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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

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Capitolo 3

Il terzo mondo

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o) L'Africa subsahariana tra guerre e AIDS - L'economia schiavile.

Nell'Africa orientale fecero la loro comparsa milioni di anni fa i primi "ominidi", cioè i più lontani antenati dell'uomo. È tuttavia ancora impossibile tracciare l'"albero genealogico" dell'uomo a partire da quei suoi lontani antenati.
Da antiche popolazioni preistoriche si fanno discendere le tre razze nomadi ancora esistenti e tecnicamente più arretrate dell'Africa subsahariana: i pigmei, i boscimani e gli ottentotti. I pigmei occupano le regioni di foresta densa; i boscimani e gli ottentotti vivono nella regione sud-occidentale del continente. Essi furono sospinti in queste aree inospitali da successive migrazioni di popoli più evoluti.
Le origini dei principali gruppi umani dell'Africa sono ancora in larga parte oscure. L'attuale umanità del continente è il risultato di una lunga evoluzione, di incroci e migrazioni molteplici e complessi.
Nell'Africa settentrionale e nel Sahara dominano ancora oggi popolazioni di pelle chiara che parlano lingue del gruppo semitico o di quello camitico. Dal loro incrocio con popoli neri trassero origine alcune delle popolazioni che abitano nei paesi confinanti con il grande deserto e nell'Africa orientale: nilotici, etiopi, popoli di allevatori delle savane africane. Il Sahara, infatti, fu un grande centro di dispersione di popoli, quando andò progressivamente inaridendosi, a partire dal III millennio a.C.; abitato allora da allevatori che lasciarono traccia della loro presenza in splendide pitture sulla roccia, fu poi abbandonato dalla maggior parte di essi.
Tutta l'Africa a sud del Sahara è occupata prevalentemente da popolazioni di pelle nera e di caratteristiche fisiche molto varie. Da un punto di vista antropologico, è molto difficile distinguerli in razze. Le principali distinzioni si basano invece su criteri linguistici: permettono cioè di identificare grandi insiemi di popoli che parlano lingue con certe caratteristiche simili.
La prima famiglia linguistica è quella dei popoli sudanesi, che abitano una vasta fascia a sud del Sahara, dall'Atlantico fino alla valle del Nilo. La seconda grande famiglia è quella dei popoli bantu, che si diffusero negli ultimi 2 millenni dalla fascia di popolamento sudanese fino all'Africa australe. La dispersione dei bantu, a partire da un centro originario situato forse nelle vicinanze del Lago Ciad, ebbe un'enorme importanza per la storia dell'Africa: impostisi grazie alla loro superiorità tecnica sulle popolazioni meno evolute, essi introdussero, ovunque fossero arrivati, l'agricoltura e la lavorazione del ferro.
L'Africa precoloniale ebbe una sua storia, ed anche grandi regni. Molti di questi sorsero al contatto fra pastori nomadi del Sahara e popoli agricoli della savana e della foresta. Già in epoca antica per il Sahara transitavano oro e schiavi dal Golfo di Guinea verso il Mediterraneo, sale soprattutto (difficile da conservare e prezioso nelle zone umide equatoriali) in senso inverso. Regni e Imperi si succedettero in tutta la fascia sudanese a partire dal V secolo d.C.
In seguito, si fece sentire rapidamente l'influenza religiosa, culturale e politica dell'Islam. Nel medioevo, alcune città ai margini meridionali del Sahara furono grandi centri di cultura islamica. Islamismo e cristianesimo si diffusero in tutto il continente africano, sovrapponendosi e fondendosi con le forme religiose originali dei diversi popoli, senza cancellarle. Le religioni originali africane, pur variando da popolazione a popolazione, mostrano tuttora un rapporto particolarmente intenso con la natura e con il passato, che viene espresso in un ricco patrimonio di miti.
Stati neri e civiltà caratterizzate talora dall'elevato livello della produzione artigianale, sorsero anche in zone di foresta dell'attuale Nigeria, a sud del fiume Congo, nella regione dell'attuale Zimbabwe. Nell'Africa orientale, la maggiore organizzazione statale fu quella del regno di Etiopia, che adottò la religione cristiana nel IV-VI secolo e che seppe resistere, riducendosi di estensione, alle minacce degli arabi, in espansione sulle coste orientali del continente, e a quella di popoli di razza nera.
Le organizzazioni statali africane non furono tuttavia mai molto solide. Relativamente isolata, nonostante i traffici transahariani e quelli organizzati dagli arabi lungo le coste orientali, l'Africa nera rimase estranea ai progressi tecnici compiuti in altre parti del mondo.
Nel XVI secolo diversi fattori - rivalità tribali, scorrerie contro l'ultimo dei grandi Imperi sudanesi, declino dei commerci sahariani a seguito della circumnavigazione dell'Africa - contribuirono ad indebolire gli Stati africani; il continente avrebbe subito, senza autentiche capacità di reazione, la grande tragedia dei secoli seguenti: la colonizzazione bianca. (Bellezza, p. 281-286)
