Un excursus tra i vari modelli
di sviluppo
Per iniziare questo paragrafo,
ricordiamo ancora una volta quanto detto da Marx: "Lo scopo
di tutte le comunità è il mantenimento e la riproduzione
degli individui che la compongono". Della riproduzione ci
siamo occupati nel paragrafo precedente, adesso è tempo
di riflettere sul primo aspetto.
Il problema essenziale concernente il soddisfacimento dei bisogni,
è individuare il modello di sviluppo economico che possa
garantire il reperimento delle risorse base per la sopravvivenza.
Nel corso di queste pagine abbiamo individuato quattro grandi
categorie di modelli: tribale, patriarcale, comunista e capitalista.
Il modello tribale è l'ideale quando si tratta di piccole
comunità, perché in un certo qual modo si vive
alla giornata procacciandosi quanto la natura offre, senza necessità
alcuna di accumulazione futura, e soltanto una comunità
di dimensioni ridotte non richiede grossi investimenti. Si tratta,
in sostanza, di un modello inconciliabile con l'elevato numero
di abitanti che popolano il globo, e pertanto non ci soffermeremo
oltre.
Il modello patriarcale è semplicemente adattamento all'ambiente
rurale. Il processo di accumulazione è limitato a due
settori: l'alimentazione e la tecnologia militare. Gli altri
prodotti sono giudicati uno spreco inutile: ai bambini non bisogna
insegnare il divertimento, ma la disciplina; ciò di cui
hanno bisogno sono le sementi agricole e le armi.
L'economia, in questo caso, è considerata un semplice
strumento per raggiungere i fini politici prefissati, siano essi
religiosi (come è il caso delle grandi religioni), demografici
(come è il caso del nazismo: la "purezza della razza"),
sociali (come è il caso della nobiltà francese).
Questo modello ha la sua premessa base nell'alta prolificità,
necessaria per coltivare i campi e fare la guerra. Non sembra
questo il futuro dell'umanità, a meno che il mondo non
piombi in un nuovo medioevo prossimo venturo (ad esempio una
qualche catastrofe o l'ascesa di un novello Hitler).
Il modello comunista (o meglio, del comunismo reale) è
sorto come via alternativa al capitalismo, ed aveva l'obiettivo
di raggiungere il benessere collettivo senza passare per la via
dello sfruttamento del proletariato. Come abbiamo già
visto (specialmente nel paragrafo l), il comunismo reale si è
caratterizzato per la sua anti-economicità e per questo
ha fallito.
I dirigenti comunisti dei vari Paesi hanno tentato vie diverse
da quella dell'accumulazione originaria del capitale, trovandosi
impotenti di fronte ai primi ostacoli. Cuba sembra un caso a
parte, perché lì le politiche economiche intraprese
hanno permesso di ottenere risultati migliori rispetto alle disastrate
economie sudamericane e terzomondiste.
Il modello capitalista fonda il suo (parziale) successo sulla
combinazione tra scienza ed economia. La scienza rende disponibili
le tecnologie necessarie per massimizzare la produzione di qualsiasi
bene, l'economia spiega in che modo deve organizzarsi la società,
per permettere uno sfruttamento intelligente ed ottimale delle
risorse.
Lo sviluppo del modello capitalista, in Occidente, sembra aver
seguito un percorso ben preciso: innanzitutto la meccanizzazione
dell'agricoltura, per trarre profitto della sua eccedenza (questa
è stata l'accumulazione originaria del capitale); quando
si è raggiunto il limite potenziale dell'accumulazione
agricola, si sono fatti investimenti nel settore dei beni di
prima necessità (questa è stata la prima rivoluzione
industriale: l'industria leggera); non appena è stato
impossibile sfruttare in maniera più intensiva le materie
prime necessarie per l'industria leggera, il capitale è
transitato verso l'industria pesante (questa è stata la
seconda rivoluzione industriale); infine si è arrivati
all'era dei computer (questa è l'attuale economia fondata
sull'informazione).
È questa la logica intrinseca del capitalismo: accumulare
al massimo una risorsa a prezzo di tanti sacrifici - lo sfruttamento
del proletariato, la distruzione delle foreste, l'inquinamento
-, per non trovarsi così impreparati alle prime difficoltà.
La morale del capitalista è nota e facilmente sintetizzabile:
la cicala spreca, la formica accumula; così alle prime
difficoltà la cicala muore, mentre la formica, che è
stata più saggia, più intelligente e più
furba sopravvive.
Naturalmente le risorse accumulate e i beni prodotti, affinché
possano garantire il profitto, devono avere dei clienti. Fino
all'800 gli unici clienti erano gli uomini potenti nel mondo;
con il processo di urbanizzazione in Europa e in Giappone, la
base sociale si è allargata, incominciando dal ceto urbano
benestante fino ad arrivare alla totalità dei cittadini;
al contrario, il processo di colonizzazione ha circoscritto la
ricchezza delle colonie agli amministratori locali che sono stati
al servizio delle grandi Compagnie occidentali (si ricordi l'esempio
di Calcutta, citato nel paragrafo m).
Le politiche economiche
adottate dai Paesi in via di sviluppo
Più complicato è descrivere quanto avvenuto nei
Paesi in via di sviluppo dopo la seconda guerra mondiale. Con
il processo di decolonizzazione, questi Paesi hanno cercato una
loro via per raggiungere gli stessi livelli dei Paesi industrializzati
(si ricordi lo schema del precedente paragrafo: passaggio dalla
tradizione alla modernità).
Il modello socialista, nelle sue principali realizzazioni, non
ha rappresentato una soluzione soddisfacente ed un esempio valido
per i Paesi periferici. In alcuni casi esso in una prima fase
di attuazione, soprattutto per merito di riforme agrarie e di
un'ampia diffusione di servizi sociali, ha consentito la riduzione
di fenomeni comuni ai Paesi periferici, quali la distribuzione
fortemente diseguale del reddito e la povertà di massa,
ha dato un forte impulso alla formazione di capitale e avviato
il processo di industrializzazione. L'isolamento dal mercato
capitalistico e una pianificazione di tipo quantitativo, rigida
e burocratica, non hanno tuttavia permesso gli ulteriori progressi
che sarebbero stati necessari. (Volpi, p. 163)
Negli altri Paesi, fino agli anni '60 la linea strategica fondamentale
è andata nella direzione della costruzione o dell'espansione
di un nucleo capitalistico (privato o di Stato) che ha come settore
trainante l'industria. L'agricoltura avrebbe dovuto cedere parte
della sovrappopolazione rurale e produrre un sovrappiù
reso disponibile per i lavoratori urbani, mentre la politica
protezionistica avrebbe dovuto permettere i grossi investimenti
produttivi nell'industria, al riparo dalla concorrenza dei Paesi
industrializzati, più avanzati tecnicamente e commercialmente.
(Volpi, p. 170-171)
I limiti di questa politica keynesiana, secondo i critici, sarebbero
stati (nell'ordine): la creazione di un'industria non competitiva
(favorita dal protezionismo); i prezzi amministrati (cioè
tenuti bassi) dei prodotti agricoli, che non hanno permesso la
creazione di un consistente surplus ed anzi hanno creato un disavanzo
nella bilancia dei pagamenti, perché i prodotti esportati
costavano poco; la politica dei minimi salariali assicurati,
che hanno frenato la domanda di lavoro e creato una disoccupazione
strisciante; l'eccessiva spesa pubblica, fonte di sprechi e corruzione.
(Volpi, p. 173)
Ma il colpo fatale a queste politiche è legato all'impennata
dei prezzi petroliferi, che hanno impedito ai Paesi in via di
sviluppo di approvvigionarsi di una materia prima così
fondamentale. Oltretutto, il petrolio ha cominciato a diventare
una risorsa limitata, che può ancora oggi essere sfruttata
solo per la produzione di un numero limitato di beni, a favore
di un numero ancor più limitato di consumatori, cioè
quelli dei Paesi ricchi. Ecco spiegato perché oggi il
20% della popolazione mondiale consuma l'80% della ricchezza
mondiale.
L'impennata del prezzo del petrolio ha avuto un'altra conseguenza:
i Paesi produttori si sono trovati con un'enorme disponibilità
finanziaria, largamente superiore alle loro capacità di
spesa interna e al loro fabbisogno. Le banche commerciali hanno
raccolto questa abbondante liquidità (i cosiddetti petrodollari)
e l'hanno offerta sul mercato internazionale, provocando come
risultato una caduta dei tassi di interesse (come è ovvio,
dato l'eccesso di offerta).
