ariano) avrebbe voluto che l'habitat ideale
per l'uomo fosse il villaggio rurale ("uomo, tu lavorerai
con il sangue e il sudore della fronte, donna tu partorirai con
dolore").
Il fine di queste "sacre menzogne", di questo rovesciamento
dei valori, è stato la conservazione della razza eletta
secondo le regole di vita che il Dio avrebbe imposto ai primi
antenati ("i dieci Comandamenti"). Nelle parole di
Nietzsche: "L'autorità della legge ha la sua base
nella tesi: è stato Dio a darla, sono stati gli antenati
a viverla. - La superiore logica di un simile procedimento risiede
nell'intenzione di reprimere, passo su passo, la coscienza della
vita che si è riconosciuta giusta (vale a dire dimostrata
mediante un'esperienza enorme e finemente vagliata): in modo
da raggiungere il completo automatismo dell'istinto - premessa,
questa, per ogni genere di maestria, per ogni sorta di perfettibilità
nell'arte di vivere. Fissare un codice alla maniera di Manu vuol
dire consentire da quel momento ad un popolo di divenire maestro,
di divenire perfetto - di ambire alla massima arte vitale. A
tal fine esso deve esser reso incosciente: questo lo scopo d'ogni
santa bugia". (Nietzsche, af. 57)
I lettori avranno capito come, fin dalle prime pagine del libro,
non si sia andati molto per il sottile nel criticare la morale
patriarcale, rischiando anche di abbandonare la parvenza di imparzialità
necessaria per un saggio d'attualità. Sinceramente ne
avremmo volentieri fatto a meno, se non fosse per le conseguenze
nefaste che questa morale ha apportato al corso della storia,
e continua ad apportare. Ne avremmo fatto a meno perché,
dopotutto, i vincoli e le virtù tradizionali sono serviti
a difendere le varie comunità in tempi difficili. Per
limitare i danni, diciamo allora che non critichiamo la morale
patriarcale in sé, ma gli eccessi che la trasformano in
morale inquisitoria. Fossimo vissuti nel medioevo, la cosa più
intelligente da fare sarebbe stata ragionare come Hitler.
La morale patriarcale, ponendo la razza eletta al centro del
mondo, è egocentrica; questo la porta a divenire cieca
nei confronti dei vari mutamenti della storia. Gli europei d'oggi
vivono in un sistema borghese, dove prevalgono le virtù
capitaliste, il denaro, la tolleranza, l'ambizione. Ma i discorsi
che si sentono nei circoli politici di destra sono di questo
tipo:
1) il passato patriarcale era il regno delle virtù, la
solidarietà in famiglia, il rispetto per gli anziani,
l'onestà dei governanti, lo spirito eroico dei contadini
e dei soldati, mentre gli insuccessi dei nostri antenati erano
dovuti alla furia bestiale dei "barbari alle porte",
dei libertini che odiavano le virtù religiose, dei capitalisti
che volevano sostituire il "Regno dei Cieli" con il
Paradiso in terra;
2) la modernità, con la complicità degli infidi
alleati comunisti, ha corrotto la società, disgregato
le famiglie, marginalizzato gli anziani, insegnato ai giovani
a rinunciare alle virtù religiose per inseguire la chimera
dei soldi facili anche attraverso la corruzione, indebolito la
nazione con la scarsa natalità - che perciò mette
tutti alla mercé degli stranieri altamente prolifici;
3) la cultura occidentale antica ha permesso al continente europeo
di sfruttare tutti i ritrovati tecnologici per rafforzarsi nei
confronti delle altre culture plebee, e pertanto è stato
lecito colonizzare i territori d'oltremare nei secoli addietro,
così come è lecito oggi inculcare i nostri valori
attraverso l'arma della globalizzazione.
Al di là della dubbia efficacia propagandistica, questi
tre discorsi non hanno alcun senso, ma servono soltanto per gettare
benzina sul fuoco dello scontro con i nemici islamici, per bloccare
il flusso di immigrati, per ripristinare le leggi sulla censura
e sull'alta prolificità. Le critiche alla morale patriarcale
che abbiamo sviluppato fin dai primi paragrafi dovrebbero essere
convincenti:
1) Le virtù patriarcali non erano una nostra prerogativa;
tutte le civiltà del passato hanno dovuto adottare le
regole della mitica Tradizione (culto degli antenati, alta prolificità,
guerre di conquista, gerarchia del potere), se volevano garantire
lo scopo del "mantenimento, cioè la riproduzione
degli individui". Ed infatti è anche per questo che
abbiamo insistito nello spiegare come le guerre balcaniche, il
conflitto in Afghanistan e questione palestinese si svolgono
secondo i criteri tipici della tradizione. O credevamo davvero
che "la guerra come sola igiene del mondo" fosse un'esclusiva
occidentale?