Prima dell'arrivo degli europei la tratta degli schiavi era già praticata da alcuni regni africani in rapporto commerciale con gli arabi, o da loro direttamente sulla costa orientale. Nel resto dell'Africa esisteva solo uno schiavismo cosiddetto "familiare": i prigionieri di guerra erano fatti schiavi, ma aggregati alle famiglie e trattati di fatto come servi, con possibilità di pagarsi il riscatto attraverso il lavoro, e perfino di ereditare. Anche gli arabi, dato il carattere più mercantile che agrario del loro sistema sociale, utilizzavano un numero relativamente limitato di schiavi.
Gli europei organizzarono invece la tratta su vasta scala, per il grande bisogno di manodopera che c'era nelle enormi piantagioni americane. A parte i neri giunti a destinazione (circa 10 milioni), si calcola che, tenendo conto di quelli morti durante i terribili viaggi di trasferimento e quelli uccisi nella cattura (a volte si doveva combattere contro intere tribù), il tributo africano allo sviluppo del mondo occidentale fosse di quasi un centinaio di milioni di individui in due secoli.
Così la tratta non solo bloccò lo sviluppo demografico dell'Africa (che sarebbe ripreso solo nella seconda metà del 1800, passando dai 100 milioni ai 700 milioni attuali), privandola delle risorse umane necessarie per il progresso, ma ne ostacolò anche l'evoluzione politica, perché alimentò profonde rivalità fra le diverse tribù, impedendo il formarsi di forti unità statali. Proprio questo fatto, d'altra parte, insieme con il declino dei regni sudanesi e della presenza araba, rese più facile nel corso del XIX secolo l'occupazione europea (Congresso di Berlino: 1884-85). (Bellezza, p. 287-288)
In mezzo a questa decadenza collettiva (le città vennero abbandonate, e i campi lasciati incolti per mancanza di agricoltori), la situazione delle donne, rese soprannumerarie dalla deportazione degli uomini, si deteriorò notevolmente e si costituirono giganteschi harem, formati da donne acquistate, da vedove e ragazzine vendute, non maritabili ed inutili. Con i prigionieri troppo gracili per essere acquistati dagli europei e i vecchi in soprannumero si alimentarono i sacrifici umani, la cui pratica vide in Africa un funesto aumento verticale a partire dal XVII secolo. (AAVV., p. 42)
Con qualche eccezione (numerosi inglesi si insediarono sulle alte terre del Kenya, di clima piacevole e propizio all'allevamento e alle coltivazioni di piantagione) le colonie africane del XIX secolo furono colonie di semplice sfruttamento, non di popolamento. Del tutto diverso fu quanto avvenne nell'Africa meridionale, occupata prima dagli olandesi (boeri) e poi dagli inglesi. Ma mentre la Rhodesia divenne indipendente negli anni '70 di questo secolo, con il nome di Zimbabwe, i neri del Sudafrica subirono una forma di apartheid (segregazione) fino al 1990. (Bellezza, p. 290-291)
Quasi tutti gli investimenti agricoli furono effettuati nel settore delle coltivazioni commerciali per l'esportazione, che costituiscono ancora oggi la principale fonte di valuta estera di moltissimi Stati africani. Questa dipendenza economica presentò gli stessi inconvenienti dell'Asia meridionale e del Sudamerica: dipendenza da un mercato borsistico altamente speculativo e bassa produttività delle colture per la sussistenza, con conseguente scambio internazionale alimenti-colture da esportazione, uno scambio che pesò negativamente sulla bilancia commerciale.
La colonizzazione non solo non favorì, ma anzi ostacolò decisamente la nascita di industrie moderne in Africa (eccetto che nel Sudafrica). Non si formarono i tecnici né gli ingegneri; la manodopera africana fu addestrata solo per i lavori di miniera. Le industrie delle metropoli coloniali, più agguerrite tecnicamente, ostacolarono lo sviluppo dell'artigianato locale. Le ristrette minoranze, nelle cui mani si concentrò la maggior parte delle ricchezze, preferirono acquistare all'estero i beni di consumo anziché investire i loro capitali nell'industria africana. E nemmeno la decolonizzazione eliminò queste storture, dato che permise agli imperialisti di sfruttarne le risorse senza doverli amministrare come colonie. (Bellezza, p. 303)
Questi limiti furono resi ancor più gravi dalle insufficienze delle reti di trasporto. La distanza dalle fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione da un lato, dai mercati di smercio dall'altro, aumentava considerevolmente i costi. In epoca coloniale, si svilupparono solo le comunicazioni ferroviarie e stradali (rimaste inalterate fino ad oggi) che collegavano i giacimenti di materie prime e le zone di produzione di derrate per l'esportazione con i porti d'imbarco. Le linee andavano dall'interno verso la costa, tendendo così a favorire la dipendenza dell'economia dall'estero anziché favorirne l'integrazione nazionale. (Bellezza, p. 304)