L'aumento del greggio ha generato alta inflazione internazionale,
e la combinazione di questa con bassi tassi d'interesse ha reso
l'indebitamento molto vantaggioso, indebitamento reso ancor più
vantaggioso dalla clausola di tassi d'interesse variabili (perché
ci si sarebbe aspettati una caduta del prezzo petrolifero, cosa
che avrebbe generato a sua volta una caduta proporzionale dei
medesimi tassi d'interesse). Ma dopo qualche anno, i tassi di
interesse si sono impennati a causa delle politiche monetariste
adottate nei Paesi ricchi per combattere l'inflazione mondiale.
E così i Paesi periferici si sono trovati a dover rimborsare
un debito aggravato da tassi d'interesse stratosferici. (Bosio,
p. 9-12)
L'insieme di questi fattori ha spinto ad un mutamento di rotta
nelle politiche economiche dei Paesi poveri: non più politiche
d'industrializzazione calate dall'alto, ma politiche rivolte
all'esportazione di beni agricoli e manufatti. Mettiamo da parte
le giustificazioni economiche di questo mutamento e limitiamoci
ai fatti, che sono riassunti come segue:
- le industrie occidentali sono diventate troppo costose, dati
gli alti salari pagati per una manodopera troppo sindacalizzata
e le normative anti-inquinamento. Unica soluzione possibile:
la delocalizzazione nei Paesi in via di sviluppo (di qui l'aumento
della disoccupazione nei Paesi ricchi). Ma per permettere questo,
è occorsa la compiacenza o la sottomissione dei governanti
locali, attraverso l'arma dell'indebitamento (ed ecco perché
il debito non è mai stato soppresso) e lo strumento degli
investimenti esteri (di qui la fuga di capitali ogni qualvolta
un Paese periferico non ha garantito la compiacenza politica,
la repressione del movimento sindacale e tassi di rendimento
alti). Pur di mantenere alti questi tassi di rendimento, non
si è esitato a sacrificare lo sviluppo di altre branche
economiche;
- l'eccesso di offerta di beni nel mercato ricco, è stato
scaricato nel mercato povero (una politica non nuova, in verità),
dove il ricambio tecnologico è molto lento. Forse un banale
esempio spiega meglio: un milione di autoveicoli rimane invenduto
nei Paesi industrializzati, e viene trasferito nei Paesi periferici.
Ma queste vetture verranno tenute più tempo del necessario,
fino al logoramento, anche quando la tecnologia permetterà
la fabbricazione di automobili meno inquinanti: ed ecco che i
cronisti spiegano come le metropoli del sottosviluppo siano preda
di un traffico bestiale e di una soglia di inquinamento molto
superiore all'Occidente sviluppato;
- le nuove fabbriche sono state costruite disboscando ulteriormente
le foreste, ed utilizzando materiale tecnologico arretrato, e
di conseguenza inquinante, per permettere un risparmio dei costi;
- gli investimenti esteri hanno arricchito ulteriormente il ceto
benestante, il quale in teoria avrebbe dovuto spendere i propri
soldi all'interno del proprio Paese, permettendo così
una produzione industriale che avrebbe stimolato l'economia nazionale.
In realtà, i prodotti interni non sono mai stati competitivi
come quelli esteri, e così la domanda si è rivolta
verso l'importazione di manufatti e beni agricoli di primaria
necessità, aggravando la bilancia dei pagamenti;
- l'aumento generale dei prezzi, dovuto all'apertura dei mercati,
e i processi di privatizzazione attuati per cedere il controllo
strategico alle multinazionali, hanno penalizzato le fasce medio-basse
della popolazione (che per questo si sarebbero ribellate in misura
frequente, costringendo i vari eserciti a feroci repressioni
se non a veri e propri massacri);
- le politiche economiche miranti all'esportazione hanno ridimensionato
ulteriormente l'industria tradizionale e l'agricoltura di sussistenza
(di qui l'importazione dei beni di cui sopra), costringendo anche
molti contadini a tentare inutilmente la fortuna nelle città.
L'eccesso di offerta di lavoro nelle fabbriche, combinatosi con
l'instaurazione di dittature alla Pinochet, ha ridotto in misura
eccessiva i salari operai (di qui il miliardo di abitanti che
vive ancora oggi con meno di 1 dollaro al giorno);
- oltretutto, lo scambio tra prodotti esportati ed importati
è avvenuto a disparità di condizioni: oltre alla
dipendenza dai mercati borsistici internazionali altamente speculativi,
occorre calcolare i prezzi in termini di tasso di cambio. E siccome
i tassi di cambio sono quelli di mercato (in pratica una svalutazione
strisciante), le importazioni sono state necessariamente superiori
alle esportazioni, rendendo insostenibile il saldo della bilancia
dei pagamenti e costringendo a periodiche svalutazioni. Si immagini
di vendere per 100 pesos ed acquistare per 100 dollari ad un
tasso di cambio 1$/100 pesos;
- l'unico modo effettivo per ridurre la povertà nei Paesi
periferici è stato il controllo delle nascite, perché
avrebbe risolto alla radice il divario tra sovrappopolazione
e scarsità di risorse, senza colpire gli interessi delle
multinazionali;
- la Corea del Sud e Taiwan, a differenza degli altri Paesi periferici,
hanno ottenuto successo. Ma il vero motivo di cotanto successo
sembrerebbe strettamente politico: la competizione con il blocco
sovietico (Cina-Taiwan e Corea del Nord-Corea del Sud) ha reso
necessario un rafforzamento delle rispettive strutture socio-economiche.
Insomma, alla fin fine i Paesi periferici non avrebbero proprio
dovuto svilupparsi, ma essere sfruttati in nome del consumismo
occidentale. Difficile è dire se vie alternative sarebbero
state possibili, dato il limite principale costituito dal prezzo
del petrolio; nel senso che un aumento del benessere dei Paesi
in via di sviluppo avrebbe comportato un aumento della domanda
di petrolio, e quindi un aumento del relativo prezzo, a scapito
del benessere dei Paesi ricchi. E tutto questo proprio mentre
la competizione con l'Urss ha reso necessario il potenziamento
dell'apparato economico e militare dell'Occidente sviluppato.
Secondo un'altra interpretazione, i fallimenti economici del
Terzo mondo sarebbero dovuti alle politiche populiste adottate
dai vari dittatori per guadagnare consensi. Questa interpretazione
non necessariamente contrasta con quanto detto finora. I vari
Paesi avrebbero potuto anticipare la globalizzazione attuale,
se soltanto gli Stati Uniti avessero voluto fare pressione e
se soltanto si fossero trovati a dover competere economicamente
con il comunismo, e non militarmente come poi è stato.
L'unica energia alternativa al petrolio è stata, almeno
finora, quella nucleare. Ma è meglio non fare troppo affidamento
su impianti che al minimo errore rischiano di procurare danni
irrimediabili, che non garantiscono la sicurezza totale, che
producono scorie che non si riesce a seppellire con cura, e che
hanno costi futuri crescenti per via dell'invecchiamento degli
impianti.
Attualmente (1998) le 200 maggiori imprese sopranazionali controllano
l'80% della produzione agricola ed industriale mondiale, così
come il 70% dei servizi e degli scambi commerciali del pianeta,
quindi più dei due terzi dei 25 mila miliardi di dollari
che rappresentano il prodotto planetario lordo (cento anni fa,
erano appena mille miliardi). (AAVV., p. 478)
Con la fine della Guerra fredda, la situazione è mutata.
Osserviamo il quadro quale si presenta sotto il segno della globalizzazione:
- la popolazione dei Paesi ricchi sta diminuendo, con l'ovvia
conseguenza che diminuisce la domanda aggregata di beni. Al contrario,
la popolazione dei Paesi poveri non ha ancora concluso il suo
ciclo demografico, compensando così la diminuzione della
domanda cui sopra;
- ma affinché questi soggetti emergenti divengano potenziali
nuovi clienti, devono avere a disposizione tanto denaro da spendere.
Ciò non può avvenire dall'oggi al domani: è
necessario procedere per tappe. La ricchezza, nell'immediato,
è detenuta dal ceto borghese urbano benestante, cioè
quello che ha accumulato soldi grazie al commercio internazionale
e, in subordine, alla corruzione e ai commerci illeciti (di armi,
droga, contrabbando di sigarette, prostituzione, pedofilia).
Per la cronaca, sono i nuovi ricchi che vivono nelle ville blindate.
Solo con il tempo, e grazie all'aumento della circolazione del
denaro, emergeranno nuove fasce di clienti; nel frattempo l'unica
arma per alleviare la povertà è il controllo delle
nascite;
- affinché l'offerta di beni possa combaciare con l'aumento
della popolazione mondiale, è necessario un grosso balzo
produttivo: le fabbriche, nei Paesi periferici, devono migliorare
i loro standard tecnologici (meno petrolio, energie alternative
- nucleari ed idroelettriche -, più automazione, meno
inquinamento). Questo si associa ad un rapido aumento del numero
di industrie nel Terzo mondo;
- un'offerta disponibile di merci richiede anche un mercato apposito.
