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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

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Capitolo 4

Quale futuro

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r) Popolazione, risorse, inquinamento.

 

Un excursus tra i vari modelli di sviluppo

Per iniziare questo paragrafo, ricordiamo ancora una volta quanto detto da Marx: "Lo scopo di tutte le comunità è il mantenimento e la riproduzione degli individui che la compongono". Della riproduzione ci siamo occupati nel paragrafo precedente, adesso è tempo di riflettere sul primo aspetto.
Il problema essenziale concernente il soddisfacimento dei bisogni, è individuare il modello di sviluppo economico che possa garantire il reperimento delle risorse base per la sopravvivenza. Nel corso di queste pagine abbiamo individuato quattro grandi categorie di modelli: tribale, patriarcale, comunista e capitalista.
Il modello tribale è l'ideale quando si tratta di piccole comunità, perché in un certo qual modo si vive alla giornata procacciandosi quanto la natura offre, senza necessità alcuna di accumulazione futura, e soltanto una comunità di dimensioni ridotte non richiede grossi investimenti. Si tratta, in sostanza, di un modello inconciliabile con l'elevato numero di abitanti che popolano il globo, e pertanto non ci soffermeremo oltre.
Il modello patriarcale è semplicemente adattamento all'ambiente rurale. Il processo di accumulazione è limitato a due settori: l'alimentazione e la tecnologia militare. Gli altri prodotti sono giudicati uno spreco inutile: ai bambini non bisogna insegnare il divertimento, ma la disciplina; ciò di cui hanno bisogno sono le sementi agricole e le armi.
L'economia, in questo caso, è considerata un semplice strumento per raggiungere i fini politici prefissati, siano essi religiosi (come è il caso delle grandi religioni), demografici (come è il caso del nazismo: la "purezza della razza"), sociali (come è il caso della nobiltà francese). Questo modello ha la sua premessa base nell'alta prolificità, necessaria per coltivare i campi e fare la guerra. Non sembra questo il futuro dell'umanità, a meno che il mondo non piombi in un nuovo medioevo prossimo venturo (ad esempio una qualche catastrofe o l'ascesa di un novello Hitler).
Il modello comunista (o meglio, del comunismo reale) è sorto come via alternativa al capitalismo, ed aveva l'obiettivo di raggiungere il benessere collettivo senza passare per la via dello sfruttamento del proletariato. Come abbiamo già visto (specialmente nel paragrafo l), il comunismo reale si è caratterizzato per la sua anti-economicità e per questo ha fallito.
I dirigenti comunisti dei vari Paesi hanno tentato vie diverse da quella dell'accumulazione originaria del capitale, trovandosi impotenti di fronte ai primi ostacoli. Cuba sembra un caso a parte, perché lì le politiche economiche intraprese hanno permesso di ottenere risultati migliori rispetto alle disastrate economie sudamericane e terzomondiste.
Il modello capitalista fonda il suo (parziale) successo sulla combinazione tra scienza ed economia. La scienza rende disponibili le tecnologie necessarie per massimizzare la produzione di qualsiasi bene, l'economia spiega in che modo deve organizzarsi la società, per permettere uno sfruttamento intelligente ed ottimale delle risorse.
Lo sviluppo del modello capitalista, in Occidente, sembra aver seguito un percorso ben preciso: innanzitutto la meccanizzazione dell'agricoltura, per trarre profitto della sua eccedenza (questa è stata l'accumulazione originaria del capitale); quando si è raggiunto il limite potenziale dell'accumulazione agricola, si sono fatti investimenti nel settore dei beni di prima necessità (questa è stata la prima rivoluzione industriale: l'industria leggera); non appena è stato impossibile sfruttare in maniera più intensiva le materie prime necessarie per l'industria leggera, il capitale è transitato verso l'industria pesante (questa è stata la seconda rivoluzione industriale); infine si è arrivati all'era dei computer (questa è l'attuale economia fondata sull'informazione).
È questa la logica intrinseca del capitalismo: accumulare al massimo una risorsa a prezzo di tanti sacrifici - lo sfruttamento del proletariato, la distruzione delle foreste, l'inquinamento -, per non trovarsi così impreparati alle prime difficoltà. La morale del capitalista è nota e facilmente sintetizzabile: la cicala spreca, la formica accumula; così alle prime difficoltà la cicala muore, mentre la formica, che è stata più saggia, più intelligente e più furba sopravvive.
Naturalmente le risorse accumulate e i beni prodotti, affinché possano garantire il profitto, devono avere dei clienti. Fino all'800 gli unici clienti erano gli uomini potenti nel mondo; con il processo di urbanizzazione in Europa e in Giappone, la base sociale si è allargata, incominciando dal ceto urbano benestante fino ad arrivare alla totalità dei cittadini; al contrario, il processo di colonizzazione ha circoscritto la ricchezza delle colonie agli amministratori locali che sono stati al servizio delle grandi Compagnie occidentali (si ricordi l'esempio di Calcutta, citato nel paragrafo m).

