Nell'Africa orientale fecero
la loro comparsa milioni di anni fa i primi "ominidi",
cioè i più lontani antenati dell'uomo. È
tuttavia ancora impossibile tracciare l'"albero genealogico"
dell'uomo a partire da quei suoi lontani antenati.
Da antiche popolazioni preistoriche si fanno discendere le tre
razze nomadi ancora esistenti e tecnicamente più arretrate
dell'Africa subsahariana: i pigmei, i boscimani e gli ottentotti.
I pigmei occupano le regioni di foresta densa; i boscimani e
gli ottentotti vivono nella regione sud-occidentale del continente.
Essi furono sospinti in queste aree inospitali da successive
migrazioni di popoli più evoluti.
Le origini dei principali gruppi umani dell'Africa sono ancora
in larga parte oscure. L'attuale umanità del continente
è il risultato di una lunga evoluzione, di incroci e migrazioni
molteplici e complessi.
Nell'Africa settentrionale e nel Sahara dominano ancora oggi
popolazioni di pelle chiara che parlano lingue del gruppo semitico
o di quello camitico. Dal loro incrocio con popoli neri trassero
origine alcune delle popolazioni che abitano nei paesi confinanti
con il grande deserto e nell'Africa orientale: nilotici, etiopi,
popoli di allevatori delle savane africane. Il Sahara, infatti,
fu un grande centro di dispersione di popoli, quando andò
progressivamente inaridendosi, a partire dal III millennio a.C.;
abitato allora da allevatori che lasciarono traccia della loro
presenza in splendide pitture sulla roccia, fu poi abbandonato
dalla maggior parte di essi.
Tutta l'Africa a sud del Sahara è occupata prevalentemente
da popolazioni di pelle nera e di caratteristiche fisiche molto
varie. Da un punto di vista antropologico, è molto difficile
distinguerli in razze. Le principali distinzioni si basano invece
su criteri linguistici: permettono cioè di identificare
grandi insiemi di popoli che parlano lingue con certe caratteristiche
simili.
La prima famiglia linguistica è quella dei popoli sudanesi,
che abitano una vasta fascia a sud del Sahara, dall'Atlantico
fino alla valle del Nilo. La seconda grande famiglia è
quella dei popoli bantu, che si diffusero negli ultimi 2 millenni
dalla fascia di popolamento sudanese fino all'Africa australe.
La dispersione dei bantu, a partire da un centro originario situato
forse nelle vicinanze del Lago Ciad, ebbe un'enorme importanza
per la storia dell'Africa: impostisi grazie alla loro superiorità
tecnica sulle popolazioni meno evolute, essi introdussero, ovunque
fossero arrivati, l'agricoltura e la lavorazione del ferro.
L'Africa precoloniale ebbe una sua storia, ed anche grandi regni.
Molti di questi sorsero al contatto fra pastori nomadi del Sahara
e popoli agricoli della savana e della foresta. Già in
epoca antica per il Sahara transitavano oro e schiavi dal Golfo
di Guinea verso il Mediterraneo, sale soprattutto (difficile
da conservare e prezioso nelle zone umide equatoriali) in senso
inverso. Regni e Imperi si succedettero in tutta la fascia sudanese
a partire dal V secolo d.C.
In seguito, si fece sentire rapidamente l'influenza religiosa,
culturale e politica dell'Islam. Nel medioevo, alcune città
ai margini meridionali del Sahara furono grandi centri di cultura
islamica. Islamismo e cristianesimo si diffusero in tutto il
continente africano, sovrapponendosi e fondendosi con le forme
religiose originali dei diversi popoli, senza cancellarle. Le
religioni originali africane, pur variando da popolazione a popolazione,
mostrano tuttora un rapporto particolarmente intenso con la natura
e con il passato, che viene espresso in un ricco patrimonio di
miti.
Stati neri e civiltà caratterizzate talora dall'elevato
livello della produzione artigianale, sorsero anche in zone di
foresta dell'attuale Nigeria, a sud del fiume Congo, nella regione
dell'attuale Zimbabwe. Nell'Africa orientale, la maggiore organizzazione
statale fu quella del regno di Etiopia, che adottò la
religione cristiana nel IV-VI secolo e che seppe resistere, riducendosi
di estensione, alle minacce degli arabi, in espansione sulle
coste orientali del continente, e a quella di popoli di razza
nera.