Nel medioevo questo mercato si svolgeva nelle città, ove
si recava ogni volta la gente dai quartieri vicini o dalla provincia.
Esattamente la stessa cosa dovrà avvenire nei Paesi in
via di sviluppo, grazie anche alla meccanizzazione completa del
sistema agricolo;
- secondo le stime e le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione
urbana è cresciuta dal 29,3% della popolazione del mondo
nel 1950 al 45,2% nel 1995 e supererà la popolazione rurale
nel 2005; inoltre, a quella data, 2 abitanti urbani su 5 vivranno
in agglomerazioni di oltre 1 milione di abitanti. È stato
stimato anche che, fra pochissimo tempo, circa due terzi della
popolazione mondiale vivrà entro 60 km dalla costa, con
conseguente maggiore esposizione ai rischi ambientali (innalzamento
del livello del mare, alluvioni, tifoni). (Livi Bacci, p. 292-293)
- Le aree urbane sono responsabili di ben l'80% delle emissioni
di anidride carbonica, del 75% del consumo totale di legno e
del 60% del consumo di acqua dolce per attività umane
(compresa l'acqua per l'irrigazione di campi, i cui raccolti
sono consumati dai cittadini). Via via che la popolazione urbana
aumenta, l'acqua disponibile dovrà essere suddivisa tra
un numero sempre maggiore di persone, l'inquinamento aumenterà,
il numero di rifiuti legati al consumismo urbano non riuscirà
ad essere smaltito correttamente (già oggi in numerose
città tra il 30 e il 50% delle immondizie non viene raccolto).
L'urbanizzazione agisce sulla produzione di cibo poiché
sottrae terra coltivabile all'agricoltura a causa dell'espansione
urbana; essa riduce inoltre il numero di aziende agricole familiari
per via della migrazione dei coltivatori verso i centri urbani.
Solo un grosso sforzo produttivo globale in tecnologie disinquinanti
potrà evitare un collasso urbano altrettanto globale.
(Unfpa, p. 32-33)
- nei Paesi industrializzati si sente il solito lamento perché
il denaro per finanziare le scuole, la sanità, le infrastrutture,
ecc. non ci sono. Eppure, nei Paesi in via di sviluppo sta affluendo
una marea di soldi! La verità è che "non si
può avere la botte piena e la moglie ubriaca": si
ripete in continuazione che i ricchi devono sacrificare parte
del loro denaro in nome della solidarietà ai poveri che
stanno "laggiù", ma dal punto di vista delle
multinazionali questo significa semplicemente sacrificare le
branche improduttive dell'Occidente (cioè appunto le pensioni,
gli aiuti ai nostri poveri, le carceri, le infrastrutture) a
favore delle branche produttive del Terzo mondo.
L'impressione che si ha leggendo quanto scritto in queste pagine,
è di disorientamento: tutta questa violenza è stata
proprio necessaria, per raggiungere fini positivi? Lasciando
da parte Marx e la sua teorizzazione di una storia sempre fonte
di violenza, ricorriamo ad un astratto esempio numerico: ci sono
10 persone, e le risorse bastano solo per la metà di loro,
che fare? Il religioso del sistema patriarcale risponde: guerra
come sola igiene del mondo (frase presa a prestito dal nazifascismo).
Il capitalista risponde: accumulazione delle risorse, e nel frattempo
eliminazione delle fonti improduttive (siano esse persone, culture
o habitat naturali). Insomma, alla fin fine qualcuno dovrà
pur morire.
Il paragone più calzante è il ciclo ambientale
lupi-agnelli. All'inizio ci sono pochi lupi e tanti agnelli.
Il territorio diventa così terreno di caccia per questi
lupi, che sbranano tanti agnelli e procreano tanti cuccioli di
lupo (è già sottinteso che anche gli agnelli procreano).
Quando questi cuccioli saranno diventati adulti, saranno molto
più numerosi degli agnelli, e pertanto dovranno competere
fra di loro per trovare cibo, o anche morire di fame per non
averne trovato nemmeno un po'. La scarsità di agnelli
provoca, così, la morte di tanti lupi. Ma quando i lupi
sono pochi, gli agnelli non trovano più alcun ostacolo
a riprodursi in grandi quantità. Si ritorna al punto di
partenza, con pochi lupi e tanti agnelli, e il ciclo ricomincia.
La stessa cosa per l'uomo: quando le risorse cominciano a scarseggiare,
il grado di violenza aumenta e viceversa. Abbiamo già
menzionato l'esistenza di un ciclo demografico sotto il sistema
patriarcale, e di un ciclo economico sotto il sistema capitalista.
Detto tutto questo, però, non abbiamo ancora risposto
a due domande basilari: le risorse della terra bastano per gli
attuali 6 miliardi di persone e per i futuri 10 miliardi? Questo
aumento eccessivo della popolazione non rischia di sconvolgere
l'equilibrio ecologico mondiale? Dedichiamo le prossime pagine
a questi due argomenti.
Il futuro del capitalismo
1: la formula di Ehrlich
La formula matematica più famosa per esprimere il rapporto
tra popolazione e ambiente è: I = P X A X T. Questa legge
è stata sviluppata nei primi anni '70, nel corso del dibattito
sul contributo della popolazione all'inquinamento atmosferico
negli Stati Uniti. La formulazione matematica esplicita è
dovuta a Ehrlich. (Ehrlich)
Secondo questa formula, l'impatto sull'ambiente (I) è
funzione dell'ammontare della popolazione (P) moltiplicato per
il flusso di beni prodotto per persona (A) - espresso, per esempio,
dal consumo o dal reddito pro capite - moltiplicato per un fattore
che esprime il livello della tecnologia (T) - espresso da indicatori
che misurano il contenuto, in ciascuna unità prodotta,
di risorse quali le materie prime, l'energia, lo spazio, ecc.
(Livi Bacci, p. 285)
La sola variabile ben identificata dell'equazione è P,
della quale conosciamo già con precisione le dimensioni,
nonché altre caratteristiche rilevanti quali il sesso,
l'età, l'attività, la localizzazione sul territorio.
Di P abbiamo anche azzardato previsioni per il futuro, con buone
probabilità di successo. (Livi Bacci, p. 286)
Per le altre due variabili, è difficile dare una valutazione
precisa. Prendiamo la variabile A e chiediamoci: quali sono i
bisogni dell'uomo? La maggioranza delle persone sarebbe d'accordo
in merito a cibo, vestiti, medicine, una casa, una macchina,
educazione e divertimento. Ma fino a che punto questi beni corrispondono
ad una vera esigenza, oltre la quale si identifica lo spreco
("consumismo sfrenato")? Oltretutto, bisogna verificare
se queste risorse sono disponibili facilmente in natura o meno.
Quanto alla variabile T, abbiamo già visto come la tecnologia
possa essere contemporaneamente fonte di inquinamento e fonte
di benessere. Generalmente il processo più difficile è
quello dell'ingresso di una nuova tecnologia, perché essendo
ancora nuova (e quindi non ancora perfezionata) è altamente
inquinante, ma è altrettanto benefica, perché permette
alla popolazione di innalzarsi nella scala evolutiva. La seconda
fase, per questa tecnologia, consiste nell'innovazione che la
rende meno inquinante e più efficiente, e quindi doppiamente
benefica.
La nascita di un figlio (che fa aumentare di una unità
la variabile P) comporta costi e benefici per la società,
a prescindere da quelli presi in considerazione dai genitori.
Fra i possibili benefici esterni, ricordiamo un allargamento
della base fiscale che contribuirà a pagare le pensioni
agli anziani o a condividere il costo di beni relativamente insensibili
alle dimensioni della popolazione, come la difesa. I costi esterni
possono includere un aumento della spesa pubblica per la scuola
o la sanità, oppure una riduzione del valore pro capite
del patrimonio nazionale, per esempio dei diritti di pesca o
di estrazione dei minerali.
Diversi studi recenti hanno stimato le esternalità ambientali
della procreazione, prendendo tutti ad esempio i cambiamenti
globali del clima. Per quanto i risultati siano molto eterogenei,
nel complesso indicano che, oltre ad altri impatti positivi sullo
sviluppo, i benefici ambientali derivanti da politiche che portano
alla riduzione della fecondità possono addirittura ripagare
i costi di attuazione di tali politiche.