Le politiche economiche adottate dai Paesi in via di sviluppo
Più complicato è descrivere quanto avvenuto nei Paesi in via di sviluppo dopo la seconda guerra mondiale. Con il processo di decolonizzazione, questi Paesi hanno cercato una loro via per raggiungere gli stessi livelli dei Paesi industrializzati (si ricordi lo schema del precedente paragrafo: passaggio dalla tradizione alla modernità).
Il modello socialista, nelle sue principali realizzazioni, non ha rappresentato una soluzione soddisfacente ed un esempio valido per i Paesi periferici. In alcuni casi esso in una prima fase di attuazione, soprattutto per merito di riforme agrarie e di un'ampia diffusione di servizi sociali, ha consentito la riduzione di fenomeni comuni ai Paesi periferici, quali la distribuzione fortemente diseguale del reddito e la povertà di massa, ha dato un forte impulso alla formazione di capitale e avviato il processo di industrializzazione. L'isolamento dal mercato capitalistico e una pianificazione di tipo quantitativo, rigida e burocratica, non hanno tuttavia permesso gli ulteriori progressi che sarebbero stati necessari. (Volpi, p. 163)
Negli altri Paesi, fino agli anni '60 la linea strategica fondamentale è andata nella direzione della costruzione o dell'espansione di un nucleo capitalistico (privato o di Stato) che ha come settore trainante l'industria. L'agricoltura avrebbe dovuto cedere parte della sovrappopolazione rurale e produrre un sovrappiù reso disponibile per i lavoratori urbani, mentre la politica protezionistica avrebbe dovuto permettere i grossi investimenti produttivi nell'industria, al riparo dalla concorrenza dei Paesi industrializzati, più avanzati tecnicamente e commercialmente. (Volpi, p. 170-171)
I limiti di questa politica keynesiana, secondo i critici, sarebbero stati (nell'ordine): la creazione di un'industria non competitiva (favorita dal protezionismo); i prezzi amministrati (cioè tenuti bassi) dei prodotti agricoli, che non hanno permesso la creazione di un consistente surplus ed anzi hanno creato un disavanzo nella bilancia dei pagamenti, perché i prodotti esportati costavano poco; la politica dei minimi salariali assicurati, che hanno frenato la domanda di lavoro e creato una disoccupazione strisciante; l'eccessiva spesa pubblica, fonte di sprechi e corruzione. (Volpi, p. 173)
Ma il colpo fatale a queste politiche è legato all'impennata dei prezzi petroliferi, che hanno impedito ai Paesi in via di sviluppo di approvvigionarsi di una materia prima così fondamentale. Oltretutto, il petrolio ha cominciato a diventare una risorsa limitata, che può ancora oggi essere sfruttata solo per la produzione di un numero limitato di beni, a favore di un numero ancor più limitato di consumatori, cioè quelli dei Paesi ricchi. Ecco spiegato perché oggi il 20% della popolazione mondiale consuma l'80% della ricchezza mondiale.
L'impennata del prezzo del petrolio ha avuto un'altra conseguenza: i Paesi produttori si sono trovati con un'enorme disponibilità finanziaria, largamente superiore alle loro capacità di spesa interna e al loro fabbisogno. Le banche commerciali hanno raccolto questa abbondante liquidità (i cosiddetti petrodollari) e l'hanno offerta sul mercato internazionale, provocando come risultato una caduta dei tassi di interesse (come è ovvio, dato l'eccesso di offerta).
L'aumento del greggio ha generato alta inflazione internazionale, e la combinazione di questa con bassi tassi d'interesse ha reso l'indebitamento molto vantaggioso, indebitamento reso ancor più vantaggioso dalla clausola di tassi d'interesse variabili (perché ci si sarebbe aspettati una caduta del prezzo petrolifero, cosa che avrebbe generato a sua volta una caduta proporzionale dei medesimi tassi d'interesse). Ma dopo qualche anno, i tassi di interesse si sono impennati a causa delle politiche monetariste adottate nei Paesi ricchi per combattere l'inflazione mondiale. E così i Paesi periferici si sono trovati a dover rimborsare un debito aggravato da tassi d'interesse stratosferici. (Bosio, p. 9-12)
L'insieme di questi fattori ha spinto ad un mutamento di rotta nelle politiche economiche dei Paesi poveri: non più politiche d'industrializzazione calate dall'alto, ma politiche rivolte all'esportazione di beni agricoli e manufatti. Mettiamo da parte le giustificazioni economiche di questo mutamento e limitiamoci ai fatti, che sono riassunti come segue:
- le industrie occidentali sono diventate troppo costose, dati gli alti salari pagati per una manodopera troppo sindacalizzata e le normative anti-inquinamento. Unica soluzione possibile: la delocalizzazione nei Paesi in via di sviluppo (di qui l'aumento della disoccupazione nei Paesi ricchi). Ma per permettere questo, è occorsa la compiacenza o la sottomissione dei governanti locali, attraverso l'arma dell'indebitamento (ed ecco perché il debito non è mai stato soppresso) e lo strumento degli investimenti esteri (di qui la fuga di capitali ogni qualvolta un Paese periferico non ha garantito la compiacenza politica, la repressione del movimento sindacale e tassi di rendimento alti). Pur di mantenere alti questi tassi di rendimento, non si è esitato a sacrificare lo sviluppo di altre branche economiche;
- l'eccesso di offerta di beni nel mercato ricco, è stato scaricato nel mercato povero (una politica non nuova, in verità), dove il ricambio tecnologico è molto lento. Forse un banale esempio spiega meglio: un milione di autoveicoli rimane invenduto nei Paesi industrializzati, e viene trasferito nei Paesi periferici. Ma queste vetture verranno tenute più tempo del necessario, fino al logoramento, anche quando la tecnologia permetterà la fabbricazione di automobili meno inquinanti: ed ecco che i cronisti spiegano come le metropoli del sottosviluppo siano preda di un traffico bestiale e di una soglia di inquinamento molto superiore all'Occidente sviluppato;
- le nuove fabbriche sono state costruite disboscando ulteriormente le foreste, ed utilizzando materiale tecnologico arretrato, e di conseguenza inquinante, per permettere un risparmio dei costi;
- gli investimenti esteri hanno arricchito ulteriormente il ceto benestante, il quale in teoria avrebbe dovuto spendere i propri soldi all'interno del proprio Paese, permettendo così una produzione industriale che avrebbe stimolato l'economia nazionale. In realtà, i prodotti interni non sono mai stati competitivi come quelli esteri, e così la domanda si è rivolta verso l'importazione di manufatti e beni agricoli di primaria necessità, aggravando la bilancia dei pagamenti;
- l'aumento generale dei prezzi, dovuto all'apertura dei mercati, e i processi di privatizzazione attuati per cedere il controllo strategico alle multinazionali, hanno penalizzato le fasce medio-basse della popolazione (che per questo si sarebbero ribellate in misura frequente, costringendo i vari eserciti a feroci repressioni se non a veri e propri massacri);
- le politiche economiche miranti all'esportazione hanno ridimensionato ulteriormente l'industria tradizionale e l'agricoltura di sussistenza (di qui l'importazione dei beni di cui sopra), costringendo anche molti contadini a tentare inutilmente la fortuna nelle città. L'eccesso di offerta di lavoro nelle fabbriche, combinatosi con l'instaurazione di dittature alla Pinochet, ha ridotto in misura eccessiva i salari operai (di qui il miliardo di abitanti che vive ancora oggi con meno di 1 dollaro al giorno);
- oltretutto, lo scambio tra prodotti esportati ed importati è avvenuto a disparità di condizioni: oltre alla dipendenza dai mercati borsistici internazionali altamente speculativi, occorre calcolare i prezzi in termini di tasso di cambio. E siccome i tassi di cambio sono quelli di mercato (in pratica una svalutazione strisciante), le importazioni sono state necessariamente superiori alle esportazioni, rendendo insostenibile il saldo della bilancia dei pagamenti e costringendo a periodiche svalutazioni. Si immagini di vendere per 100 pesos ed acquistare per 100 dollari ad un tasso di cambio 1$/100 pesos;
- l'unico modo effettivo per ridurre la povertà nei Paesi periferici è stato il controllo delle nascite, perché avrebbe risolto alla radice il divario tra sovrappopolazione e scarsità di risorse, senza colpire gli interessi delle multinazionali;