2) La domanda più importante, come evitare le guerre,
si trasforma (per l'appunto) in: come riservarci l'esclusiva
della guerra. Il problema è che conosciamo già
gli esiti di quest'ultima domanda: le due guerre mondiali stanno
lì a testimoniarlo. Sono state queste guerre a provocare
la decadenza dell'Europa occidentale ed il conseguente predominio
degli americani "capitalisti, moderni e plutocratici",
non certo il fantomatico complotto massonico. E qualcuno osa
ancora dire che la decadenza occidentale è dovuta alla
modernità corruttrice? A proposito del complotto massonico,
ci sono molte analogie con il pensiero borghese: entrambi volevano
mutare le strutture patriarcali per instaurare un ordine mondiale
fondato sul denaro. Con il senno del poi, la parola "complotto"
andrebbe mutata in "salutare prospettiva per l'umanità",
visti gli indubbi benefici della modernità.
3) L'alta prolificità è un motivo valido per applicare
le guerre di conquista a scapito delle altre civiltà.
Solo che quando capitava ai nostri antenati di fare tanti figli,
e conquistare nuovi territori, si trattava di un dovere morale
- l'Impero romano, le crociate, l'imperialismo -, ma quando capitava,
e capita tutt'oggi, alle civiltà nemiche, si tratterebbe
di una violazione delle leggi di natura e di Dio, un sacrilegio,
un'empietà - i barbari che posero fine all'Impero romano,
gli untori medioevali, i mongoli, gli arabi nel loro massimo
rigoglio, gli altri Paesi europei stessi durante tutte le guerre
intestine, dalla Guerra dei Cent'anni alle due guerre mondiali,
gli immigrati attuali.
4) Per evitare che l'alta prolificità diventi un problema,
quali soluzioni sarebbero possibili? Qui la confusione, nei partiti
di destra, è massima. Il buon senso direbbe: se noi facessimo
tanti figli, invoglieremmo le altre civiltà a fare altrettanto,
e se loro facessero tanti figli - come già fanno - invoglierebbero
noi a fare altrettanto, quindi non resta che scoraggiare le nascite
qui e lì, attraverso la modernizzazione dei costumi (globalizzazione).
Un imprenditore che vota destra sarebbe d'accordo, ma gli altri?
5) Prendiamo un postfascista: "Noi siamo diventati egoisti
perché facciamo pochi figli, ne dobbiamo fare di più.
Mettiamo la museruola ai comunisti che si mangiano i bambini
e incoraggiano la bassa prolificità, la promiscuità
sessuale e l'aborto omicida
Come dite? Gli stranieri? Ma
come si permettono di fare tanti figli? Sterilizziamoli tutti,
anzi no mettiamogli loro una bella bomba atomica, anzi no, non
aiutiamoli affatto così questi bambini moriranno, anzi
no la colpa è dei comunisti che fanno propaganda prolifica
lì per far venire qui una marea di immigrati e uccidere
così la cultura occidentale! La Cina comunista applica
la politica del figlio unico? Quale Cina? I comunisti cinesi
sono degli arrivisti senza scrupoli che hanno ridotto alla fame
la popolazione, e faranno la stessa cosa da noi se arriveranno
al potere, bisogna impedirglielo!". Insomma, quali sono
i veri comunisti? Quelli che incoraggiano la denatalità
in tutto il mondo, o quelli che vogliono seppellire i valori
dell'Occidente con l'alta prolificità globale?
6) Nel paragrafo r avevamo fatto l'esempio delle risorse limitate:
5 risorse, 10 persone. Orbene, se le risorse bastassero per 5
figli e la comunità ne facesse 10, per non parlare degli
stranieri, allora è già dato per scontato che qualcuno
morirà: così "la guerra come sola igiene del
mondo" è soltanto un mezzo per apportare questa selezione
mortale senza rinunciare all'alta prolificità ed alla
purezza della "razza eletta".
7) Quando oggi si critica il consumismo e la tolleranza che affiacchirebbero
il fisico, si prende il mondo islamico come modello da imitare
(perché loro hanno conservato le loro tradizioni: es.,
i supplizi contro i ladri, i pedofili, gli omosessuali); ma quando
bisogna parlare dell'Islam in sé, si dice che sono violenti,
fanatici, intolleranti.