Le stime dei costi climatici della procreazione variano da varie
centinaia a varie migliaia di dollari per nascita. Il loro valore
è legato ad una molteplicità di fattori. Ad esempio,
una nascita in un Paese in via di sviluppo in cui l'effetto serra
pro capite è relativamente basso, ha mediamente un impatto
minore rispetto ad una nascita in un Paese industrializzato,
dove l'effetto serra pro capite è più elevato.
Però questo deve tenere conto del fatto che la diminuzione
della popolazione nei Paesi ricchi, combinatasi al progresso
tecnologico (che riduce l'inquinamento), comporta una parallela
riduzione dell'impatto sulla popolazione. Al contrario, l'aumento
della popolazione e dei consumi pro capite nei Paesi poveri comporta
un impatto in crescendo sui costi climatici. (Unfpa, p. 53)
La variabile P può modificarsi anche in termini qualitativi.
Solo poche analisi considerano gli effetti dell'invecchiamento
della popolazione su consumi ed emissioni gassose future. Con
l'invecchiare della popolazione, le dimensioni medie dei nuclei
familiari tendono a diminuire (soprattutto nei Paesi in via di
sviluppo). Le famiglie meno numerose hanno un consumo di energia
pro capite superiore rispetto alle famiglie di grandi dimensioni.
I modelli basati sul numero dei nuclei familiari prevedono emissioni
di carbonio più elevate rispetto a quelli basati sul numero
delle persone, con una differenza che arriverà al 30%
in più nell'anno 2100.
Inoltre, l'invecchiamento può influire sulle emissioni
di gas incidendo sulla crescita economica. Tutti concordano in
genere sul fatto che una popolazione che invecchia sovraccaricherà
sia il sistema pensionistico che il sistema sanitario. I ricercatori,
comunque, hanno raccolto poche prove del fatto che una forza
lavoro più vecchia sia meno produttiva di una forza lavoro
giovane.
L'analisi di recenti esperienze in Asia, rafforza la tesi secondo
cui le modifiche nella struttura per età della popolazione
possono esercitare un notevole impatto sulla crescita economica.
Quando la forza lavoro deve farsi carico di un gran numero di
membri familiari (bambini e anziani), i risparmi e il tasso di
crescita economica tendono a diminuire. Col declino della fecondità,
i lavoratori avranno meno familiari a carico e questo consentirà
un aumento dei risparmi che possono incentivare la crescita economica,
a patto che il Paese abbia una struttura economica ed istituzionale
che consenta di sfruttare appieno tale opportunità. Nel
tempo, con l'invecchiamento della popolazione, il rapporto tra
familiari a carico e popolazione attiva tornerà ad aumentare,
e verranno a cessare le condizioni propizie per questo bonus
economico. (Unfpa, p. 54)
L'aumento della domanda di beni nei Paesi in via di sviluppo
richiede necessariamente uno sforzo produttivo enorme. Secondo
alcune indagini, gli agricoltori del mondo nel 2020 dovranno
produrre il 40% di cereali in più rispetto al 1999. La
maggior parte di questa produzione aggiuntiva dovrà essere
garantita dall'incremento della resa degli attuali raccolti e
non dalla coltivazione di nuovi terreni. In teoria sarebbe possibile
aumentare la terra coltivabile a disposizione, ma la maggior
parte della terra non coltivata è costituita da terreni
marginali, dove il suolo è poco fertile e le precipitazioni
atmosferiche sono scarse o eccessive.
Rendere produttivi questi terreni richiederebbe costosi sistemi
di irrigazione e gestione delle risorse idriche, ed interventi
su larga scala per l'arricchimento dei suoli. Una fetta rilevante
di questi terreni è attualmente coperta da foreste e il
loro disboscamento avrebbe effetti imprevedibili quali erosioni,
degrado e cambiamenti climatici locali. Oltretutto, entro il
2025 rischia di scomparire oltre il 50% delle terre coltivate
a causa del degrado e dell'erosione dei suoli. (Unfpa, p. 15)
La desertificazione interessa 2/3 del continente africano, il
30% degli Stati Uniti, un quarto dell'America Latina, un quinto
della Spagna. Tra le acque interne, il Mare d'Aral e il lago
Ciad sono già prosciugati per metà. Si calcola
che il 30% delle terre emerse sia irreversibilmente inaridito.
I 250 milioni di persone che oggi fanno i conti con la desertificazione
diventeranno 1 miliardo entro il 2025.
La popolazione povera è l'agente distruttivo più
visibile negli ambienti degradati, dato che i poveri dipendono
strettamente dalle risorse naturali per il proprio reddito, e
la miseria offre loro poche alternative. Ma nella maggior parte
dei casi sono gli agricoltori più benestanti a provocare
la distruzione della vegetazione su larga scala, abusando dei
prodotti agro-chimici e delle falde acquifere per irrigare e
dei pascoli, e sfruttando eccessivamente il suolo per produzioni
da esportare. Occorre pertanto agire, finanziando l'innovazione
tecnologica nel primo caso ed imponendo limiti allo sfruttamento
nel secondo caso. (Unfpa, p. 28)
Un altro problema è quello della diversità genetica.
Dopo 10 mila anni di agricoltura stanziale e la scoperta di 50
mila diverse piante commestibili, solo 15 specie vegetali forniscono
il 90% dell'apporto nutritivo per l'alimentazione mondiale. Tre
di queste - riso, grano e granoturco (mais) - costituiscono l'alimento
base per 4 miliardi di persone. La dipendenza alimentare da poche
specie coltivabili rappresenta un pericolo, dato che le malattie
possono diffondersi rapidamente nelle monocolture. Senza ricorrere
costantemente a innesti di geni provenienti da specie selvatiche,
i genetisti non riescono a migliorare ulteriormente le principali
specie coltivate.
I cultivar devono essere rinvigoriti a intervalli di tempo variabili
tra i 5 e i 15 anni, per renderli più resistenti a malattie
e insetti, e per introdurre nuove caratteristiche che ne aumentino
la resa, quali una maggiore tolleranza alla siccità o
a suoli ad alta concentrazione salina. L'ibridazione tra varietà
domestiche e selvatiche costituisce il sistema più efficace
per ottenere questi risultati. Se il tasso di erosione genetica
delle specie vegetali non verrà azzerato o sostanzialmente
ridotto, entro il 2025 si potrebbero perdere fino a 60 mila varietà
vegetali, cioè circa un quarto delle varietà del
pianeta. (Unfpa, p. 17)
L'aumento della domanda globale sta provocando una rivoluzione
anche nel rapporto con il bestiame, che avrà profonde
implicazioni per l'agricoltura, la salute, i mezzi di sussistenza
e l'ambiente. La domanda di carne nei Paesi periferici, nel periodo
compreso tra il 1995 e il 2020, dovrebbe raddoppiare fino a raggiungere
la cifra di 190 milioni di tonnellate. Ciò significa che
la domanda di cereali per l'alimentazione del bestiame in questi
Paesi dovrebbe raddoppiare nel corso della prossima generazione.
Entro il 2020, si prevede che il fabbisogno di mangime a base
di cereali raggiunga un valore di poco inferiore a 450 milioni
di tonnellate. Tenendo conto di questa tendenza, la domanda di
granoturco (mais) aumenterà molto più rapidamente
rispetto ad altri cereali: l'incremento previsto per i prossimi
20 anni è pari al 2,35% annuo, destinato per quasi due
terzi al mangime per bestiame. Per produrre 1 kg di carne sono
necessari 4-5 kg di cereali. (Unfpa, p. 17)
Se i consumatori benestanti dell'Occidente e di altre regioni
del globo fossero disposti a rinunciare alla loro dieta carnea,
scendendo alcuni gradini della catena alimentare e adottando
un regime prevalentemente vegetariano, preziosi appezzamenti
potrebbero essere destinati alla coltivazione di cereali da destinare
all'alimentazione di milioni di persone. (Rifkin, p. 194)
L'esperienza della Rivoluzione verde degli anni '60 insegna che
i progressi tecnologici e le spinte del mercato possono portare
ad un fortissimo aumento della produzione alimentare, ma non
risolvono necessariamente i problemi della sicurezza alimentare.
Ad esempio, le nuove varietà ad alto rendimento, introdotte
recentemente, impongono l'uso di fertilizzanti e pesticidi specializzati.