- la Corea del Sud e Taiwan, a differenza degli altri Paesi periferici, hanno ottenuto successo. Ma il vero motivo di cotanto successo sembrerebbe strettamente politico: la competizione con il blocco sovietico (Cina-Taiwan e Corea del Nord-Corea del Sud) ha reso necessario un rafforzamento delle rispettive strutture socio-economiche.
Insomma, alla fin fine i Paesi periferici non avrebbero proprio dovuto svilupparsi, ma essere sfruttati in nome del consumismo occidentale. Difficile è dire se vie alternative sarebbero state possibili, dato il limite principale costituito dal prezzo del petrolio; nel senso che un aumento del benessere dei Paesi in via di sviluppo avrebbe comportato un aumento della domanda di petrolio, e quindi un aumento del relativo prezzo, a scapito del benessere dei Paesi ricchi. E tutto questo proprio mentre la competizione con l'Urss ha reso necessario il potenziamento dell'apparato economico e militare dell'Occidente sviluppato.
Secondo un'altra interpretazione, i fallimenti economici del Terzo mondo sarebbero dovuti alle politiche populiste adottate dai vari dittatori per guadagnare consensi. Questa interpretazione non necessariamente contrasta con quanto detto finora. I vari Paesi avrebbero potuto anticipare la globalizzazione attuale, se soltanto gli Stati Uniti avessero voluto fare pressione e se soltanto si fossero trovati a dover competere economicamente con il comunismo, e non militarmente come poi è stato.
L'unica energia alternativa al petrolio è stata, almeno finora, quella nucleare. Ma è meglio non fare troppo affidamento su impianti che al minimo errore rischiano di procurare danni irrimediabili, che non garantiscono la sicurezza totale, che producono scorie che non si riesce a seppellire con cura, e che hanno costi futuri crescenti per via dell'invecchiamento degli impianti.
Attualmente (1998) le 200 maggiori imprese sopranazionali controllano l'80% della produzione agricola ed industriale mondiale, così come il 70% dei servizi e degli scambi commerciali del pianeta, quindi più dei due terzi dei 25 mila miliardi di dollari che rappresentano il prodotto planetario lordo (cento anni fa, erano appena mille miliardi). (AAVV., p. 478)
Con la fine della Guerra fredda, la situazione è mutata. Osserviamo il quadro quale si presenta sotto il segno della globalizzazione:
- la popolazione dei Paesi ricchi sta diminuendo, con l'ovvia conseguenza che diminuisce la domanda aggregata di beni. Al contrario, la popolazione dei Paesi poveri non ha ancora concluso il suo ciclo demografico, compensando così la diminuzione della domanda cui sopra;
- ma affinché questi soggetti emergenti divengano potenziali nuovi clienti, devono avere a disposizione tanto denaro da spendere. Ciò non può avvenire dall'oggi al domani: è necessario procedere per tappe. La ricchezza, nell'immediato, è detenuta dal ceto borghese urbano benestante, cioè quello che ha accumulato soldi grazie al commercio internazionale e, in subordine, alla corruzione e ai commerci illeciti (di armi, droga, contrabbando di sigarette, prostituzione, pedofilia). Per la cronaca, sono i nuovi ricchi che vivono nelle ville blindate. Solo con il tempo, e grazie all'aumento della circolazione del denaro, emergeranno nuove fasce di clienti; nel frattempo l'unica arma per alleviare la povertà è il controllo delle nascite;
- affinché l'offerta di beni possa combaciare con l'aumento della popolazione mondiale, è necessario un grosso balzo produttivo: le fabbriche, nei Paesi periferici, devono migliorare i loro standard tecnologici (meno petrolio, energie alternative - nucleari ed idroelettriche -, più automazione, meno inquinamento). Questo si associa ad un rapido aumento del numero di industrie nel Terzo mondo;
- un'offerta disponibile di merci richiede anche un mercato apposito. Nel medioevo questo mercato si svolgeva nelle città, ove si recava ogni volta la gente dai quartieri vicini o dalla provincia. Esattamente la stessa cosa dovrà avvenire nei Paesi in via di sviluppo, grazie anche alla meccanizzazione completa del sistema agricolo;
- secondo le stime e le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione urbana è cresciuta dal 29,3% della popolazione del mondo nel 1950 al 45,2% nel 1995 e supererà la popolazione rurale nel 2005; inoltre, a quella data, 2 abitanti urbani su 5 vivranno in agglomerazioni di oltre 1 milione di abitanti. È stato stimato anche che, fra pochissimo tempo, circa due terzi della popolazione mondiale vivrà entro 60 km dalla costa, con conseguente maggiore esposizione ai rischi ambientali (innalzamento del livello del mare, alluvioni, tifoni). (Livi Bacci, p. 292-293)
- Le aree urbane sono responsabili di ben l'80% delle emissioni di anidride carbonica, del 75% del consumo totale di legno e del 60% del consumo di acqua dolce per attività umane (compresa l'acqua per l'irrigazione di campi, i cui raccolti sono consumati dai cittadini). Via via che la popolazione urbana aumenta, l'acqua disponibile dovrà essere suddivisa tra un numero sempre maggiore di persone, l'inquinamento aumenterà, il numero di rifiuti legati al consumismo urbano non riuscirà ad essere smaltito correttamente (già oggi in numerose città tra il 30 e il 50% delle immondizie non viene raccolto). L'urbanizzazione agisce sulla produzione di cibo poiché sottrae terra coltivabile all'agricoltura a causa dell'espansione urbana; essa riduce inoltre il numero di aziende agricole familiari per via della migrazione dei coltivatori verso i centri urbani. Solo un grosso sforzo produttivo globale in tecnologie disinquinanti potrà evitare un collasso urbano altrettanto globale. (Unfpa, p. 32-33)
- nei Paesi industrializzati si sente il solito lamento perché il denaro per finanziare le scuole, la sanità, le infrastrutture, ecc. non ci sono. Eppure, nei Paesi in via di sviluppo sta affluendo una marea di soldi! La verità è che "non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca": si ripete in continuazione che i ricchi devono sacrificare parte del loro denaro in nome della solidarietà ai poveri che stanno "laggiù", ma dal punto di vista delle multinazionali questo significa semplicemente sacrificare le branche improduttive dell'Occidente (cioè appunto le pensioni, gli aiuti ai nostri poveri, le carceri, le infrastrutture) a favore delle branche produttive del Terzo mondo.
L'impressione che si ha leggendo quanto scritto in queste pagine, è di disorientamento: tutta questa violenza è stata proprio necessaria, per raggiungere fini positivi? Lasciando da parte Marx e la sua teorizzazione di una storia sempre fonte di violenza, ricorriamo ad un astratto esempio numerico: ci sono 10 persone, e le risorse bastano solo per la metà di loro, che fare? Il religioso del sistema patriarcale risponde: guerra come sola igiene del mondo (frase presa a prestito dal nazifascismo). Il capitalista risponde: accumulazione delle risorse, e nel frattempo eliminazione delle fonti improduttive (siano esse persone, culture o habitat naturali). Insomma, alla fin fine qualcuno dovrà pur morire.
Il paragone più calzante è il ciclo ambientale lupi-agnelli. All'inizio ci sono pochi lupi e tanti agnelli. Il territorio diventa così terreno di caccia per questi lupi, che sbranano tanti agnelli e procreano tanti cuccioli di lupo (è già sottinteso che anche gli agnelli procreano). Quando questi cuccioli saranno diventati adulti, saranno molto più numerosi degli agnelli, e pertanto dovranno competere fra di loro per trovare cibo, o anche morire di fame per non averne trovato nemmeno un po'. La scarsità di agnelli provoca, così, la morte di tanti lupi. Ma quando i lupi sono pochi, gli agnelli non trovano più alcun ostacolo a riprodursi in grandi quantità. Si ritorna al punto di partenza, con pochi lupi e tanti agnelli, e il ciclo ricomincia.
La stessa cosa per l'uomo: quando le risorse cominciano a scarseggiare, il grado di violenza aumenta e viceversa. Abbiamo già menzionato l'esistenza di un ciclo demografico sotto il sistema patriarcale, e di un ciclo economico sotto il sistema capitalista.
Detto tutto questo, però, non abbiamo ancora risposto a due domande basilari: le risorse della terra bastano per gli attuali 6 miliardi di persone e per i futuri 10 miliardi? Questo aumento eccessivo della popolazione non rischia di sconvolgere l'equilibrio ecologico mondiale? Dedichiamo le prossime pagine a questi due argomenti.