8) Prendiamo qualche caso di cronaca: una quindicenne italiana
uccide a coltellate madre e fratellino, la colpa è della
modernità cattiva, un immigrato marocchino uccide un giovane
italiano dopo una rissa al bar, la colpa è della tradizione
araba violenta; soluzione: noi occidentali torniamo alla nostra
tradizione, gli arabi - e gli stranieri in generale - prendono
la nostra modernità (attraverso la globalizzazione). In
base a quali presupposti la tradizione da noi sarebbe buona e
da loro cattiva, mentre la modernità da noi sarebbe cattiva
e da loro buona, non si capisce.
Resta qualcosa da dire a proposito del futuro dell'umanità.
Huntington fonderebbe la sua ipotesi di "scontro delle civiltà"
sul fatto che la democrazia, il pluralismo associazionistico,
la secolarizzazione dei costumi, il capitalismo sarebbero valori
esclusivamente occidentali, e che pertanto sarebbe assurdo volerli
imporre alle altre civiltà - islamica ed asiatica in primis
- con il rischio di degenerare in qualche conflitto mondiale.
Altro presupposto dello "scontro delle civiltà"
sarebbe che le civiltà emergenti ragionerebbero secondo
gli schemi della tradizione: per questo la Russia, la Cina, l'India,
l'Islam, l'Africa e il Sudamerica prima o poi potrebbero entrare
in guerra tra di loro e con l'Occidente per conquistare nuovi
territori o imporre i propri valori.
Il problema è che questi due presupposti non sono affatto
dimostrati. Huntington potrebbe benissimo essere elogiato da
uno di destra per l'intelligenza e il realismo delle sue analisi,
ma sarebbe una barzelletta se il simpatizzante di destra elogiasse
anche la democrazia, il pluralismo associazionistico, la secolarizzazione
dei costumi e il capitalismo come santuari della cultura occidentale,
quando invece Mussolini, Hitler e gli altri dittatori europei
del passato spiegavano la cultura occidentale in termini di dittatura
(predominanza dei doveri sui diritti), Partito unico al potere
(suddivisione per classi, gerarchia del potere), famiglia patriarcale
(rispetto per gli anziani, famiglia estesa, matrimonio combinato,
subordinazione della donna) e commistione sacro-profano (concezione
religiosa della vita).
Un musulmano direbbe: "L'Occidente è capitalismo,
corruzione, pornografia; noi arabi dobbiamo conservare la purezza
delle tradizioni patriarcali". Ma di sicuro un nazionalista
europeo non si riconoscerebbe in questa descrizione dell'Occidente.
In realtà i valori della modernità sono valori
borghesi, secondo la più classica teoria della lotta di
classe, valori che si sono sostituiti a poco a poco a quelli
della tradizione. E se davvero è la nuova classe borghese
emergente nel Terzo mondo a governare, allora quello che sta
accadendo laggiù non è il rafforzamento di civiltà
diverse dalla nostra, civiltà che entrerebbero prima o
poi in conflitto, ma una guerra civile strisciante tra valori
tradizionali in via d'estinzione e valori borghesi trionfanti.
Laddove la tradizione è ancora salda, il conflitto è
più violento: nei Balcani, in Islam, in Africa. Per convincercene,
seguiamo la successione dei fatti storici dal punto di vista
della lotta di classe (par, e, g):
10.000 a.C.-1688 d.C.: ogni comunità cerca di rafforzare
se stessa, formando Stati ed Imperi, e pertanto feudatari e borghesi
sono alleati nel consolidare il prestigio interno della comunità,
ed entrano in conflitto con altre comunità composte a
loro volta da feudatari e borghesi.
1688-1873: dalla rivoluzione inglese alla Grande depressione,
in Occidente la borghesia vuole sovvertire l'ordine del mondo,
fondato ancora secondo le regole della tradizione (il complotto
giudaico-massonico-cristiano). Inizia l'era delle rivoluzioni
e delle guerre civili, mentre il resto del mondo comincia a non
avere più storia. Non si pensa più alla gloria
patria, ma alla creazione del mercato mondiale. L'imperialismo
non è più "guerra di conquista" ma "accaparramento
materie prime" per le fabbriche.
1873-1945: la prima crisi di sovrapproduzione rende il mercato
mondiale impossibile da realizzarsi, almeno nell'immediato. Dall'altro
lato, la nascita dello Stato-nazione e la necessità di
grossi capitali e di concentrazioni economiche per investire
nell'industria pesante (la seconda rivoluzione industriale),
modifica il quadro. Feudatari (che adesso si chiamano politici)
e borghesi sono concordi nell'obiettivo di rafforzare lo Stato,
a spese delle potenze rivali: abbiamo così le leggi protezioniste
e le politiche di incoraggiamento della prolificità (più
soldati, più credenti e più operai per le fabbriche),
l'imperialismo diventa un connubio tra "guerra di conquista"
e "accaparramento materie prime". Si arriva alle due
guerre mondiali. Tra parentesi, per dimenticare le grandi rivoluzioni
del precedente periodo si inventa un'altra "sacra menzogna":
che le rivoluzioni siano state degli incidenti di percorso, ed
i vari Stati siano tornati alla situazione esistente nel medioevo,
con la stessa forza e lo stesso prestigio; in altri termini,
che i nostri avi avrebbero vissuto allo stesso modo.