- La struttura geopolitica a partire dalla decolonizzazione
Con il processo di decolonizzazione avviatosi dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati africani assunsero la forma che più o meno è stata conservata fino ai giorni nostri. Si tratta, però, di confini che risalivano nella grande maggioranza dei casi alla spartizione decisa dai paesi colonizzatori.
Tali confini non soltanto non seguono linee di demarcazione naturali, che presenterebbero vantaggi per la difesa e il riconoscimento stesso delle divisioni nazionali, ma - ciò che più conta - non rispettano minimamente le divisioni etniche e tribali. La conseguenza più tragica è il susseguirsi di scontri a carattere etnico e sociale, di cui abbiamo avuto di recente un assaggio con il Ruanda e il Burundi. (Bellezza, p. 292)
La vita urbana nell'Africa subsahariana è ancora l'eccezione. La regola è, invece, la vita nel villaggio, l'immersione costante negli spazi domestici della famiglia estesa e della tribù. Le poche città furono costruite in epoca coloniale, ed erano concepite per governare territori di sfruttamento agricolo o minerario. Il carattere occidentale e quello ludico di queste città le resero, dopo l'indipendenza, poli d'attrazione per un'immigrazione urbana che i Paesi colonialisti avevano fino ad allora vietato. Le nuove autorità non percepirono forse tempestivamente la gravità del problema, e comunque non lo seppero controllare.
Le città capitali, soprattutto, attiravano i giovani per le loro opportunità di evasione dalle rigide regole tribali dei villaggi, ove il dominio degli anziani e le tradizioni dei tabù erano inflessibili; attiravano per le loro occasioni di potere alternativo a quello ancestrale (ad esempio nel Partito unico di governo), per le possibilità di vita moderna, di media colorati e attraenti, infine per le occasioni di lavoro retribuito in "busta paga". Quest'ultima occasione non si era mai verificata nell'economia tribale di autoconsumo ed era stata sperimentata solo da pochi nelle pesanti condizioni di subalternità delle piantagioni (ad esempio nel golfo di Guinea) o delle grandi miniere di rame del Congo belga, poi divenuto Zaire.
In quasi tutti gli Stati di nuova indipendenza la burocrazia amministrativa crebbe subito a dismisura, parallelamente alla sua inefficienza e alla sua corruttibilità. Accanto ad essa, altrettanto rapidamente si sviluppò un terziario parassita di piccoli commercianti ambulanti o comunque precari, ovunque brulicanti dall'alba al tramonto: tutta gente che di una casa aveva evidentemente bisogno, o almeno di un tetto per ripararsi la notte. Bidonvilles e squatting o, se si vuole, baraccopoli furono la risposta spontanea a queste esigenze immediate. Nessuno riuscì a prevedere e organizzare una risposta più meditata al bisogno di abitazioni stabili, di servizi pubblici, di asili, scuole, ospedali, centri commerciali, trasporti verso le zone centrali. Le porte erano dunque spalancate anche alla devianza sociale, alla violenza, alla droga e, come vedremo fra poco, all'Aids.