Il futuro del capitalismo 1: la formula di Ehrlich
La formula matematica più famosa per esprimere il rapporto tra popolazione e ambiente è: I = P X A X T. Questa legge è stata sviluppata nei primi anni '70, nel corso del dibattito sul contributo della popolazione all'inquinamento atmosferico negli Stati Uniti. La formulazione matematica esplicita è dovuta a Ehrlich. (Ehrlich)
Secondo questa formula, l'impatto sull'ambiente (I) è funzione dell'ammontare della popolazione (P) moltiplicato per il flusso di beni prodotto per persona (A) - espresso, per esempio, dal consumo o dal reddito pro capite - moltiplicato per un fattore che esprime il livello della tecnologia (T) - espresso da indicatori che misurano il contenuto, in ciascuna unità prodotta, di risorse quali le materie prime, l'energia, lo spazio, ecc. (Livi Bacci, p. 285)
La sola variabile ben identificata dell'equazione è P, della quale conosciamo già con precisione le dimensioni, nonché altre caratteristiche rilevanti quali il sesso, l'età, l'attività, la localizzazione sul territorio. Di P abbiamo anche azzardato previsioni per il futuro, con buone probabilità di successo. (Livi Bacci, p. 286)
Per le altre due variabili, è difficile dare una valutazione precisa. Prendiamo la variabile A e chiediamoci: quali sono i bisogni dell'uomo? La maggioranza delle persone sarebbe d'accordo in merito a cibo, vestiti, medicine, una casa, una macchina, educazione e divertimento. Ma fino a che punto questi beni corrispondono ad una vera esigenza, oltre la quale si identifica lo spreco ("consumismo sfrenato")? Oltretutto, bisogna verificare se queste risorse sono disponibili facilmente in natura o meno.
Quanto alla variabile T, abbiamo già visto come la tecnologia possa essere contemporaneamente fonte di inquinamento e fonte di benessere. Generalmente il processo più difficile è quello dell'ingresso di una nuova tecnologia, perché essendo ancora nuova (e quindi non ancora perfezionata) è altamente inquinante, ma è altrettanto benefica, perché permette alla popolazione di innalzarsi nella scala evolutiva. La seconda fase, per questa tecnologia, consiste nell'innovazione che la rende meno inquinante e più efficiente, e quindi doppiamente benefica.
La nascita di un figlio (che fa aumentare di una unità la variabile P) comporta costi e benefici per la società, a prescindere da quelli presi in considerazione dai genitori. Fra i possibili benefici esterni, ricordiamo un allargamento della base fiscale che contribuirà a pagare le pensioni agli anziani o a condividere il costo di beni relativamente insensibili alle dimensioni della popolazione, come la difesa. I costi esterni possono includere un aumento della spesa pubblica per la scuola o la sanità, oppure una riduzione del valore pro capite del patrimonio nazionale, per esempio dei diritti di pesca o di estrazione dei minerali.
Diversi studi recenti hanno stimato le esternalità ambientali della procreazione, prendendo tutti ad esempio i cambiamenti globali del clima. Per quanto i risultati siano molto eterogenei, nel complesso indicano che, oltre ad altri impatti positivi sullo sviluppo, i benefici ambientali derivanti da politiche che portano alla riduzione della fecondità possono addirittura ripagare i costi di attuazione di tali politiche.
Le stime dei costi climatici della procreazione variano da varie centinaia a varie migliaia di dollari per nascita. Il loro valore è legato ad una molteplicità di fattori. Ad esempio, una nascita in un Paese in via di sviluppo in cui l'effetto serra pro capite è relativamente basso, ha mediamente un impatto minore rispetto ad una nascita in un Paese industrializzato, dove l'effetto serra pro capite è più elevato. Però questo deve tenere conto del fatto che la diminuzione della popolazione nei Paesi ricchi, combinatasi al progresso tecnologico (che riduce l'inquinamento), comporta una parallela riduzione dell'impatto sulla popolazione. Al contrario, l'aumento della popolazione e dei consumi pro capite nei Paesi poveri comporta un impatto in crescendo sui costi climatici. (Unfpa, p. 53)
La variabile P può modificarsi anche in termini qualitativi. Solo poche analisi considerano gli effetti dell'invecchiamento della popolazione su consumi ed emissioni gassose future. Con l'invecchiare della popolazione, le dimensioni medie dei nuclei familiari tendono a diminuire (soprattutto nei Paesi in via di sviluppo). Le famiglie meno numerose hanno un consumo di energia pro capite superiore rispetto alle famiglie di grandi dimensioni. I modelli basati sul numero dei nuclei familiari prevedono emissioni di carbonio più elevate rispetto a quelli basati sul numero delle persone, con una differenza che arriverà al 30% in più nell'anno 2100.
Inoltre, l'invecchiamento può influire sulle emissioni di gas incidendo sulla crescita economica. Tutti concordano in genere sul fatto che una popolazione che invecchia sovraccaricherà sia il sistema pensionistico che il sistema sanitario. I ricercatori, comunque, hanno raccolto poche prove del fatto che una forza lavoro più vecchia sia meno produttiva di una forza lavoro giovane.
L'analisi di recenti esperienze in Asia, rafforza la tesi secondo cui le modifiche nella struttura per età della popolazione possono esercitare un notevole impatto sulla crescita economica. Quando la forza lavoro deve farsi carico di un gran numero di membri familiari (bambini e anziani), i risparmi e il tasso di crescita economica tendono a diminuire. Col declino della fecondità, i lavoratori avranno meno familiari a carico e questo consentirà un aumento dei risparmi che possono incentivare la crescita economica, a patto che il Paese abbia una struttura economica ed istituzionale che consenta di sfruttare appieno tale opportunità. Nel tempo, con l'invecchiamento della popolazione, il rapporto tra familiari a carico e popolazione attiva tornerà ad aumentare, e verranno a cessare le condizioni propizie per questo bonus economico. (Unfpa, p. 54)
L'aumento della domanda di beni nei Paesi in via di sviluppo richiede necessariamente uno sforzo produttivo enorme. Secondo alcune indagini, gli agricoltori del mondo nel 2020 dovranno produrre il 40% di cereali in più rispetto al 1999. La maggior parte di questa produzione aggiuntiva dovrà essere garantita dall'incremento della resa degli attuali raccolti e non dalla coltivazione di nuovi terreni. In teoria sarebbe possibile aumentare la terra coltivabile a disposizione, ma la maggior parte della terra non coltivata è costituita da terreni marginali, dove il suolo è poco fertile e le precipitazioni atmosferiche sono scarse o eccessive.
Rendere produttivi questi terreni richiederebbe costosi sistemi di irrigazione e gestione delle risorse idriche, ed interventi su larga scala per l'arricchimento dei suoli. Una fetta rilevante di questi terreni è attualmente coperta da foreste e il loro disboscamento avrebbe effetti imprevedibili quali erosioni, degrado e cambiamenti climatici locali. Oltretutto, entro il 2025 rischia di scomparire oltre il 50% delle terre coltivate a causa del degrado e dell'erosione dei suoli. (Unfpa, p. 15)
La desertificazione interessa 2/3 del continente africano, il 30% degli Stati Uniti, un quarto dell'America Latina, un quinto della Spagna. Tra le acque interne, il Mare d'Aral e il lago Ciad sono già prosciugati per metà. Si calcola che il 30% delle terre emerse sia irreversibilmente inaridito. I 250 milioni di persone che oggi fanno i conti con la desertificazione diventeranno 1 miliardo entro il 2025.
La popolazione povera è l'agente distruttivo più visibile negli ambienti degradati, dato che i poveri dipendono strettamente dalle risorse naturali per il proprio reddito, e la miseria offre loro poche alternative. Ma nella maggior parte dei casi sono gli agricoltori più benestanti a provocare la distruzione della vegetazione su larga scala, abusando dei prodotti agro-chimici e delle falde acquifere per irrigare e dei pascoli, e sfruttando eccessivamente il suolo per produzioni da esportare. Occorre pertanto agire, finanziando l'innovazione tecnologica nel primo caso ed imponendo limiti allo sfruttamento nel secondo caso. (Unfpa, p. 28)
Un altro problema è quello della diversità genetica. Dopo 10 mila anni di agricoltura stanziale e la scoperta di 50 mila diverse piante commestibili, solo 15 specie vegetali forniscono il 90% dell'apporto nutritivo per l'alimentazione mondiale. Tre di queste - riso, grano e granoturco (mais) - costituiscono l'alimento base per 4 miliardi di persone. La dipendenza alimentare da poche specie coltivabili rappresenta un pericolo, dato che le malattie possono diffondersi rapidamente nelle monocolture. Senza ricorrere costantemente a innesti di geni provenienti da specie selvatiche, i genetisti non riescono a migliorare ulteriormente le principali specie coltivate.
I cultivar devono essere rinvigoriti a intervalli di tempo variabili tra i 5 e i 15 anni, per renderli più resistenti a malattie e insetti, e per introdurre nuove caratteristiche che ne aumentino la resa, quali una maggiore tolleranza alla siccità o a suoli ad alta concentrazione salina. L'ibridazione tra varietà domestiche e selvatiche costituisce il sistema più efficace per ottenere questi risultati. Se il tasso di erosione genetica delle specie vegetali non verrà azzerato o sostanzialmente ridotto, entro il 2025 si potrebbero perdere fino a 60 mila varietà vegetali, cioè circa un quarto delle varietà del pianeta. (Unfpa, p. 17)
L'aumento della domanda globale sta provocando una rivoluzione anche nel rapporto con il bestiame, che avrà profonde implicazioni per l'agricoltura, la salute, i mezzi di sussistenza e l'ambiente. La domanda di carne nei Paesi periferici, nel periodo compreso tra il 1995 e il 2020, dovrebbe raddoppiare fino a raggiungere la cifra di 190 milioni di tonnellate. Ciò significa che la domanda di cereali per l'alimentazione del bestiame in questi Paesi dovrebbe raddoppiare nel corso della prossima generazione.
Entro il 2020, si prevede che il fabbisogno di mangime a base di cereali raggiunga un valore di poco inferiore a 450 milioni di tonnellate. Tenendo conto di questa tendenza, la domanda di granoturco (mais) aumenterà molto più rapidamente rispetto ad altri cereali: l'incremento previsto per i prossimi 20 anni è pari al 2,35% annuo, destinato per quasi due terzi al mangime per bestiame. Per produrre 1 kg di carne sono necessari 4-5 kg di cereali. (Unfpa, p. 17)
Se i consumatori benestanti dell'Occidente e di altre regioni del globo fossero disposti a rinunciare alla loro dieta carnea, scendendo alcuni gradini della catena alimentare e adottando un regime prevalentemente vegetariano, preziosi appezzamenti potrebbero essere destinati alla coltivazione di cereali da destinare all'alimentazione di milioni di persone. (Rifkin, p. 194)
L'esperienza della Rivoluzione verde degli anni '60 insegna che i progressi tecnologici e le spinte del mercato possono portare ad un fortissimo aumento della produzione alimentare, ma non risolvono necessariamente i problemi della sicurezza alimentare.
Ad esempio, le nuove varietà ad alto rendimento, introdotte recentemente, impongono l'uso di fertilizzanti e pesticidi specializzati. Questi aumentano la resa dei raccolti, ma appare sempre più evidente che danneggiano l'equilibrio ambientale favorendo la diffusione di nuove malattie e di parassiti, per debellare i quali occorrono interventi ulteriori. Questi interventi comportano costi considerevoli, difficilmente sostenibili in aree a basso reddito, e ciò favorisce l'affermazione sul mercato di grandi holding in grado di effettuare simili investimenti. I piccoli agricoltori possono incontrare maggiori difficoltà, al punto da essere costretti a vendere la terra, diventando braccianti agricoli con un reddito incerto. (Unfpa, p. 17-18)
A livello planetario viene impiegato il 54% della disponibilità annua di acqua dolce, e di questo 54% i due terzi sono impiegati in agricoltura. Entro il 2025 si potrebbe raggiungere il 70% esclusivamente in virtù della crescita demografica. Se poi il consumo pro capite dovesse raggiungere ovunque i livelli dei Paesi più sviluppati, entro lo stesso anno si potrebbe arrivare al 90%. (Unfpa, p. 11)
La competizione derivata dalla crescente carenza di risorse idriche fa aumentare la probabilità che si verifichino conflitti internazionali (sia economici che militari) per il controllo della qualità dell'acqua e la deviazione delle fonti di approvvigionamento. Oltre 200 sistemi fluviali attraversano confini nazionali: tra i principali fiumi e laghi del pianeta, ve ne sono 13 condivisi da 100 Paesi. Forse il caso più grave è l'area mediorientale, dove i progetti di costruzione delle dighe ai margini dei fiumi Tigri ed Eufrate, messi a punto da Turchia e Siria, rischiano di provocare una guerra con l'Irak, il cui territorio sarebbe privato dell'apporto di questi due fiumi.
L'impatto futuro del riscaldamento globale sulla disponibilità di risorse idriche, e quindi sulla sostenibilità degli insediamenti umani, è estremamente incerto. L'andamento delle precipitazioni atmosferiche, compresa l'intensità e il susseguirsi delle tempeste e il tasso di evaporazione, subirà verosimilmente un cambiamento significativo in seguito al mutamento climatico.
Ricorrere a soluzioni puramente tecnologiche per affrontare il problema della scarsità idrica avrà probabilmente solo effetti limitati. La desalinizzazione delle acque marine è costosa e attualmente copre meno dell'1% del fabbisogno idrico. Tale percentuale tenderà probabilmente ad aumentare, ma la desalinizzazione rimane una strada praticabile solo nei Paesi con economie abbastanza forti da poterne sostenere i costi (attualmente, solo i Paesi petroliferi dell'Asia occidentale), e in situazioni che non comportino la conduzione dell'acqua per grandi distanze (come nel Mediterraneo orientale).
Proposte più ambiziose, come il trasporto degli iceberg, si sono rivelate per ora impraticabili. La raccolta di grandi quantità d'acqua proveniente dalle precipitazioni sugli oceani potrebbe divenire possibile, tuttavia la luce e il calore riflessi dai teli di plastica necessari per tale operazione potrebbero creare problemi. (Unfpa, p. 13)