1945-1990: le guerre mondiali hanno screditato l'ideologia patriarcale,
favorendo la diffusione del modello americano (il consumismo
di massa); dall'altro lato, la Guerra fredda costringe a seppellire
i vecchi rancori tra gli Stati dell'Europa e dell'Asia sud-orientale.
Così la borghesia sembra trionfare definitivamente in
Occidente. La decolonizzazione, dall'altro lato, favorisce l'emergere
di un ceto dirigente nel Terzo mondo; ma i rapporti tra feudatari
e borghesi locali sono amichevoli per via della Guerra fredda.
Qui si impone un'altra parentesi: gli Stati Uniti, nel dopoguerra,
stavano già progettando la creazione di un mercato mondiale
all'insegna della globalizzazione, ma l'Urss ha bloccato il progetto.
Fosse stato anticipato questo mercato, non avrebbe incontrato
i problemi che incontra ora, e cioè sovrappopolazione,
deforestazione, fondamentalismo religioso, collasso dell'Africa.
Purtroppo i noglobal questa lezione non la impareranno mai.
1990-
: la fine della Guerra fredda ha modificato la situazione.
Sono terminate le guerre per procura, anche se alcune vivono
ancora di vita propria, senza il sostegno delle superpotenze.
In molti casi è diminuita la motivazione ideologica dei
conflitti, che si basano ora sull'identità (cioè,
come ha detto Huntington, sulla cultura), identità che
si esprime attraverso vari elementi tradizionali (cioè
patriarcali): religione, origine etnica, nazionalità,
razza, clan, lingua o regione di appartenenza. In molti di questi
conflitti sono sottesi gli interessi economici di uno o più
dei belligeranti. Quanto ai rapporti tra baroni politici e borghesi
locali, la situazione nei Paesi in via di sviluppo si è
sbloccata. Adesso si tratta di scegliere, o la modernità
e la subordinazione agli Stati Uniti, oppure la salvaguardia
della tradizione:
- Per il Sudamerica non ci dovrebbero essere alternative all'americanizzazione
del sistema. Da notare che questo subcontinente è caratterizzato
dalla multietnicità, fattore che teoricamente dovrebbe
essere foriero di nuovi conflitti interni ai vari Stati. Ma quando
le diverse razze si sono stanziate a poco a poco nel territorio,
hanno modificato profondamente il significato di "tradizione",
che è diventato - come in Europa - "cultura",
cioè un fattore strettamente personale, legato alla pura
sopravvivenza del singolo o della comunità, e non è
più un qualcosa da imporre all'"altro".
- Per l'Africa subsahariana, la possibilità di creare
una civiltà a sé stante significherebbe fronteggiare
da soli la minaccia islamica e il problema dell'HIV/AIDS, per
cui bloccare la modernità sarebbe suicida; certo, vi è
il problema delle guerre tribali e delle multinazionali che le
finanziano, ma la situazione non si risolve con meno globalizzazione
quanto con più globalizzazione.
- Per i Paesi asiatici e la Russia, come ha fatto notare Fukuyama,
un ritorno alla tradizione vorrebbe dire anche un ritorno alle
guerre di conquista, ma i costi economici della guerra sono molto
alti, per cui sarebbe molto meglio starsene quieti a godere dei
frutti della mondializzazione del capitale: questo non impedirà
all'alleanza tra baroni politici e borghesi di rompersi in futuro,
ma le probabilità sono inferiori a quelle preventivate
da Huntington, perché rispolverare la tradizione dovrebbe
significare anche alta prolificità, "accaparramento
materie prime" con la guerra, censura totale del consumismo
americano. In altre parole, i futuri tiranni dovrebbero cercare
l'alleanza della classe imprenditoriale locale: ma se i costi
economici della guerra sono alti, la cosa dovrebbe essere impossibile
(il famoso detto "mai dire mai" ci costringe alla prudenza
nell'uso dei tempi: condizionale e non futuro).
- Per i balcani, la questione dovrebbe essere risolta con la
cacciata di Milosevic.
