Le prime notizie storiche sugli
slavi riguardano la loro comparsa, verso il 500 d.C., alle frontiere
bizantine del basso Danubio: le invasioni barbariche degli unni
e degli avari stavano scatenando quella migrazione dei popoli
slavi che avrebbe totalmente modificato il volto etnico dell'Europa
a partire dal VI secolo. (Goehrke, p. 22)
Ancora oggi, gli slavi rappresentano il gruppo linguistico indoeuropeo
più numeroso del continente: ad oriente russi, ucraini,
bielorussi; ad occidente polacchi, cechi, slovacchi, lusaziani
o sorabi; a sud bulgari, macedoni, montenegrini, serbo-croati,
sloveni.
Nel corso dei secoli sorsero, attraverso le guerre, vari Imperi:
l'Impero bizantino nel Mediterraneo, che sarebbe stato sostituito
da quello ottomano nel 1453; l'Impero asburgico, che stava riunendo
sotto la sua autorità le etnie minacciate dall'espansione
araba; lo Stato prussiano (in seguito Impero germanico), sorto
in seguito alla guerra dei Trent'anni; l'Impero russo, che era
riuscito ad espandersi dopo la parentesi dell'invasione mongola
in tutta l'Europa orientale: di questa espansione ne avrebbero
fatto le spese la Polonia e gli Stati nord-asiatici.
Le guerre spostavano i confini a nord, a sud, ad ovest, ad est.
Le popolazioni locali erano costrette a migrare in continuazione,
per non soggiacere ai sempre nuovi conquistatori. Oltre alle
migrazioni slave del '500 e a quelle russe in seguito all'invasione
mongola, vi erano altri due casi di rilievo: l'espansione dell'Impero
russo obbligava i contadini a spostarsi nei territori estremi,
quelli non toccati dalle truppe nemiche e meno soggetti alle
vessazioni dello zar; nella Penisola balcanica dopo le due battaglie
del Kosovo, nel 1389 e approssimativamente nel 1685, i serbi
erano stati costretti per ben due volte alla diaspora e la regione
divenne territorio albanese.
Siccome i quattro Imperi erano l'emanazione del predominio delle
quattro etnie dominanti, araba, austriaca, ariana e russo-bianca,
le altre etnie minoritarie avrebbero a poco a poco rivendicato
la loro autonomia, fino a raggiungere il culmine nel XIX secolo
con i moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848. I capisaldi
dell'idea nazionale sarebbero stati tre: la storia, la lingua
e la religione.
La storia portava alla riscoperta del passato, alla tradizione
del Medioevo. Si rispolveravano le biografie dei propri eroi
medioevali, figure leggendarie. La cultura romantica si ispirava
al culto degli ideali patriottici; romanticismo significava anche
libertà, rottura di norme consolidate, affermazione dell'individuo
contro le convenzioni. Nella storia delle rivoluzioni ottocentesche
si incontra spesso la figura del patriota che andava a combattere
per la libertà degli altri popoli. (Giardina, p. 12-13)
Nello stesso tempo si resuscitava la lingua nazionale, in cui
non si vedeva soltanto un mezzo di comunicazione, ma una struttura
mentale, grazie alla quale un popolo conservava la propria anima.
Nel XIX secolo, la lingua assumeva un'importanza crescente sia
nelle ricerche erudite, sia nelle lotte politiche. Filologi e
grammatici si sforzavano di ritrovare la lingua originale, di
epurarla e di elevarla ad un rango culturale.
Le religioni diventavano la linea di resistenza del particolarismo
contro il dominatore. Era il caso della lotta dei cristiani balcanici
contro l'Impero ottomano, degli slavi ortodossi - soprattutto
serbi - contro l'Austria o l'Ungheria cattoliche. Era ancora
il caso della Polonia cattolica contro la Russia ortodossa o
la Prussia luterana. (Rémond)
Soltanto la Grecia (che ottenne l'indipendenza dall'Impero ottomano)
e l'Ungheria (che avrebbe ottenuto l'autonomia all'interno dell'Impero
austro-ungarico) ebbero successo. Per il resto, i moti rivoluzionari
furono duramente repressi. L'Italia e la Germania costituiscono
casi a parte.
Occorreva aspettare la prima guerra mondiale, la cui causa principale
fu presumibilmente l'ambizione dei serbi di costruire uno Stato
autonomo e inglobante le altre etnie, per vedere la fine contemporanea
dei tre Imperi multinazionali (quello austro-ungarico, quello
russo e quello germanico) e la crisi mortale verso la quale era
avviato l'Impero ottomano, oltre che l'ascesa del comunismo (vedere
più avanti).