Il futuro del capitalismo 2: la curva di Hubbert
Ogni giorno i raggi del sole inondano di migliaia di kilocalorie di energia ogni metro quadrato sulla superficie terrestre. Una parte di questa energia è catturata dalle creature viventi e convertita in forme utili per il sostegno della vita, mentre la parte residua si trasforma in calore e si dissipa nello spazio. La lotta per la sopravvivenza, dunque, sia fra le diverse specie sia al loro interno, è in realtà una competizione per accaparrarsi l'energia utile e garantirsene il continuo fluire attraverso il sistema vivente. (Rifkin, p. 45)
Analizzando la storia della civiltà umana da un punto di vista energetico, lo storico Richard Wilkinson fa questa illuminante osservazione: "Nel corso dello sviluppo economico, l'uomo è stato ripetutamente costretto a cambiare le risorse da cui dipende e i metodi che utilizza per sfruttarle. Si è dovuto progressivamente impegnare in tecniche di trasformazione e di produzione sempre più complicate, passando dalle risorse più facilmente sfruttabili a quelle meno accessibili… Nel più vasto contesto ecologico, lo sviluppo economico è lo sviluppo di metodi sempre più intensivi di sfruttamento dell'ambiente naturale". (Wilkinson, p. 90 e 102)
Finché i nostri antenati cacciatori-raccoglitori hanno avuto a disposizione energia in abbondanza sotto forma di frutti e animali selvatici, non hanno avvertito la necessità di adottare il più duro stile di vita agricolo. A partire dal neolitico fino al XVIII secolo, la fonte di energia primaria è stata il legname, perché più facile da sfruttare, trasformare e utilizzare. Ma con il progressivo esaurimento di questa risorsa, l'Europa ha cominciato ad adottare il carbone, una fonte energetica di bassa qualità, difficile da estrarre, trasportare e conservare, sporco da manipolare ed inquinante nella combustione. (Rifkin, p. 82)
Nei primi anni del '900, negli Stati Uniti e negli altri Paesi industriali il petrolio è subentrato al carbone nel ruolo di combustibile più importante. Oggi, più dell'85% del fabbisogno energetico mondiale è coperto dai combustibili fossili: il 40% dal petrolio, il 22% dal carbone e il 23% dal gas naturale. L'energia nucleare e quella idroelettrica forniscono un ulteriore 7% ciascuna, mentre soltanto l'1% è l'apporto dell'energia geotermica, solare, eolica, o prodotta dalla combustione di legno e di scorie. Dall'inizio dell'era degli idrocarburi, il fabbisogno energetico mondiale è aumentato di settanta volte. (Rifkin, p. 79)
Con il passaggio delle società da risorse più facilmente accessibili a forme di energia più difficili da scoprire e trasformare, le infrastrutture tecnologiche, economiche e sociali devono, per necessità, diventare più complesse, gerarchiche e centralizzate. La nostra civiltà, fondata sul petrolio, ha creato il sistema di trasformazione dell'energia più centralizzato e gerarchizzato della storia del mondo. (Rifkin, p. 83)
Il settore petrolifero è la maggiore industria del mondo, con un giro d'affari stimato fra i 2 mila e i 5 mila miliardi di dollari. Il settore è costituito da un vasto complesso che include i pozzi petroliferi, le piattaforme di trivellazione sottomarina, migliaia di chilometri di oleodotti, gigantesche petroliere, raffinerie, sistemi informatici per la gestione del flusso di carburante verso gli utenti finali, stazioni di servizio e migliaia di aziende, grandi e piccole, che realizzano prodotti petrolchimici: dai fertilizzanti ai materiali plastici, dai lubrificanti ai farmaci. (Rifkin, p. 93)
L'eccessiva dipendenza dai combustibili fossili è un problema molto serio: se questa fonte energetica dovesse esaurirsi, l'intera società industriale cesserebbe d'esistere. Eppure è quello che rischia di accadere nei prossimi anni. A parte il fatto che le riserve esistenti stanno diminuendo e che la scoperta di nuovi giacimenti va a rilento, occorre puntare il dito sulle stime di crescita della domanda mondiale per i prossimi due decenni. Con un aumento previsto della popolazione mondiale da 6 a 7,9 miliardi di individui entro il 2025, la pressione su queste riserve energetiche è destinata ad aumentare. L'incremento demografico determinerà un'accelerazione del processo di urbanizzazione, che comporterà una maggior domanda di combustibili fossili per trasporti, riscaldamento, elettricità, produzione agricola ed industriale. (Rifkin, p. 28)
Secondo alcuni esperti, la produzione di petrolio convenzionale toccherà probabilmente il picco fra 28 o 38 anni, ma ci sono esperti convinti che il picco sarà raggiunto fra 8 o 18 anni. Il "picco" corrisponde al momento in cui è già stata estratta la metà delle riserve stimate di petrolio disponibili: stiamo parlando della cosiddetta "curva di Hubbert" (dal nome di un geofisico che, nel 1956, pubblicò il saggio in cui esponeva la sua famosa teoria). (Hubbert, p. 60-70)
Secondo questa curva, l'estrazione di petrolio comincia lentamente, quindi accelera rapidamente con la localizzazione dei pozzi. Dopo che i pozzi maggiori sono stati individuati e coltivati, la produzione rallenta; l'individuazione dei pozzi minori diventa più difficoltosa; i costi di estrazione e raffinazione aumentano. Nello stesso tempo, con il progressivo esaurimento dei pozzi maggiori, diventa più difficile pompare in superficie il petrolio residuo: al getto iniziale subentra il posto ad un flusso sempre più modesto.
La combinazione del minor tasso di scoperte e del declino dell'estrazione da un determinato giacimento ha come effetto il picco della produzione. Il vertice della curva a campana rappresenta il punto medio, quello in cui la metà delle riserve certe sfruttabili sono già state estratte. Da quel punto in avanti, nella parte decrescente della curva, la produzione declina con la stessa rapidità con cui è cresciuta. (Rifkin, p. 31)
Anche se gli esperti non concordano sul momento in cui la produzione mondiale di petrolio raggiungerà il picco, sono tuttavia unanimi nel ritenere che, quando ciò accadrà, la quasi totalità delle riserve petrolifere mondiali ancora sfruttabili sarà nelle mani di alcuni Paesi musulmani, con un conseguente potenziale pericolo per l'attuale equilibrio di potere nel mondo. (Rifkin, p. 8)
Se la produzione mondiale di petrolio e di gas naturale raggiungesse il picco (e il prezzo di questi combustibili aumentasse) cogliendo il mondo impreparato, gli Stati e le aziende energetiche deciderebbero di sfruttare, come sostituti del petrolio, anche idrocarburi meno "puliti", come carbone, olio combustibile e sabbie bituminose. Il ricorso a questi combustibili comporterebbe un incremento delle emissioni di CO2 nell'atmosfera e, di conseguenza, un surriscaldamento della terra addirittura superiore alla già preoccupante stima di un valore oscillante fra 1,5 e 5,8 °C da qui alla fine del ventiduesimo secolo, con ricadute sulla biosfera ancora più devastanti di quelle già previste (vedere più avanti). (Rifkin, p. 8)
Durante le precedenti crisi petrolifere è stato possibile rimediare a tale impennata, grazie all'individuazione di fonti di rifornimento alternative a quelle islamiche e alla continua innovazione tecnologica, che permette il funzionamento dei sistemi meccanici con un minore impiego di combustibili fossili. Ma in questo caso i due strumenti di difesa sono insufficienti.
Finora sono stati individuate due fonti di energia che potrebbero sostituire i combustibili fossili. Le centrali nucleari hanno costi e rischi più che proporzionali all'aumento del numero, e possono garantire l'efficienza solo nell'arco di qualche decennio, dopodiché devono essere rinvigorite o smontate (e i costi, in entrambi i casi, sono molto alti).
L'altra fonte di energia è l'idrogeno, ovvero il più leggero, elementare e diffuso elemento chimico presente in natura, che si trova ovunque: sulla terra, nell'acqua, nei combustibili fossili e in tutta la materia vivente. Non esiste, però, in forma libera, quindi deve essere estratto da fonti naturali. (Rifkin, p. 12)
Si tratta di una fonte di energia inesauribile e non inquinante, che per essere avviata ha bisogno di sfruttare le economie di scala permesse dalla globalizzazione. Un primo utilizzo di questa fonte di energia potrebbe essere l'automobile: la quota principale dei consumi di petrolio riguarda i mezzi di trasporto (circa 1/3 del fabbisogno globale annuo). Sottraendo questo consumo, rimarrebbe molto più petrolio a disposizione per le industrie; per questo l'affare dovrebbe essere conveniente anche per le multinazionali.
Secondo Rifkin l'idrogeno, dato che si trova ovunque ed è inesauribile, se adeguatamente sfruttato consentirà ad ogni essere umano di diventare produttore dell'energia che usa, mettendo a repentaglio il tradizionale dominio degli impianti di generazione centralizzati, nati e cresciuti durante l'era dei combustibili fossili. (Rifkin, p. 13)
Nel frattempo l'inquinamento è destinato ad aumentare. Ma a questo argomento dedichiamo il prossimo sotto-paragrafo.