Per le classi abbienti, locali o straniere, il territorio urbano dovette allora necessariamente attrezzarsi come area separata da difendere, con recinti invalicabili e guardie del corpo in pattugliamento costante, soprattutto notturno. A Nairobi come ad Abidjan, zone residenziali e grandi giardini tropicali lasciano tuttora intravedere robuste ville con patio, difese da inferriate e guardiani attenti. Da esse esce a piedi solo la servitù; per gli altri, per motivi di difesa, è d'obbligo l'automobile. Le città principali si suddividono ancora oggi fra bidonvilles, zone residenziali esclusive e quartieri piccolo borghesi. (Cori, p. 223-225)
Un ostacolo alla costruzione di nuove aree urbane è dato dalla persistenza di molte malattie nelle aree tropicali, che si situano tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno, e dalla desertificazione delle regioni subtropicali (Sahara e Kalahari). Come negli altri Paesi in via di sviluppo, la crescita della popolazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse da parte delle multinazionali e dei contadini poveri, rischiano di far avanzare la desertificazione.
Quanto alle risorse non agricole, rilevanti sono le foreste (Guinea, Congo) per i legni pregiati. Le risorse minerarie sono più abbondanti nella parte occidentale del continente, ma due aree si distinguono nettamente: l'alto bacino del Congo e dello Zambesi (i due fiumi centrali dell'Africa) e la parte meridionale del continente, soprattutto per l'oro, ma anche per diamanti, uranio, ecc. (Bellezza, p. 301)
L'Africa a sud del Sahara ha enormi possibilità per quanto riguarda la produzione di energia idroelettrica. Per il momento, l'ostacolo maggiore è dato dall'assenza di industrie in grado di utilizzare l'elettricità prodotta. L'energia tratta dalle acque dello Zambesi viene in gran parte inviata nella Repubblica Sudafricana, lo Stato di gran lunga più industrializzato del continente. (Bellezza, p. 303)
Completiamo questo giro d'orizzonte con un esempio illuminante della crisi africana, sottolineato dal rapporto sull'HIV/AIDS pubblicato il 26 novembre 1997 dall'OMS e dall'ONU. Nell'Africa subsahariana, il 7,4% degli uomini e delle donne fra i 15 e i 49 anni è affetto dal virus. Sono 2,4 milioni in Sudafrica e dal 25% al 30% degli adulti in Botswana. Un po' dappertutto l'aspettativa di vita, che era aumentata di quasi 15 anni dal 1960 al 1990, retrocede nuovamente.
La più drammatica constatazione è il crescente divario in materia di cure fra i Paesi industrializzati e quelli africani. In Europa occidentale il numero dei casi dichiarati dall'OMS nel 1997 è inferiore del 30% a quello del 1995: fatto che si spiega con l'efficacia degli attuali trattamenti, specialmente la triterapia che in Europa costa più di 15 mila dollari all'anno. In queste condizioni, i dodici paesi africani che rappresentano da soli il 50% dei sieropositivi del pianeta, non hanno alcuna possibilità di offrire ai loro popoli questo nuovo trattamento. (AAVV., p. 317-318)
Per un approfondimento sull'Aids e sulle altre malattie del sottosviluppo, si rinvia al paragrafo u, intitolato "Le nuove pesti". Infine, ecco la tabella delle centrali nucleari:

Nazione

Centrali in funzione

Centrali in costruzione
 Sudafrica

2

1

Bibliografia:
AAVV., Il libro nero del Capitalismo, Marco Troppa Editore '99
Bellezza Giuliano, Geografia per l'uomo, vol. 3, Mondadori '84
Cori Berardo e altri, Geografia urbana, UTET Libreria '93.

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