Ma gli Stati che nascevano non riuscivano ad esercitare pienamente
il loro potere. Nell'Europa centrale e in quella danubiano-balcanica
la storia aveva lavorato in profondità ed i gruppi etnici
o le culture nazionali si erano così inestricabilmente
mescolati che, qualsiasi soluzione fosse stata adottata, sarebbero
rimaste rivendicazioni insoddisfatte e nuove ragioni di crisi
sarebbero state seminate. (Di Nolfo, p. 50)
La disgregazione dell'Impero austro-ungarico aveva aperto la
via alla rinascita della Polonia, dopo l'ingiusta spartizione
subita nel XVIII secolo. Così, mentre il confine meridionale
era abbastanza chiaramente definito grazie alla geografia, che
lo situava sul crinale della catena carpatica, tutti gli altri
confini erano materia di discussione.
La questione del confine orientale era indissolubilmente legata
alla situazione sovietica. Dopo due anni di guerra, nell'ottobre
1920 si arrivò ad un armistizio che lasciava ai sovietici
gran parte dell'Ucraina, ma concedeva alla Polonia estesi territori,
abitati da ucraini e bielorussi, lungo una linea di confine che
sarebbe durata fino alla seconda guerra mondiale.
Ad occidente, la Polonia aveva acquistato la Galizia austriaca
ed i territori tedeschi dell'Alta Slesia e della Pomerania, dove
fu costruito un "corridoio" per uno sbocco sul Mar
Baltico, separando così la Germania dal suo naturale prolungamento
ad oriente. (Di Nolfo, p. 53-54)
Al confine sud-orientale della Germania nasceva, sulle rovine
dell'Impero asburgico, la Cecoslovacchia. Il nazionalismo boemo
coronava la sua azione pluridecennale e l'attività svolta
durante la guerra: la Boemia-Moravia, dall'antica tradizione
culturale e dall'avanzato sviluppo industriale, si univa alla
Slovacchia, ancora prevalentemente agricola e dominata dal clero
cattolico. Alla base dell'unione vi era un impegno al riconoscimento
dell'autonomia slovacca, che i boemi non avrebbero poi molto
rispettato e che fu motivo di permanenti contrasti tra le due
comunità. Inoltre l'omogeneità del nuovo Stato
era minata dal fatto che esso aveva inglobato tutti i territori
abitati da popolazioni germaniche prima appartenenti all'Impero
asburgico, nella regione dei Sudeti.
I nuovi confini tedeschi erano poi delimitati (ma non modificati
territorialmente) a sud dell'Austria. La nascita della Repubblica
austriaca era il segno più vistoso della rottura rispetto
al passato. La distruzione del vecchio sistema trovava il suo
simbolo nella creazione di questo piccolo Stato di poco più
che 6 milioni e mezzo di abitanti, un quarto dei quali concentrato
nella capitale di Vienna. (Di Nolfo, p. 55-56)
Nei Balcani, gli esponenti dei gruppi etnici degli slavi del
sud avevano concordato (con il Patto di Corfù del 20 luglio
1917) la creazione di uno Stato indipendente, la cui struttura
etnica era caratterizzata dalla presenza almeno dei tre maggiori
gruppi nazionali (serbi, croati e sloveni) e da quella di montenegrini,
macedoni, albanesi, ungheresi ed italiani, che davano al nuovo
Stato un carattere di provvisorietà che solo dall'esterno
avrebbe potuto essere sorretto.
La Romania, che era stata sconfitta sul campo dagli austro-tedeschi
e costretta alla pace umiliante del 7 maggio 1918, afferrò
al volo l'occasione della dissoluzione dell'Impero asburgico
e della crisi russa per allargarsi a tutta la Transilvania, abitata
in gran parte da ungheresi e tedeschi, la Bessarabia e la Bucovina,
tolte all'Ucraina, e la Dobrugia meridionale, tolta alla Bulgaria.