Il futuro del capitalismo 3: Effetto serra S.p.A.
Nel corso dei vari paragrafi, incluso questo, abbiamo visto quali sono state le conseguenze negative del tentativo, compiuto dall'uomo, di adattare la natura alle proprie esigenze. Parlare di processo di adattamento esclude naturalmente il Paleolitico, dove è l'uomo ad adattarsi alla natura e ne segue i cicli.
Con la scoperta dell'agricoltura, la scarsa conoscenza delle tecniche agricole provoca l'erosione del suolo, se non una vera e propria desertificazione (il Sahara). Solo con il tempo si riesce a migliorare la resa dei suoli, la cui eccedenza provoca un lento processo di inurbamento; ma in questo modo i problemi mutano.
Per prima cosa, l'intensità d'uso di un prodotto energetico per i riscaldamenti, per l'industria domestica o per le manifatture localizzate presso il luogo di estrazione delle materie prime, è determinata dall'andamento demografico. Lo schema è semplice: più popolazione, più superficie agraria messa a coltura, meno boschi e foreste, meno legno e carbone di legna (e più elevato prezzo), più carbone e altri sostituti altamente inquinanti. (Sori, p. 63)
Un altro problema è quello dei rifiuti, organici e inorganici, che (se non utilizzati come concimi) vengono smaltiti all'interno delle mura cittadine o lungo i fiumi, aumentando tra l'altro anche il rischio di contrarre qualche malattia. Vi è, inoltre, un certo numero (limitato) di effetti indesiderati che provengono da residui (solidi, liquidi, gassosi e acustici) di processi produttivi e che sono in grado di pesare negativamente sia sull'ambiente naturale sia sui gruppi umani. (Sori, p. 49)
I cibi guasti, gli avanzi e le contraffazioni alimentari sono di un certo spessore nelle società antiche (e purtroppo anche in molte regioni povere del mondo contemporaneo). Nelle campagne antiche il problema lo si avverte nei periodi di magra, quando i contadini si riducono addirittura a mangiare erba. Ma è nelle città antiche che la situazione sembra più grave: soltanto per le classi agiate esiste una (remota) possibilità di pregustare cibi genuini; per il resto la necessità dei ceti popolari, l'astuzia (o truffa) dei mercanti e l'assenza di controlli sanitari riducono notevolmente la qualità dei cibi, alcuni dei quali possono anche essere letali.(Sori, p. 42-46)
Per ridimensionare tutti questi problemi, le società tradizionali hanno codificato una serie di consuetudini. A parte il consumo "totalitario" (cioè il consumare tutto senza scarti e avanzi, il reimpiegare produttivamente scarti ed avanzi, l'usare lo stesso bene durevole per un arco di tempo molto esteso), vi è un efficace meccanismo antispreco: la redistribuzione in natura del reddito mediante trasferimenti a titolo gratuito o anche la commercializzazione dei rifiuti.
È un meccanismo che funziona secondo uno schema piramidale e gerarchico. Per cibo e vestiario, ad esempio, esso investe prima l'ambito domestico e parentale della famiglia abbiente (parenti poveri coabitanti e non, servitù e clientes), per poi estendersi all'esterno e diventare elemosina. (Sori, p. 39-40)
Durante la rivoluzione industriale in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e (in seguito) nei Paesi comunisti, le cose peggiorano, non solo per la quantità e qualità dei rifiuti prodotti da processi di trasformazione vecchi e nuovi, ma anche per le novità che riguardano la localizzazione delle unità produttive (vicino alle città e ai fiumi), con conseguente disboscamento delle foreste, ed il rapporto tra le fabbriche e gli insediamenti umani. (Sori, p. 57)
Nelle grandi città, la concentrazione dello zolfo è elevata ed è responsabile della corrosione di metalli e pietre; nelle campagne che circondano questi impianti la crescita degli alberi è ostacolata o annullata, le siepi uccise, i raccolti di ogni genere danneggiati, il bestiame indebolito; i fiumi smaltiscono i rifiuti solubili o galleggianti a costi praticamente nulli, mentre i rifiuti solidi generalmente finiscono col deturpare molti paesaggi. (Sori, p. 58 e 70-71)
I tentativi di ridurre l'inquinamento generalmente falliscono, dato che l'equazione fumo = progresso = prosperità gode di uno straordinario seguito. Le principali vittime dell'inquinamento, gli operai che accusano malanni vari, vomito, denti marci e/o abiti corrosi, si schierano generalmente a difesa del posto di lavoro, vale a dire con gli industriali; molti cittadini tacciono, mentre chi può se ne va dalle zone investite dai vapori, trasferendo le proprie abitazioni. Il modello comunista è un caso a parte. (Sori, p. 85)
Naturalmente la tecnologia, nei Paesi capitalistici, migliora con il tempo, rendendo le fabbriche meno inquinanti e più produttive, ma il problema è il costo della ristrutturazione delle fabbriche. In effetti, soltanto in casi particolari il sistema industriale nel suo complesso si rinnova. L'ultima volta è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto con la crisi petrolifera degli anni '70. L'inquinamento globale non si è ridotto: ha semplicemente "traslocato" nei Paesi poveri, che sono passati dalla condizione di colonie di sfruttamento a quella di Paesi in via di sviluppo.
Grazie all'industrializzazione, la qualità dei prodotti è più elevata e le condizioni igieniche migliorano notevolmente. Ma, come abbiamo già detto, il consumismo di massa ed il passaggio dalla produzione domestica a quella industriale, fanno aumentare il volume totale dei rifiuti (molti dei quali finiscono nelle discariche del Terzo mondo). Osserviamo questa tabella, che mostra la composizione dei rifiuti di un gruppo di Paesi industriali (Belgio, Irlanda, Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone) in migliaia di tonnellate, nel periodo 1984-1989 (fonte: Eurostat):