Questi aumentano la resa dei raccolti, ma appare sempre più
evidente che danneggiano l'equilibrio ambientale favorendo la
diffusione di nuove malattie e di parassiti, per debellare i
quali occorrono interventi ulteriori. Questi interventi comportano
costi considerevoli, difficilmente sostenibili in aree a basso
reddito, e ciò favorisce l'affermazione sul mercato di
grandi holding in grado di effettuare simili investimenti. I
piccoli agricoltori possono incontrare maggiori difficoltà,
al punto da essere costretti a vendere la terra, diventando braccianti
agricoli con un reddito incerto. (Unfpa, p. 17-18)
A livello planetario viene impiegato il 54% della disponibilità
annua di acqua dolce, e di questo 54% i due terzi sono impiegati
in agricoltura. Entro il 2025 si potrebbe raggiungere il 70%
esclusivamente in virtù della crescita demografica. Se
poi il consumo pro capite dovesse raggiungere ovunque i livelli
dei Paesi più sviluppati, entro lo stesso anno si potrebbe
arrivare al 90%. (Unfpa, p. 11)
La competizione derivata dalla crescente carenza di risorse idriche
fa aumentare la probabilità che si verifichino conflitti
internazionali (sia economici che militari) per il controllo
della qualità dell'acqua e la deviazione delle fonti di
approvvigionamento. Oltre 200 sistemi fluviali attraversano confini
nazionali: tra i principali fiumi e laghi del pianeta, ve ne
sono 13 condivisi da 100 Paesi. Forse il caso più grave
è l'area mediorientale, dove i progetti di costruzione
delle dighe ai margini dei fiumi Tigri ed Eufrate, messi a punto
da Turchia e Siria, rischiano di provocare una guerra con l'Irak,
il cui territorio sarebbe privato dell'apporto di questi due
fiumi.
L'impatto futuro del riscaldamento globale sulla disponibilità
di risorse idriche, e quindi sulla sostenibilità degli
insediamenti umani, è estremamente incerto. L'andamento
delle precipitazioni atmosferiche, compresa l'intensità
e il susseguirsi delle tempeste e il tasso di evaporazione, subirà
verosimilmente un cambiamento significativo in seguito al mutamento
climatico.
Ricorrere a soluzioni puramente tecnologiche per affrontare il
problema della scarsità idrica avrà probabilmente
solo effetti limitati. La desalinizzazione delle acque marine
è costosa e attualmente copre meno dell'1% del fabbisogno
idrico. Tale percentuale tenderà probabilmente ad aumentare,
ma la desalinizzazione rimane una strada praticabile solo nei
Paesi con economie abbastanza forti da poterne sostenere i costi
(attualmente, solo i Paesi petroliferi dell'Asia occidentale),
e in situazioni che non comportino la conduzione dell'acqua per
grandi distanze (come nel Mediterraneo orientale).
Proposte più ambiziose, come il trasporto degli iceberg,
si sono rivelate per ora impraticabili. La raccolta di grandi
quantità d'acqua proveniente dalle precipitazioni sugli
oceani potrebbe divenire possibile, tuttavia la luce e il calore
riflessi dai teli di plastica necessari per tale operazione potrebbero
creare problemi. (Unfpa, p. 13)
Il futuro del capitalismo
2: la curva di Hubbert
Ogni giorno i raggi del sole inondano di migliaia di kilocalorie
di energia ogni metro quadrato sulla superficie terrestre. Una
parte di questa energia è catturata dalle creature viventi
e convertita in forme utili per il sostegno della vita, mentre
la parte residua si trasforma in calore e si dissipa nello spazio.
La lotta per la sopravvivenza, dunque, sia fra le diverse specie
sia al loro interno, è in realtà una competizione
per accaparrarsi l'energia utile e garantirsene il continuo fluire
attraverso il sistema vivente. (Rifkin, p. 45)
Analizzando la storia della civiltà umana da un punto
di vista energetico, lo storico Richard Wilkinson fa questa illuminante
osservazione: "Nel corso dello sviluppo economico, l'uomo
è stato ripetutamente costretto a cambiare le risorse
da cui dipende e i metodi che utilizza per sfruttarle. Si è
dovuto progressivamente impegnare in tecniche di trasformazione
e di produzione sempre più complicate, passando dalle
risorse più facilmente sfruttabili a quelle meno accessibili
Nel più vasto contesto ecologico, lo sviluppo economico
è lo sviluppo di metodi sempre più intensivi di
sfruttamento dell'ambiente naturale". (Wilkinson, p. 90
e 102)
Finché i nostri antenati cacciatori-raccoglitori hanno
avuto a disposizione energia in abbondanza sotto forma di frutti
e animali selvatici, non hanno avvertito la necessità
di adottare il più duro stile di vita agricolo. A partire
dal neolitico fino al XVIII secolo, la fonte di energia primaria
è stata il legname, perché più facile da
sfruttare, trasformare e utilizzare. Ma con il progressivo esaurimento
di questa risorsa, l'Europa ha cominciato ad adottare il carbone,
una fonte energetica di bassa qualità, difficile da estrarre,
trasportare e conservare, sporco da manipolare ed inquinante
nella combustione. (Rifkin, p. 82)
Nei primi anni del '900, negli Stati Uniti e negli altri Paesi
industriali il petrolio è subentrato al carbone nel ruolo
di combustibile più importante. Oggi, più dell'85%
del fabbisogno energetico mondiale è coperto dai combustibili
fossili: il 40% dal petrolio, il 22% dal carbone e il 23% dal
gas naturale. L'energia nucleare e quella idroelettrica forniscono
un ulteriore 7% ciascuna, mentre soltanto l'1% è l'apporto
dell'energia geotermica, solare, eolica, o prodotta dalla combustione
di legno e di scorie. Dall'inizio dell'era degli idrocarburi,
il fabbisogno energetico mondiale è aumentato di settanta
volte. (Rifkin, p. 79)
Con il passaggio delle società da risorse più facilmente
accessibili a forme di energia più difficili da scoprire
e trasformare, le infrastrutture tecnologiche, economiche e sociali
devono, per necessità, diventare più complesse,
gerarchiche e centralizzate. La nostra civiltà, fondata
sul petrolio, ha creato il sistema di trasformazione dell'energia
più centralizzato e gerarchizzato della storia del mondo.
(Rifkin, p. 83)
Il settore petrolifero è la maggiore industria del mondo,
con un giro d'affari stimato fra i 2 mila e i 5 mila miliardi
di dollari. Il settore è costituito da un vasto complesso
che include i pozzi petroliferi, le piattaforme di trivellazione
sottomarina, migliaia di chilometri di oleodotti, gigantesche
petroliere, raffinerie, sistemi informatici per la gestione del
flusso di carburante verso gli utenti finali, stazioni di servizio
e migliaia di aziende, grandi e piccole, che realizzano prodotti
petrolchimici: dai fertilizzanti ai materiali plastici, dai lubrificanti
ai farmaci. (Rifkin, p. 93)
L'eccessiva dipendenza dai combustibili fossili è un problema
molto serio: se questa fonte energetica dovesse esaurirsi, l'intera
società industriale cesserebbe d'esistere. Eppure è
quello che rischia di accadere nei prossimi anni. A parte il
fatto che le riserve esistenti stanno diminuendo e che la scoperta
di nuovi giacimenti va a rilento, occorre puntare il dito sulle
stime di crescita della domanda mondiale per i prossimi due decenni.
Con un aumento previsto della popolazione mondiale da 6 a 7,9
miliardi di individui entro il 2025, la pressione su queste riserve
energetiche è destinata ad aumentare. L'incremento demografico
determinerà un'accelerazione del processo di urbanizzazione,
che comporterà una maggior domanda di combustibili fossili
per trasporti, riscaldamento, elettricità, produzione
agricola ed industriale. (Rifkin, p. 28)
Secondo alcuni esperti, la produzione di petrolio convenzionale
toccherà probabilmente il picco fra 28 o 38 anni, ma ci
sono esperti convinti che il picco sarà raggiunto fra
8 o 18 anni. Il "picco" corrisponde al momento in cui
è già stata estratta la metà delle riserve
stimate di petrolio disponibili: stiamo parlando della cosiddetta
"curva di Hubbert" (dal nome di un geofisico che, nel
1956, pubblicò il saggio in cui esponeva la sua famosa
teoria). (Hubbert, p. 60-70)
Secondo questa curva, l'estrazione di petrolio comincia lentamente,
quindi accelera rapidamente con la localizzazione dei pozzi.
Dopo che i pozzi maggiori sono stati individuati e coltivati,
la produzione rallenta; l'individuazione dei pozzi minori diventa
più difficoltosa; i costi di estrazione e raffinazione
aumentano. Nello stesso tempo, con il progressivo esaurimento
dei pozzi maggiori, diventa più difficile pompare in superficie
il petrolio residuo: al getto iniziale subentra il posto ad un
flusso sempre più modesto.
La combinazione del minor tasso di scoperte e del declino dell'estrazione
da un determinato giacimento ha come effetto il picco della produzione.