Le organizzazioni statali africane non furono tuttavia mai molto
solide. Relativamente isolata, nonostante i traffici transahariani
e quelli organizzati dagli arabi lungo le coste orientali, l'Africa
nera rimase estranea ai progressi tecnici compiuti in altre parti
del mondo.
Nel XVI secolo diversi fattori - rivalità tribali, scorrerie
contro l'ultimo dei grandi Imperi sudanesi, declino dei commerci
sahariani a seguito della circumnavigazione dell'Africa - contribuirono
ad indebolire gli Stati africani; il continente avrebbe subito,
senza autentiche capacità di reazione, la grande tragedia
dei secoli seguenti: la colonizzazione bianca. (Bellezza, p.
281-286)
Prima dell'arrivo degli europei la tratta degli schiavi era già
praticata da alcuni regni africani in rapporto commerciale con
gli arabi, o da loro direttamente sulla costa orientale. Nel
resto dell'Africa esisteva solo uno schiavismo cosiddetto "familiare":
i prigionieri di guerra erano fatti schiavi, ma aggregati alle
famiglie e trattati di fatto come servi, con possibilità
di pagarsi il riscatto attraverso il lavoro, e perfino di ereditare.
Anche gli arabi, dato il carattere più mercantile che
agrario del loro sistema sociale, utilizzavano un numero relativamente
limitato di schiavi.
Gli europei organizzarono invece la tratta su vasta scala, per
il grande bisogno di manodopera che c'era nelle enormi piantagioni
americane. A parte i neri giunti a destinazione (circa 10 milioni),
si calcola che, tenendo conto di quelli morti durante i terribili
viaggi di trasferimento e quelli uccisi nella cattura (a volte
si doveva combattere contro intere tribù), il tributo
africano allo sviluppo del mondo occidentale fosse di quasi un
centinaio di milioni di individui in due secoli.
Così la tratta non solo bloccò lo sviluppo demografico
dell'Africa (che sarebbe ripreso solo nella seconda metà
del 1800, passando dai 100 milioni ai 700 milioni attuali), privandola
delle risorse umane necessarie per il progresso, ma ne ostacolò
anche l'evoluzione politica, perché alimentò profonde
rivalità fra le diverse tribù, impedendo il formarsi
di forti unità statali. Proprio questo fatto, d'altra
parte, insieme con il declino dei regni sudanesi e della presenza
araba, rese più facile nel corso del XIX secolo l'occupazione
europea (Congresso di Berlino: 1884-85). (Bellezza, p. 287-288)
In mezzo a questa decadenza collettiva (le città vennero
abbandonate, e i campi lasciati incolti per mancanza di agricoltori),
la situazione delle donne, rese soprannumerarie dalla deportazione
degli uomini, si deteriorò notevolmente e si costituirono
giganteschi harem, formati da donne acquistate, da vedove e ragazzine
vendute, non maritabili ed inutili. Con i prigionieri troppo
gracili per essere acquistati dagli europei e i vecchi in soprannumero
si alimentarono i sacrifici umani, la cui pratica vide in Africa
un funesto aumento verticale a partire dal XVII secolo. (AAVV.,
p. 42)
Con qualche eccezione (numerosi inglesi si insediarono sulle
alte terre del Kenya, di clima piacevole e propizio all'allevamento
e alle coltivazioni di piantagione) le colonie africane del XIX
secolo furono colonie di semplice sfruttamento, non di popolamento.
Del tutto diverso fu quanto avvenne nell'Africa meridionale,
occupata prima dagli olandesi (boeri) e poi dagli inglesi. Ma
mentre la Rhodesia divenne indipendente negli anni '70 di questo
secolo, con il nome di Zimbabwe, i neri del Sudafrica subirono
una forma di apartheid (segregazione) fino al 1990. (Bellezza,
p. 290-291)
Quasi tutti gli investimenti agricoli furono effettuati nel settore
delle coltivazioni commerciali per l'esportazione, che costituiscono
ancora oggi la principale fonte di valuta estera di moltissimi
Stati africani. Questa dipendenza economica presentò gli
stessi inconvenienti dell'Asia meridionale e del Sudamerica:
dipendenza da un mercato borsistico altamente speculativo e bassa
produttività delle colture per la sussistenza, con conseguente
scambio internazionale alimenti-colture da esportazione, uno
scambio che pesò negativamente sulla bilancia commerciale.