 Tipi di rifiuti

 v.a.

 %
 Urbani  288.513  5,8
 Industriali  1.157.238  23,5
 Produzione di energia  1.028.988  20,9
 Agricoltura  624.256  12,6
 Miniere  1.665.137  33,8
 Inerti (macerie)  123.016  2,5
 Fanghi di depurazione  43.910  0,9
 Totale  4.931.058  100,0

La produzione di energia e le miniere sottolineano la svolta energetica e la crescente mineralizzazione sulle quali si fondano le moderne economie; inoltre compaiono fonti praticamente inedite, come gli inerti (il cui peso sembra destinato a crescere e che nessuna società preindustriale si sarebbe mai sognata di definire rifiuti) e i fanghi di depurazione; infine si evidenzia la trasformazione dell'agricoltura da settore autarchico a settore che, da un lato, importa rilevanti quantità di energia prodotta al di fuori del sistema agrario e, dall'altro lato, esporta nell'ambiente rifiuti che nei sistemi agrari tradizionali sarebbero risorse, mezzi di produzione reimpiegati nel settore stessi (concimi organici). (Sori, p. 48-49)
Sono state fatte delle ricerche scientifiche per cercare di studiare il problema dell'inquinamento. Un primo aspetto riguarda l'aumento dell'anidride carbonica nell'aria, in un secolo, da 280 a circa 350 particelle su un milione, una crescita non ancora interrotta. Questo temibile "gas serra" rappresenta oggi, con il suo 0,035%, una percentuale trascurabile della nostra atmosfera, mentre l'azoto costituisce il 78% e l'ossigeno il 20,9%. (Angela, p. 9 e 23)
Il metano è un altro "gas serra", la cui concentrazione atmosferica sta rapidamente aumentando. Vi sono poi gli ossidi di azoto emessi nelle combustioni e dai terreni trattati con i fertilizzanti, e i notissimi CFC (clorofluorocarburi) delle bombolette spray, dei frigoriferi, ecc. (Angela, p. 23-24)
I "gas serra" (azoto, ossigeno, anidride carbonica, ecc.) permettono all'atmosfera terrestre di comportarsi come un grande vetro che lascia passare i raggi solari ma trattiene un po' di calore, secondo un modo di funzionamento simile alle serre dove crescono artificialmente ortaggi o fiori: ecco perché si parla di effetto serra. (Angela, p. 15)
Il vapore acqueo è il maggiore responsabile (per il 65-70%) del benefico effetto serra che mantiene la temperatura della terra 35-38 gradi più alta di quello che le spetterebbe in base alla sola distanza dal sole. L'anidride carbonica è un socio di minoranza che detiene appena il 15%, allo stesso modo degli altri gas (metano, ossidi di azoto, CFC). (Angela, p. 24-25)
Bruciando combustibili fossili e distruggendo le foreste, immettiamo nell'atmosfera una quantità incredibile di carbonio. Una volta finito nell'atmosfera, il carbonio si combina rapidamente con l'ossigeno per formare l'anidride carbonica (CO2, un atomo di carbonio, due di ossigeno). Così, da una tonnellata di carbonio ne saltano fuori 3,7 di anidride carbonica. (Angela, p. 33)
Dato che il fabbisogno di energia dovrebbe aumentare nei prossimi decenni, e dato che è difficile immaginare che i combustibili fossili vengano rapidamente sostituiti, aumenteranno anche le immissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. In questo modo, ci sarà prevedibilmente un piccolo innalzamento di temperatura.
Così gli oceani si scalderanno e l'evaporazione aumenterà. Il vapore acqueo a sua volta peggiorerà l'effetto serra e la temperatura tenderà ad innalzarsi ancora di più (a 1,5 o 5,8 °C a seconda delle previsioni). È questo un classico caso di retroazione, dove una piccola variazione iniziale di temperatura finisce per provocare, dopo varie "carambole", un aumento massiccio. (Angela, p. 26)
Il metano sta aumentando dell'1% l'anno e negli ultimi cento anni la sua concentrazione nell'atmosfera è raddoppiata. Questo gas proviene da numerose fonti, sia naturali che umane. Il metano viene emesso dalle paludi, dalle coltivazioni di riso, dagli allevamenti di bestiame, dalle discariche urbane: tutte situazioni dove i batteri decompongono la materia organica. Infine un po' di metano sfugge alle condutture che portano il gas nelle nostre cucine. Il fatto che la quantità di metano presente nell'atmosfera sia un'inezia in confronto all'anidride carbonica non deve trarci in inganno. Il metano è un "gas serra" quattro volte più efficiente del CO2 nell'intrappolare il calore.
Ancora più efficienti come "gas serra" sono poi il protossido di azoto (180 volte l'anidride carbonica) e i CFC, ben 10 mila volte. Gli ossidi di azoto prodotti sia nelle combustioni di petrolio o carbone che dalla deforestazione e dalla "respirazione" dei terreni agricoli, stanno aumentando dello 0,2% l'anno. I CFC, composti esclusivamente industriali inventati dall'uomo, stanno crescendo all'incredibili ritmo del 3% l'anno. La loro forza come "gas serra" e killer dell'ozono, unita a una vita lunghissima (70-100 anni), li rende uno dei composti più temibili per l'atmosfera. (Angela, p. 36-37)
Il riscaldamento dovuto all'effetto serra non si ripartirebbe in modo uniforme sul pianeta. Non è possibile fare previsioni certe sul futuro, tuttavia qualche scenario potrebbe plausibilmente emergere nei prossimi decenni:
- più umidità nella fascia subtropicale dei monsoni (con maggiori rischi di allagamenti);
- primavere più umide e più lunghi periodi per la crescita di coltivazioni alle alte latitudini;
- estati più aride alle medie latitudini, con seri problemi agricoli e di rifornimenti d'acqua nei grandi Paesi produttori di cereali, come gli Stati Uniti;
- maggiori probabilità di ondate di gran caldo e di incendi estivi nelle zone più aride;
- innalzamento dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacciai e all'espansione termica (ogni liquido, quando viene scaldato, tende ad occupare un volume maggiore), con conseguente vulnerabilità delle coste (dove predominano l'urbanizzazione e la coltivazione dei campi). (Angela, p. 49)
Un altro aspetto, altrettanto importante, è quello dei tempi di reazione: all'interno del meccanismo del clima, non tutti gli ingranaggi si muovono alla stessa velocità. Alcune parti reagiscono più rapidamente, altre più lentamente. Non solo, ma alcuni fattori provocano effetti di breve durata, altri di lunga durata.
Per esempio, gli oceani hanno una maggiore capacità della terraferma di immagazzinare calore: è ben noto che, proprio per questo motivo, nelle zone in prossimità del mare il clima è più "dolce", cioè subisce minori variazioni tra il giorno e la notte, o tra una stagione e l'altra, di quanto avvenga nelle regioni interne e continentali, dove gli sbalzi di temperatura sono più forti. Questo effetto di immagazzinamento del calore da parte degli oceani, ritengono certi esperti, potrebbe far apparire in ritardo l'aumento della temperatura atmosferica.
Per questa ragione, se per ipotesi si raddoppiasse nel giro di un mese l'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera, la temperatura terrestre non raggiungerebbe il suo nuovo equilibrio prima di un secolo. Ma analogamente se noi trovassimo il modo di controllare subito l'emissione di anidride carbonica, dovremmo comunque attenderci un innalzamento della temperatura terrestre, in futuro, di circa 1 grado. (Angela, p. 55-56)
Non va dimenticato che le nostre ciminiere (e molte altre fonti di inquinamento) non producono solo anidride carbonica, ma anche particelle che raggiungono gli strati alti dell'atmosfera e che potrebbero avere un effetto analogo a quello della polvere sollevata da un vulcano o da un asteroide (sia pur in modo molto più lieve, naturalmente).