Il vertice della curva a campana rappresenta il punto medio,
quello in cui la metà delle riserve certe sfruttabili
sono già state estratte. Da quel punto in avanti, nella
parte decrescente della curva, la produzione declina con la stessa
rapidità con cui è cresciuta. (Rifkin, p. 31)
Anche se gli esperti non concordano sul momento in cui la produzione
mondiale di petrolio raggiungerà il picco, sono tuttavia
unanimi nel ritenere che, quando ciò accadrà, la
quasi totalità delle riserve petrolifere mondiali ancora
sfruttabili sarà nelle mani di alcuni Paesi musulmani,
con un conseguente potenziale pericolo per l'attuale equilibrio
di potere nel mondo. (Rifkin, p. 8)
Se la produzione mondiale di petrolio e di gas naturale raggiungesse
il picco (e il prezzo di questi combustibili aumentasse) cogliendo
il mondo impreparato, gli Stati e le aziende energetiche deciderebbero
di sfruttare, come sostituti del petrolio, anche idrocarburi
meno "puliti", come carbone, olio combustibile e sabbie
bituminose. Il ricorso a questi combustibili comporterebbe un
incremento delle emissioni di CO2 nell'atmosfera e, di conseguenza,
un surriscaldamento della terra addirittura superiore alla già
preoccupante stima di un valore oscillante fra 1,5 e 5,8 °C
da qui alla fine del ventiduesimo secolo, con ricadute sulla
biosfera ancora più devastanti di quelle già previste
(vedere più avanti). (Rifkin, p. 8)
Durante le precedenti crisi petrolifere è stato possibile
rimediare a tale impennata, grazie all'individuazione di fonti
di rifornimento alternative a quelle islamiche e alla continua
innovazione tecnologica, che permette il funzionamento dei sistemi
meccanici con un minore impiego di combustibili fossili. Ma in
questo caso i due strumenti di difesa sono insufficienti.
Finora sono stati individuate due fonti di energia che potrebbero
sostituire i combustibili fossili. Le centrali nucleari hanno
costi e rischi più che proporzionali all'aumento del numero,
e possono garantire l'efficienza solo nell'arco di qualche decennio,
dopodiché devono essere rinvigorite o smontate (e i costi,
in entrambi i casi, sono molto alti).
L'altra fonte di energia è l'idrogeno, ovvero il più
leggero, elementare e diffuso elemento chimico presente in natura,
che si trova ovunque: sulla terra, nell'acqua, nei combustibili
fossili e in tutta la materia vivente. Non esiste, però,
in forma libera, quindi deve essere estratto da fonti naturali.
(Rifkin, p. 12)
Si tratta di una fonte di energia inesauribile e non inquinante,
che per essere avviata ha bisogno di sfruttare le economie di
scala permesse dalla globalizzazione. Un primo utilizzo di questa
fonte di energia potrebbe essere l'automobile: la quota principale
dei consumi di petrolio riguarda i mezzi di trasporto (circa
1/3 del fabbisogno globale annuo). Sottraendo questo consumo,
rimarrebbe molto più petrolio a disposizione per le industrie;
per questo l'affare dovrebbe essere conveniente anche per le
multinazionali.
Secondo Rifkin l'idrogeno, dato che si trova ovunque ed è
inesauribile, se adeguatamente sfruttato consentirà ad
ogni essere umano di diventare produttore dell'energia che usa,
mettendo a repentaglio il tradizionale dominio degli impianti
di generazione centralizzati, nati e cresciuti durante l'era
dei combustibili fossili. (Rifkin, p. 13)
Nel frattempo l'inquinamento è destinato ad aumentare.
Ma a questo argomento dedichiamo il prossimo sotto-paragrafo.
Il futuro del capitalismo
3: Effetto serra S.p.A.
Nel corso dei vari paragrafi, incluso questo, abbiamo visto quali
sono state le conseguenze negative del tentativo, compiuto dall'uomo,
di adattare la natura alle proprie esigenze. Parlare di processo
di adattamento esclude naturalmente il Paleolitico, dove è
l'uomo ad adattarsi alla natura e ne segue i cicli.
Con la scoperta dell'agricoltura, la scarsa conoscenza delle
tecniche agricole provoca l'erosione del suolo, se non una vera
e propria desertificazione (il Sahara). Solo con il tempo si
riesce a migliorare la resa dei suoli, la cui eccedenza provoca
un lento processo di inurbamento; ma in questo modo i problemi
mutano.
Per prima cosa, l'intensità d'uso di un prodotto energetico
per i riscaldamenti, per l'industria domestica o per le manifatture
localizzate presso il luogo di estrazione delle materie prime,
è determinata dall'andamento demografico. Lo schema è
semplice: più popolazione, più superficie agraria
messa a coltura, meno boschi e foreste, meno legno e carbone
di legna (e più elevato prezzo), più carbone e
altri sostituti altamente inquinanti. (Sori, p. 63)
Un altro problema è quello dei rifiuti, organici e inorganici,
che (se non utilizzati come concimi) vengono smaltiti all'interno
delle mura cittadine o lungo i fiumi, aumentando tra l'altro
anche il rischio di contrarre qualche malattia. Vi è,
inoltre, un certo numero (limitato) di effetti indesiderati che
provengono da residui (solidi, liquidi, gassosi e acustici) di
processi produttivi e che sono in grado di pesare negativamente
sia sull'ambiente naturale sia sui gruppi umani. (Sori, p. 49)
I cibi guasti, gli avanzi e le contraffazioni alimentari sono
di un certo spessore nelle società antiche (e purtroppo
anche in molte regioni povere del mondo contemporaneo). Nelle
campagne antiche il problema lo si avverte nei periodi di magra,
quando i contadini si riducono addirittura a mangiare erba. Ma
è nelle città antiche che la situazione sembra
più grave: soltanto per le classi agiate esiste una (remota)
possibilità di pregustare cibi genuini; per il resto la
necessità dei ceti popolari, l'astuzia (o truffa) dei
mercanti e l'assenza di controlli sanitari riducono notevolmente
la qualità dei cibi, alcuni dei quali possono anche essere
letali.(Sori, p. 42-46)
Per ridimensionare tutti questi problemi, le società tradizionali
hanno codificato una serie di consuetudini. A parte il consumo
"totalitario" (cioè il consumare tutto senza
scarti e avanzi, il reimpiegare produttivamente scarti ed avanzi,
l'usare lo stesso bene durevole per un arco di tempo molto esteso),
vi è un efficace meccanismo antispreco: la redistribuzione
in natura del reddito mediante trasferimenti a titolo gratuito
o anche la commercializzazione dei rifiuti.
È un meccanismo che funziona secondo uno schema piramidale
e gerarchico. Per cibo e vestiario, ad esempio, esso investe
prima l'ambito domestico e parentale della famiglia abbiente
(parenti poveri coabitanti e non, servitù e clientes),
per poi estendersi all'esterno e diventare elemosina. (Sori,
p. 39-40)
Durante la rivoluzione industriale in Europa, negli Stati Uniti,
in Giappone e (in seguito) nei Paesi comunisti, le cose peggiorano,
non solo per la quantità e qualità dei rifiuti
prodotti da processi di trasformazione vecchi e nuovi, ma anche
per le novità che riguardano la localizzazione delle unità
produttive (vicino alle città e ai fiumi), con conseguente
disboscamento delle foreste, ed il rapporto tra le fabbriche
e gli insediamenti umani. (Sori, p. 57)
Nelle grandi città, la concentrazione dello zolfo è
elevata ed è responsabile della corrosione di metalli
e pietre; nelle campagne che circondano questi impianti la crescita
degli alberi è ostacolata o annullata, le siepi uccise,
i raccolti di ogni genere danneggiati, il bestiame indebolito;
i fiumi smaltiscono i rifiuti solubili o galleggianti a costi
praticamente nulli, mentre i rifiuti solidi generalmente finiscono
col deturpare molti paesaggi. (Sori, p. 58 e 70-71)
I tentativi di ridurre l'inquinamento generalmente falliscono,
dato che l'equazione fumo = progresso = prosperità gode
di uno straordinario seguito. Le principali vittime dell'inquinamento,
gli operai che accusano malanni vari, vomito, denti marci e/o
abiti corrosi, si schierano generalmente a difesa del posto di
lavoro, vale a dire con gli industriali; molti cittadini tacciono,
mentre chi può se ne va dalle zone investite dai vapori,
trasferendo le proprie abitazioni. Il modello comunista è
un caso a parte. (Sori, p. 85)
Naturalmente la tecnologia, nei Paesi capitalistici, migliora
con il tempo, rendendo le fabbriche meno inquinanti e più
produttive, ma il problema è il costo della ristrutturazione
delle fabbriche. In effetti, soltanto in casi particolari il
sistema industriale nel suo complesso si rinnova. L'ultima volta
è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto
con la crisi petrolifera degli anni '70. L'inquinamento globale
non si è ridotto: ha semplicemente "traslocato"
nei Paesi poveri, che sono passati dalla condizione di colonie
di sfruttamento a quella di Paesi in via di sviluppo.