- Per il Medio Oriente la questione è ben lungi dall'essere
risolta, solo che Huntington immagina che la Cina comunista e
l'Islam potrebbero scatenare una terza guerra mondiale, in modo
che le altre civiltà sarebbero costrette ad allearsi e
trovare dei valori in comune (vedere Huntington, p. 466-471).
Il fatto è che, secondo il modello che abbiamo adottato
noi, prima che scoppi questa guerra, Sudamerica, Africa e Russia
dovrebbero già essersi americanizzati, in modo da scoraggiare
il Giappone e l'India dal rendersi neutrali o tradire l'Occidente.
Per l'alta prolificità del mondo arabo, valgono gli stessi
ragionamenti sviluppati antecedentemente: che siano loro a fare
meno figli. Se fossimo noi occidentali a farne di più,
saremmo noi ad entrare in conflitto con le altre civiltà,
e sorgerebbe spontanea la domanda: perché i musulmani
non hanno il diritto di scontrarsi con le altre civiltà,
mentre noi si?
Il punto di vista della lotta di classe è più ampio
rispetto a quello delle civiltà perché, mentre
Huntington generalizza i conflitti riconducendoli tutti (o quasi)
al sistema patriarcale, noi possiamo catalogare le guerre tra
guerre tribali per il più elementare soddisfacimento dei
bisogni (che hanno poco a che fare con la civiltà: l'Africa),
guerre patriarcali fondate sulle regole descritte all'inizio
del paragrafo (che, queste si, possono far scoppiare un conflitto
mondiale, e guarda caso coinvolgono soprattutto musulmani) e
guerre moderne per l'instaurazione di un ordine sociale (cioè
ovunque ci sia una guerriglia marxista, guerriglia che altrimenti
non troverebbe seguito ove la popolazione fosse compatta nel
seguire la tradizione: si può cogliere la differenza tra
guerra del Golfo e guerra in Colombia o in Nepal).
Lo scontro tra civiltà è più probabile che
si verificherà se le condizioni economiche ed ambientali
nel mondo tenderanno a peggiorare, o se scoppierà qualche
pestilenza incontrollabile, ma per questo - torniamo a ripeterlo
- ci vuole più globalizzazione e non meno. Un merito,
però, Huntington ce l'ha: cioè quello di prevedere
i rischi di nuovi conflitti a seconda che i contendenti appartengano
o meno a delle determinate civiltà.
Ecco la tabella che spiega la dinamica dei fatti connessa alla
lotta di classe (per l'Occidente si prende il secolo XX, per
l'Oriente il secolo XXI):
|
Occidente - secolo XX |
Oriente - secolo XXI |
Tradizione |
Due guerre mondiali |
Scontro tra civiltà |
Modernità |
Cultura occidentale |
Americanizzazione |
Curiosamente, secondo Huntington
e di Fukuyama la globalizzazione favorisce l'emergere di culture
locali che l'imperialismo occidentale dei secoli passati aveva
seppellito. Secondo i noglobal, la globalizzazione censura le
culture locali. Il problema, dal punto di vista della lotta di
classe, sta nell'esatto concetto di "cultura", perché
vi è una differenza fra questo termine e il termine "tradizione".
I noglobal fanno confusione tra capitalismo e cultura occidentale:
affermano che il capitalismo sta diffondendo la cultura occidentale
in maniera imperialistica.
Secondo la lotta di classe, la cultura occidentale vera è
meglio definibile con "tradizione occidentale", quella
che ha portato alle due guerre mondiali. Subito dopo il capitalismo
ha imposto i propri valori, e la "tradizione" è
divenuta "cultura". La stessa cosa sta avvenendo nel
Terzo mondo: la "tradizione" orientale rischia di portare
allo scontro tra civiltà, pertanto la globalizzazione
modifica il significato della parola "tradizione",
che diventa "cultura".
Concludiamo dicendo che il nostro punto di vista, pur se simile
a quello di Fukuyama e contrastante con quello dei noglobal e
di Huntington, non è un dogma: possiamo anche sbagliare,
in maniera più o meno grave. Per questo abbiamo ritenuto
riportare sinteticamente il pensiero dei noglobal, di Huntington
e di Fukuyama, in modo da permettere ai lettori di riconoscersi
nel punto di vista ritenuto migliore. Non siamo come gli inquisitori
(di nuovo loro, ahinoi!) che censurano: come avrà detto
certamente qualche filosofo, noi abbiamo una sete inesprimibile
di sapere e sapere sempre di più, perché è
quello che si conviene a delle persone intelligenti.
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Il Mulino '02
Rifkin Jeremy, Economia all'idrogeno, Mondadori '02.
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