Le polveri e gli aerosol prodotti dalle attività industriali possono, in effetti, paragonarsi ad una continua eruzione vulcanica. Il principale responsabile degli aerosol (minuscole goccioline sospese nell'aria) è l'anidride solforosa, che insieme ad altri composti dello zolfo viene generata soprattutto nella combustione del petrolio e del carbone. Infatti questi combustibili fossili contengono dallo 0,4 al 4% di zolfo. Ne finiscono ogni anno più di 100 milioni di tonnellate nell'atmosfera. (Angela, p. 75-76)
Questi aerosol provocano danni sia all'uomo che all'ambiente. Gli aerosol sono infatti tra i principali responsabili dell'inquinamento e dello smog che colpisce moltissime grandi metropoli, con evidenti danni alle vie respiratorie e, generalmente parlando, alla salute dei più deboli: i bambini e gli anziani. L'anidride solforosa, insieme ad altre sostanze (come gli ossidi di azoto), è anche responsabile delle piogge acide, cioè di quelle gocce d'acqua con alta concentrazione di acido solforico che stanno distruggendo le foreste. (Angela, p. 77-78)
L'effetto serra non è l'unico guaio che affligge l'atmosfera terrestre: ve ne sono altri. Uno dei più preoccupanti è l'assottigliarsi dello strato di ozono, soprattutto sopra il Polo Sud. L'ozono è un parente molto stretto dell'ossigeno: la sua formula chimica si scrive infatti O3, cioè è composto da tre atomi di ossigeno legati insieme, mentre la formula dell'ossigeno è O2. (Angela, p. 83)
Il famoso strato di ozono, situato fra i 15 e i 30 km di quota, funziona come uno schermo che impedisce ai pericolosi raggi ultravioletti del sole di scendere più in basso. In quella fascia alta dell'atmosfera terrestre (la cosiddetta stratosfera, che va dai 15 ai 50 km di altezza) avvengono reazioni chimiche molto complesse, che provocano una continua formazione e distruzione dell'ozono.
Semplificando molto questi complicati processi si può dire che la molecola di ozono, quando viene colpita da un raggio ultravioletto, si spezza formando: 1) ossigeno molecolare (cioè due atomi legati insieme, O2); 2) ossigeno atomico (un atomo solitario, O). In questo "scontro" il raggio ultravioletto viene bloccato e la sua energia utilizzata, appunto, per spezzare l'ozono. Attraverso nuove reazioni, cui possono partecipare anche altri elementi (come l'azoto), dall'ossigeno atomico e da quello molecolare si riforma l'ozono. (Angela, p. 84)
Naturalmente fra distruzione e formazione di ozono c'è un equilibrio molto delicato che consente a questo strato di non assottigliarsi troppo. Con i CFC abbiamo compromesso questo equilibrio. La caratteristica principale di queste molecole inventate dall'uomo è quella di essere stabili, cioè di non reagire chimicamente con altre sostanze. Paradossalmente questo "meriti" industriali trasformano i CFC in killer implacabili dell'ozono. Infatti, a causa della loro stabilità, i CFC hanno una vita lunghissima (50-100 anni), ed hanno quindi tutto il tempo di vagare nell'atmosfera fino a raggiungere le parti più alte: la stratosfera.
E qui avviene il fattaccio. I raggi ultravioletti spezzano le molecole di CFC, liberando il cloro. Comincia così la perversa catena di reazioni che porta alla distruzione dell'ozono. Si tratta anche in questo caso di una catena molto complicata che semplificheremo al massimo.
L'atomo di cloro liberato dai CFC si combina con una molecola di ozono, rubandogli un atomo di ossigeno. L'ozono senza quell'atomo torna ad essere semplice ossigeno molecolare (O2), incapace di bloccare la parte più pericolosa dei raggi ultravioletti (i cosiddetti Uv-b). Ma non è finita. Il cloro, dopo aver catturato l'atomo di ossigeno, lo ricede ad un altro atomo di ossigeno. Ecco il cloro di nuovo libero e pronto a spezzare nuovo ozono, e così via fino a 100 anni. Un solo atomo di cloro può così distruggere da 30 a 40 mila atomo di ozono. (Angela, p. 89-90)
Accanto all'ozono "buono", chiamato anche stratosferico perché si trova a quote molto alte, c'è l'ozono "cattivo", detto anche troposferico perché si trova a quote più basse, fra 0 e 15 km. L'ozono "cattivo" è una delle tante conseguenze dell'inquinamento urbano. Proprio nell'aria sopra le grandi città, piene di traffico e di industrie, i gas inquinanti (come gli ossidi di azoto e il metano) si combinano fra loro in complicatissime reazioni chimiche dalle quali esce, alla fine, l'ozono. Apparentemente stiamo facendo le cose al rovescio. Immettiamo ozono nella bassa atmosfera dove è dannoso alla salute (specialmente all'apparato respiratorio) e lo distruggiamo là dove è indispensabile, nella stratosfera. (Angela, p. 85)
Per queste e altre conseguenze che l'inquinamento provoca alla salute umana (e ambientale) si rinvia al paragrafo u. Per i cosiddetti "rifugiati ambientali" rinviamo al paragrafo t. Intanto concludiamo con qualche riflessione etica sul consumismo, riflessione che risponde ad una domanda fatta in precedenza, e che ci servirà come introduzione al prossimo paragrafo sul tema della cultura. È infatti ormai noto che per ridurre l'inquinamento non basta solo migliorare le tecnologie a disposizione, sostituire i combustibili fossili con l'idrogeno e il nucleare, e piantare nuovi alberi. Una soluzione all'inquinamento deve passare necessariamente attraverso una riduzione dei consumi.
Prendiamo il mondo della pubblicità: i personaggi mostrati sono conformi ai modelli dominanti, ed è difficile stabilire se siano modelli voluti dalla cultura "plebea" o imposti dall'alto. Gli uomini sono aitanti ragazzoni, le ragazze sono belle biondine dal seno prorompente, tutti sorridono e sono concordi, qualunque cosa succeda.
I luoghi sono sempre gli stessi: città belle e pulite, campagne incantevoli e solatie, il mare o un altro luogo di turismo paradisiaco; il Terzo mondo è esotico e bonaccione, come al Club Méditerranée. Il corpo regna sovrano, lo scenario è futurista (ma in chiave piacevole, alla quali si aspira), la competizione sembra essere l'unica motivazione personale. Vengono esaltate la potenza e la forza, e costantemente evocata la prodezza.
Sono rivelatrici anche le scelte prevalenti: alcol e tabacco, automobili e velocità, acquisti futili e costosi, o prodotti alimentari di scarsa qualità presentati come consumo d'élite. La pubblicità punta continuamente sul desiderio sessuale, raramente con delicatezza, piuttosto attraverso una monotona licenziosità. È chiaro che il consumismo di massa andrebbe ridimensionato, ma è difficile perché la sua arma più potente è il denaro: tutto è business ormai. (AAVV., p. 532)

Bibliografia:
AAVV., Il libro nero del Capitalismo, Marco Troppa Editore '99
Angela Piero e Pinna Lorenzo, Atmosfera: istruzioni per l'uso, Mondadori-De Agostini Libri '94.
Bosio Roberto e Moro Riccardo, Pagare con la vita, Editrice Missionaria Italiana '00.
Ehrlich P. R. e Holdren J., Impact of Population Growth, in "Science" 171: 1212-1217, 1971.
Eurostat, Europe in figures, Lussemburgo '92, citato in Sori, p. 49.
King Hubbert M., The Energy Resources of the Earth, in "Scientific American", settembre 1975, citato in Rifkin, p. 31.
Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino '02
Rifkin Jeremy, Economia all'idrogeno, Mondadori '02.
Sori Ercole, Il rovescio della produzione, Il Mulino '99.
Unfpa, Lo stato della popolazione nel mondo 2001, edizione italiana a cura di AIDOS
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