La colonizzazione non solo non favorì, ma anzi ostacolò
decisamente la nascita di industrie moderne in Africa (eccetto
che nel Sudafrica). Non si formarono i tecnici né gli
ingegneri; la manodopera africana fu addestrata solo per i lavori
di miniera. Le industrie delle metropoli coloniali, più
agguerrite tecnicamente, ostacolarono lo sviluppo dell'artigianato
locale. Le ristrette minoranze, nelle cui mani si concentrò
la maggior parte delle ricchezze, preferirono acquistare all'estero
i beni di consumo anziché investire i loro capitali nell'industria
africana. E nemmeno la decolonizzazione eliminò queste
storture, dato che permise agli imperialisti di sfruttarne le
risorse senza doverli amministrare come colonie. (Bellezza, p.
303)
Questi limiti furono resi ancor più gravi dalle insufficienze
delle reti di trasporto. La distanza dalle fonti di approvvigionamento
dei mezzi di produzione da un lato, dai mercati di smercio dall'altro,
aumentava considerevolmente i costi. In epoca coloniale, si svilupparono
solo le comunicazioni ferroviarie e stradali (rimaste inalterate
fino ad oggi) che collegavano i giacimenti di materie prime e
le zone di produzione di derrate per l'esportazione con i porti
d'imbarco. Le linee andavano dall'interno verso la costa, tendendo
così a favorire la dipendenza dell'economia dall'estero
anziché favorirne l'integrazione nazionale. (Bellezza,
p. 304)
- La struttura geopolitica
a partire dalla decolonizzazione
Con il processo di decolonizzazione avviatosi dopo la seconda
guerra mondiale, gli Stati africani assunsero la forma che più
o meno è stata conservata fino ai giorni nostri. Si tratta,
però, di confini che risalivano nella grande maggioranza
dei casi alla spartizione decisa dai paesi colonizzatori.
Tali confini non soltanto non seguono linee di demarcazione naturali,
che presenterebbero vantaggi per la difesa e il riconoscimento
stesso delle divisioni nazionali, ma - ciò che più
conta - non rispettano minimamente le divisioni etniche e tribali.
La conseguenza più tragica è il susseguirsi di
scontri a carattere etnico e sociale, di cui abbiamo avuto di
recente un assaggio con il Ruanda e il Burundi. (Bellezza, p.
292)
La vita urbana nell'Africa subsahariana è ancora l'eccezione.
La regola è, invece, la vita nel villaggio, l'immersione
costante negli spazi domestici della famiglia estesa e della
tribù. Le poche città furono costruite in epoca
coloniale, ed erano concepite per governare territori di sfruttamento
agricolo o minerario. Il carattere occidentale e quello ludico
di queste città le resero, dopo l'indipendenza, poli d'attrazione
per un'immigrazione urbana che i Paesi colonialisti avevano fino
ad allora vietato. Le nuove autorità non percepirono forse
tempestivamente la gravità del problema, e comunque non
lo seppero controllare.
Le città capitali, soprattutto, attiravano i giovani per
le loro opportunità di evasione dalle rigide regole tribali
dei villaggi, ove il dominio degli anziani e le tradizioni dei
tabù erano inflessibili; attiravano per le loro occasioni
di potere alternativo a quello ancestrale (ad esempio nel Partito
unico di governo), per le possibilità di vita moderna,
di media colorati e attraenti, infine per le occasioni di lavoro
retribuito in "busta paga". Quest'ultima occasione
non si era mai verificata nell'economia tribale di autoconsumo
ed era stata sperimentata solo da pochi nelle pesanti condizioni
di subalternità delle piantagioni (ad esempio nel golfo
di Guinea) o delle grandi miniere di rame del Congo belga, poi
divenuto Zaire.