Grazie all'industrializzazione, la qualità dei prodotti
è più elevata e le condizioni igieniche migliorano
notevolmente. Ma, come abbiamo già detto, il consumismo
di massa ed il passaggio dalla produzione domestica a quella
industriale, fanno aumentare il volume totale dei rifiuti (molti
dei quali finiscono nelle discariche del Terzo mondo). Osserviamo
questa tabella, che mostra la composizione dei rifiuti di un
gruppo di Paesi industriali (Belgio, Irlanda, Olanda, Gran Bretagna,
Stati Uniti, Giappone) in migliaia di tonnellate, nel periodo
1984-1989 (fonte: Eurostat):
Tipi di rifiuti |
v.a. |
% |
Urbani |
288.513 |
5,8 |
Industriali |
1.157.238 |
23,5 |
Produzione di energia |
1.028.988 |
20,9 |
Agricoltura |
624.256 |
12,6 |
Miniere |
1.665.137 |
33,8 |
Inerti (macerie) |
123.016 |
2,5 |
Fanghi di depurazione |
43.910 |
0,9 |
Totale |
4.931.058 |
100,0 |
La produzione di energia e
le miniere sottolineano la svolta energetica e la crescente mineralizzazione
sulle quali si fondano le moderne economie; inoltre compaiono
fonti praticamente inedite, come gli inerti (il cui peso sembra
destinato a crescere e che nessuna società preindustriale
si sarebbe mai sognata di definire rifiuti) e i fanghi di depurazione;
infine si evidenzia la trasformazione dell'agricoltura da settore
autarchico a settore che, da un lato, importa rilevanti quantità
di energia prodotta al di fuori del sistema agrario e, dall'altro
lato, esporta nell'ambiente rifiuti che nei sistemi agrari tradizionali
sarebbero risorse, mezzi di produzione reimpiegati nel settore
stessi (concimi organici). (Sori, p. 48-49)
Sono state fatte delle ricerche scientifiche per cercare di studiare
il problema dell'inquinamento. Un primo aspetto riguarda l'aumento
dell'anidride carbonica nell'aria, in un secolo, da 280 a circa
350 particelle su un milione, una crescita non ancora interrotta.
Questo temibile "gas serra" rappresenta oggi, con il
suo 0,035%, una percentuale trascurabile della nostra atmosfera,
mentre l'azoto costituisce il 78% e l'ossigeno il 20,9%. (Angela,
p. 9 e 23)
Il metano è un altro "gas serra", la cui concentrazione
atmosferica sta rapidamente aumentando. Vi sono poi gli ossidi
di azoto emessi nelle combustioni e dai terreni trattati con
i fertilizzanti, e i notissimi CFC (clorofluorocarburi) delle
bombolette spray, dei frigoriferi, ecc. (Angela, p. 23-24)
I "gas serra" (azoto, ossigeno, anidride carbonica,
ecc.) permettono all'atmosfera terrestre di comportarsi come
un grande vetro che lascia passare i raggi solari ma trattiene
un po' di calore, secondo un modo di funzionamento simile alle
serre dove crescono artificialmente ortaggi o fiori: ecco perché
si parla di effetto serra. (Angela, p. 15)
Il vapore acqueo è il maggiore responsabile (per il 65-70%)
del benefico effetto serra che mantiene la temperatura della
terra 35-38 gradi più alta di quello che le spetterebbe
in base alla sola distanza dal sole. L'anidride carbonica è
un socio di minoranza che detiene appena il 15%, allo stesso
modo degli altri gas (metano, ossidi di azoto, CFC). (Angela,
p. 24-25)
Bruciando combustibili fossili e distruggendo le foreste, immettiamo
nell'atmosfera una quantità incredibile di carbonio. Una
volta finito nell'atmosfera, il carbonio si combina rapidamente
con l'ossigeno per formare l'anidride carbonica (CO2, un atomo
di carbonio, due di ossigeno). Così, da una tonnellata
di carbonio ne saltano fuori 3,7 di anidride carbonica. (Angela,
p. 33)
Dato che il fabbisogno di energia dovrebbe aumentare nei prossimi
decenni, e dato che è difficile immaginare che i combustibili
fossili vengano rapidamente sostituiti, aumenteranno anche le
immissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. In questo modo,
ci sarà prevedibilmente un piccolo innalzamento di temperatura.
Così gli oceani si scalderanno e l'evaporazione aumenterà.
Il vapore acqueo a sua volta peggiorerà l'effetto serra
e la temperatura tenderà ad innalzarsi ancora di più
(a 1,5 o 5,8 °C a seconda delle previsioni). È questo
un classico caso di retroazione, dove una piccola variazione
iniziale di temperatura finisce per provocare, dopo varie "carambole",
un aumento massiccio. (Angela, p. 26)
Il metano sta aumentando dell'1% l'anno e negli ultimi cento
anni la sua concentrazione nell'atmosfera è raddoppiata.
Questo gas proviene da numerose fonti, sia naturali che umane.
Il metano viene emesso dalle paludi, dalle coltivazioni di riso,
dagli allevamenti di bestiame, dalle discariche urbane: tutte
situazioni dove i batteri decompongono la materia organica. Infine
un po' di metano sfugge alle condutture che portano il gas nelle
nostre cucine. Il fatto che la quantità di metano presente
nell'atmosfera sia un'inezia in confronto all'anidride carbonica
non deve trarci in inganno. Il metano è un "gas serra"
quattro volte più efficiente del CO2 nell'intrappolare
il calore.
Ancora più efficienti come "gas serra" sono
poi il protossido di azoto (180 volte l'anidride carbonica) e
i CFC, ben 10 mila volte. Gli ossidi di azoto prodotti sia nelle
combustioni di petrolio o carbone che dalla deforestazione e
dalla "respirazione" dei terreni agricoli, stanno aumentando
dello 0,2% l'anno. I CFC, composti esclusivamente industriali
inventati dall'uomo, stanno crescendo all'incredibili ritmo del
3% l'anno. La loro forza come "gas serra" e killer
dell'ozono, unita a una vita lunghissima (70-100 anni), li rende
uno dei composti più temibili per l'atmosfera. (Angela,
p. 36-37)
Il riscaldamento dovuto all'effetto serra non si ripartirebbe
in modo uniforme sul pianeta. Non è possibile fare previsioni
certe sul futuro, tuttavia qualche scenario potrebbe plausibilmente
emergere nei prossimi decenni:
- più umidità nella fascia subtropicale dei monsoni
(con maggiori rischi di allagamenti);
- primavere più umide e più lunghi periodi per
la crescita di coltivazioni alle alte latitudini;
- estati più aride alle medie latitudini, con seri problemi
agricoli e di rifornimenti d'acqua nei grandi Paesi produttori
di cereali, come gli Stati Uniti;
- maggiori probabilità di ondate di gran caldo e di incendi
estivi nelle zone più aride;
- innalzamento dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacciai
e all'espansione termica (ogni liquido, quando viene scaldato,
tende ad occupare un volume maggiore), con conseguente vulnerabilità
delle coste (dove predominano l'urbanizzazione e la coltivazione
dei campi). (Angela, p. 49)
Un altro aspetto, altrettanto importante, è quello dei
tempi di reazione: all'interno del meccanismo del clima, non
tutti gli ingranaggi si muovono alla stessa velocità.
Alcune parti reagiscono più rapidamente, altre più
lentamente. Non solo, ma alcuni fattori provocano effetti di
breve durata, altri di lunga durata.
Per esempio, gli oceani hanno una maggiore capacità della
terraferma di immagazzinare calore: è ben noto che, proprio
per questo motivo, nelle zone in prossimità del mare il
clima è più "dolce", cioè subisce
minori variazioni tra il giorno e la notte, o tra una stagione
e l'altra, di quanto avvenga nelle regioni interne e continentali,
dove gli sbalzi di temperatura sono più forti. Questo
effetto di immagazzinamento del calore da parte degli oceani,
ritengono certi esperti, potrebbe far apparire in ritardo l'aumento
della temperatura atmosferica.
Per questa ragione, se per ipotesi si raddoppiasse nel giro di
un mese l'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera, la
temperatura terrestre non raggiungerebbe il suo nuovo equilibrio
prima di un secolo. Ma analogamente se noi trovassimo il modo
di controllare subito l'emissione di anidride carbonica, dovremmo
comunque attenderci un innalzamento della temperatura terrestre,
in futuro, di circa 1 grado. (Angela, p. 55-56)
Non va dimenticato che le nostre ciminiere (e molte altre fonti
di inquinamento) non producono solo anidride carbonica, ma anche
particelle che raggiungono gli strati alti dell'atmosfera e che
potrebbero avere un effetto analogo a quello della polvere sollevata
da un vulcano o da un asteroide (sia pur in modo molto più
lieve, naturalmente).