In quasi tutti gli Stati di nuova indipendenza la burocrazia
amministrativa crebbe subito a dismisura, parallelamente alla
sua inefficienza e alla sua corruttibilità. Accanto ad
essa, altrettanto rapidamente si sviluppò un terziario
parassita di piccoli commercianti ambulanti o comunque precari,
ovunque brulicanti dall'alba al tramonto: tutta gente che di
una casa aveva evidentemente bisogno, o almeno di un tetto per
ripararsi la notte. Bidonvilles e squatting o, se si vuole, baraccopoli
furono la risposta spontanea a queste esigenze immediate. Nessuno
riuscì a prevedere e organizzare una risposta più
meditata al bisogno di abitazioni stabili, di servizi pubblici,
di asili, scuole, ospedali, centri commerciali, trasporti verso
le zone centrali. Le porte erano dunque spalancate anche alla
devianza sociale, alla violenza, alla droga e, come vedremo fra
poco, all'Aids.
Per le classi abbienti, locali o straniere, il territorio urbano
dovette allora necessariamente attrezzarsi come area separata
da difendere, con recinti invalicabili e guardie del corpo in
pattugliamento costante, soprattutto notturno. A Nairobi come
ad Abidjan, zone residenziali e grandi giardini tropicali lasciano
tuttora intravedere robuste ville con patio, difese da inferriate
e guardiani attenti. Da esse esce a piedi solo la servitù;
per gli altri, per motivi di difesa, è d'obbligo l'automobile.
Le città principali si suddividono ancora oggi fra bidonvilles,
zone residenziali esclusive e quartieri piccolo borghesi. (Cori,
p. 223-225)
Un ostacolo alla costruzione di nuove aree urbane è dato
dalla persistenza di molte malattie nelle aree tropicali, che
si situano tra il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno,
e dalla desertificazione delle regioni subtropicali (Sahara e
Kalahari). Come negli altri Paesi in via di sviluppo, la crescita
della popolazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse da
parte delle multinazionali e dei contadini poveri, rischiano
di far avanzare la desertificazione.
Quanto alle risorse non agricole, rilevanti sono le foreste (Guinea,
Congo) per i legni pregiati. Le risorse minerarie sono più
abbondanti nella parte occidentale del continente, ma due aree
si distinguono nettamente: l'alto bacino del Congo e dello Zambesi
(i due fiumi centrali dell'Africa) e la parte meridionale del
continente, soprattutto per l'oro, ma anche per diamanti, uranio,
ecc. (Bellezza, p. 301)
L'Africa a sud del Sahara ha enormi possibilità per quanto
riguarda la produzione di energia idroelettrica. Per il momento,
l'ostacolo maggiore è dato dall'assenza di industrie in
grado di utilizzare l'elettricità prodotta. L'energia
tratta dalle acque dello Zambesi viene in gran parte inviata
nella Repubblica Sudafricana, lo Stato di gran lunga più
industrializzato del continente. (Bellezza, p. 303)
Completiamo questo giro d'orizzonte con un esempio illuminante
della crisi africana, sottolineato dal rapporto sull'HIV/AIDS
pubblicato il 26 novembre 1997 dall'OMS e dall'ONU. Nell'Africa
subsahariana, il 7,4% degli uomini e delle donne fra i 15 e i
49 anni è affetto dal virus. Sono 2,4 milioni in Sudafrica
e dal 25% al 30% degli adulti in Botswana. Un po' dappertutto
l'aspettativa di vita, che era aumentata di quasi 15 anni dal
1960 al 1990, retrocede nuovamente.
La più drammatica constatazione è il crescente
divario in materia di cure fra i Paesi industrializzati e quelli
africani. In Europa occidentale il numero dei casi dichiarati
dall'OMS nel 1997 è inferiore del 30% a quello del 1995:
fatto che si spiega con l'efficacia degli attuali trattamenti,
specialmente la triterapia che in Europa costa più di
15 mila dollari all'anno. In queste condizioni, i dodici paesi
africani che rappresentano da soli il 50% dei sieropositivi del
pianeta, non hanno alcuna possibilità di offrire ai loro
popoli questo nuovo trattamento. (AAVV., p. 317-318)
Per un approfondimento sull'Aids e sulle altre malattie del sottosviluppo,
si rinvia al paragrafo u, intitolato "Le nuove pesti".
Infine, ecco la tabella delle centrali nucleari:
Nazione |
Centrali in funzione |
Centrali in costruzione |
Sudafrica |
2 |
1 |
Bibliografia:
AAVV., Il
libro nero del Capitalismo, Marco Troppa Editore '99
Bellezza Giuliano, Geografia per l'uomo, vol. 3, Mondadori '84
Cori Berardo e altri, Geografia urbana, UTET Libreria '93. |