Le polveri e gli aerosol prodotti dalle attività industriali
possono, in effetti, paragonarsi ad una continua eruzione vulcanica.
Il principale responsabile degli aerosol (minuscole goccioline
sospese nell'aria) è l'anidride solforosa, che insieme
ad altri composti dello zolfo viene generata soprattutto nella
combustione del petrolio e del carbone. Infatti questi combustibili
fossili contengono dallo 0,4 al 4% di zolfo. Ne finiscono ogni
anno più di 100 milioni di tonnellate nell'atmosfera.
(Angela, p. 75-76)
Questi aerosol provocano danni sia all'uomo che all'ambiente.
Gli aerosol sono infatti tra i principali responsabili dell'inquinamento
e dello smog che colpisce moltissime grandi metropoli, con evidenti
danni alle vie respiratorie e, generalmente parlando, alla salute
dei più deboli: i bambini e gli anziani. L'anidride solforosa,
insieme ad altre sostanze (come gli ossidi di azoto), è
anche responsabile delle piogge acide, cioè di quelle
gocce d'acqua con alta concentrazione di acido solforico che
stanno distruggendo le foreste. (Angela, p. 77-78)
L'effetto serra non è l'unico guaio che affligge l'atmosfera
terrestre: ve ne sono altri. Uno dei più preoccupanti
è l'assottigliarsi dello strato di ozono, soprattutto
sopra il Polo Sud. L'ozono è un parente molto stretto
dell'ossigeno: la sua formula chimica si scrive infatti O3, cioè
è composto da tre atomi di ossigeno legati insieme, mentre
la formula dell'ossigeno è O2. (Angela, p. 83)
Il famoso strato di ozono, situato fra i 15 e i 30 km di quota,
funziona come uno schermo che impedisce ai pericolosi raggi ultravioletti
del sole di scendere più in basso. In quella fascia alta
dell'atmosfera terrestre (la cosiddetta stratosfera, che va dai
15 ai 50 km di altezza) avvengono reazioni chimiche molto complesse,
che provocano una continua formazione e distruzione dell'ozono.
Semplificando molto questi complicati processi si può
dire che la molecola di ozono, quando viene colpita da un raggio
ultravioletto, si spezza formando: 1) ossigeno molecolare (cioè
due atomi legati insieme, O2); 2) ossigeno atomico (un atomo
solitario, O). In questo "scontro" il raggio ultravioletto
viene bloccato e la sua energia utilizzata, appunto, per spezzare
l'ozono. Attraverso nuove reazioni, cui possono partecipare anche
altri elementi (come l'azoto), dall'ossigeno atomico e da quello
molecolare si riforma l'ozono. (Angela, p. 84)
Naturalmente fra distruzione e formazione di ozono c'è
un equilibrio molto delicato che consente a questo strato di
non assottigliarsi troppo. Con i CFC abbiamo compromesso questo
equilibrio. La caratteristica principale di queste molecole inventate
dall'uomo è quella di essere stabili, cioè di non
reagire chimicamente con altre sostanze. Paradossalmente questo
"meriti" industriali trasformano i CFC in killer implacabili
dell'ozono. Infatti, a causa della loro stabilità, i CFC
hanno una vita lunghissima (50-100 anni), ed hanno quindi tutto
il tempo di vagare nell'atmosfera fino a raggiungere le parti
più alte: la stratosfera.
E qui avviene il fattaccio. I raggi ultravioletti spezzano le
molecole di CFC, liberando il cloro. Comincia così la
perversa catena di reazioni che porta alla distruzione dell'ozono.
Si tratta anche in questo caso di una catena molto complicata
che semplificheremo al massimo.
L'atomo di cloro liberato dai CFC si combina con una molecola
di ozono, rubandogli un atomo di ossigeno. L'ozono senza quell'atomo
torna ad essere semplice ossigeno molecolare (O2), incapace di
bloccare la parte più pericolosa dei raggi ultravioletti
(i cosiddetti Uv-b). Ma non è finita. Il cloro, dopo aver
catturato l'atomo di ossigeno, lo ricede ad un altro atomo di
ossigeno. Ecco il cloro di nuovo libero e pronto a spezzare nuovo
ozono, e così via fino a 100 anni. Un solo atomo di cloro
può così distruggere da 30 a 40 mila atomo di ozono.
(Angela, p. 89-90)
Accanto all'ozono "buono", chiamato anche stratosferico
perché si trova a quote molto alte, c'è l'ozono
"cattivo", detto anche troposferico perché si
trova a quote più basse, fra 0 e 15 km. L'ozono "cattivo"
è una delle tante conseguenze dell'inquinamento urbano.
Proprio nell'aria sopra le grandi città, piene di traffico
e di industrie, i gas inquinanti (come gli ossidi di azoto e
il metano) si combinano fra loro in complicatissime reazioni
chimiche dalle quali esce, alla fine, l'ozono. Apparentemente
stiamo facendo le cose al rovescio. Immettiamo ozono nella bassa
atmosfera dove è dannoso alla salute (specialmente all'apparato
respiratorio) e lo distruggiamo là dove è indispensabile,
nella stratosfera. (Angela, p. 85)
Per queste e altre conseguenze che l'inquinamento provoca alla
salute umana (e ambientale) si rinvia al paragrafo u. Per i cosiddetti
"rifugiati ambientali" rinviamo al paragrafo t. Intanto
concludiamo con qualche riflessione etica sul consumismo, riflessione
che risponde ad una domanda fatta in precedenza, e che ci servirà
come introduzione al prossimo paragrafo sul tema della cultura.
È infatti ormai noto che per ridurre l'inquinamento non
basta solo migliorare le tecnologie a disposizione, sostituire
i combustibili fossili con l'idrogeno e il nucleare, e piantare
nuovi alberi. Una soluzione all'inquinamento deve passare necessariamente
attraverso una riduzione dei consumi.
Prendiamo il mondo della pubblicità: i personaggi mostrati
sono conformi ai modelli dominanti, ed è difficile stabilire
se siano modelli voluti dalla cultura "plebea" o imposti
dall'alto. Gli uomini sono aitanti ragazzoni, le ragazze sono
belle biondine dal seno prorompente, tutti sorridono e sono concordi,
qualunque cosa succeda.
I luoghi sono sempre gli stessi: città belle e pulite,
campagne incantevoli e solatie, il mare o un altro luogo di turismo
paradisiaco; il Terzo mondo è esotico e bonaccione, come
al Club Méditerranée. Il corpo regna sovrano, lo
scenario è futurista (ma in chiave piacevole, alla quali
si aspira), la competizione sembra essere l'unica motivazione
personale. Vengono esaltate la potenza e la forza, e costantemente
evocata la prodezza.
Sono rivelatrici anche le scelte prevalenti: alcol e tabacco,
automobili e velocità, acquisti futili e costosi, o prodotti
alimentari di scarsa qualità presentati come consumo d'élite.
La pubblicità punta continuamente sul desiderio sessuale,
raramente con delicatezza, piuttosto attraverso una monotona
licenziosità. È chiaro che il consumismo di massa
andrebbe ridimensionato, ma è difficile perché
la sua arma più potente è il denaro: tutto è
business ormai. (AAVV., p. 532)
Bibliografia:
AAVV., Il
libro nero del Capitalismo, Marco Troppa Editore '99
Angela Piero e Pinna Lorenzo, Atmosfera: istruzioni per l'uso,
Mondadori-De Agostini Libri '94.
Bosio Roberto e Moro Riccardo, Pagare con la vita, Editrice Missionaria
Italiana '00.
Ehrlich P. R. e Holdren J., Impact of Population Growth, in "Science"
171: 1212-1217, 1971.
Eurostat, Europe in figures, Lussemburgo '92, citato in Sori,
p. 49.
King Hubbert M., The Energy Resources of the Earth, in "Scientific
American", settembre 1975, citato in Rifkin, p. 31.
Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo,
Il Mulino '02
Rifkin Jeremy, Economia all'idrogeno, Mondadori '02.
Sori Ercole, Il rovescio della produzione, Il Mulino '99.
Unfpa, Lo stato della popolazione nel mondo 2001, edizione italiana
a cura di AIDOS
Volpi Franco, Introduzione all'economia dello sviluppo, FrancoAngeli
'99
Wilkinson Richard, Poverty and Progress, Praeger '73, citato
in Rifkin, p. 83. |