Nasceva così un altro Stato plurinazionale, dando luogo
ad una situazione paradossale: quella per cui solo i paesi vinti
diventavano etnicamente omogenei, l'Ungheria e la Bulgaria. (Di
Nolfo, p. 59)
L'Albania era un territorio spartito da gruppi feudali e politici
rivali, su cui avrebbero speculato l'Italia e la Jugoslavia,
ciascuno tirando acqua al proprio mulino. (Di Nolfo, p. 72)
A tutto ciò bisognava aggiungere le rivalità che
opponevano i vari Stati. C'era l'attivismo revisionistico ungherese;
in Austria il regime democratico stentava a consolidarsi; la
Bulgaria, isolata dal resto della penisola balcanica come nemico
tradizionale, alimentava sia un generale orientamento revisionistico,
sia una vera e propria guerra di bande che operavano soprattutto
nella Macedonia jugoslava e greca; lo scontro tra greci e jugoslavi
era gravido di conseguenze. (Di Nolfo, p. 74)
I complicati giochi diplomatici che seguirono, sui quali non
ci soffermeremo, confermavano la precarietà del nuovo
assetto, aprendo la strada al revisionismo tedesco ed alle ambizioni
hitleriane: la presenza di cospicue minoranze ariane negli altri
territori dell'Europa orientale sarebbe stata un'ottima giustificazione
per l'occupazione di questi territori, fino alla sconfitta del
1943. Vale la pena ricordare, a questo proposito, le persecuzioni
subite dagli slavi sotto il dominio nazista: gli slavi non erano
considerati fondamentalmente pericolosi come gli ebrei, ma erano
destinati a costituire un'immensa riserva di manodopera servile
- sorte cui milioni di loro incapparono.
L'avanzata sovietica fino a Berlino avrebbe permesso, nei decenni
successivi, all'Urss di instaurare la dittatura comunista negli
Stati conquistati. Questi ultimi subirono poche modifiche territoriali
rispetto alla guerra precedente: l'Unione Sovietica allargò
i suoi confini ad ovest, i tedeschi fuggirono in massa nel suolo
germanico, mentre gli ebrei migrarono, sempre in massa, verso
Israele.
Sul piano socio-economico, la dittatura comunista significava
quattro cose: stagnazione, sfruttamento imperiale delle risorse,
ridimensionamento delle rivendicazioni etniche e dura repressione
dei tentativi insurrezionali.
La crisi del blocco sovietico cominciò negli anni 80.
Da un lato, l'ascesa del movimento sindacale polacco di ispirazione
fortemente cattolica, Solidarnosc; dall'altro l'avvento al potere
in Urss di Michail Gorbaciov, che poneva il problema di una ristrutturazione
(perestrojka) del regime e di un suo avvio a una trasparenza
politica (glasnost').
Nel 1989-90 una serie di movimenti investì l'intero universo
comunista, provocando la fine della Repubblica tedesco-orientale
e la caduta dei regimi vigenti dalla Polonia alla Cecoslovacchia,
dall'Ungheria alla Romania, dalla Bulgaria all'Albania. Un effetto
di non secondaria importanza sarebbe stato il flusso massiccio
di popolazioni da est ad ovest del continente: questo flusso
è, oggi, rallentato dagli accordi per l'allargamento dell'Unione
Europea.
Nell'Urss stessa, dove Gorbaciov fu alla fine rapidamente superato
dagli eventi e dovette ritirarsi, si delinearono fortissime agitazioni
e contrasti etnici e nazionali nei paesi baltici, nel Caucaso,
in Moldavia e anche in Ucraina e Russia bianca, che tutti rivendicarono
e conseguirono l'indipendenza. Si giunse, così, allo scioglimento
(nel 1992, dopo settant'anni) dell'Unione Sovietica e alla sua
sostituzione con una molto evanescente Comunità di Stati
Indipendenti.
Un'analoga indipendenza sarebbe avvenuta nella parte asiatica
della Federazione Russa, nei territori di: Armenia, Azerbaigian,
Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan.
In Tagikistan prima, in Cecenia dopo sarebbero scoppiate delle
guerre (la prima è ormai terminata, mentre la seconda
è ancora in corso). La posta in gioco è, ora, l'indipendenza
del popolo ceceno. La Russia non può accettare la richiesta
di indipendenza per motivi economici (le riserve petrolifere),
ma soprattutto per motivi sociali: l'indipendenza di una regione
potrebbe fungere da vaso di Pandora per la richiesta d'indipendenza
di altre minoranze, e minacciare così l'integrità
stessa del territorio proprio mentre si sta avviando faticosamente
un processo di modernizzazione. (Galasso, p. 482)
Come si evince dall'esempio russo, la conseguenza più
importante del fallimento del comunismo reale è stata,
ed è tutt'ora, la crisi dello Stato nazionale. Secessioni
ed autonomie sono rivendicate per popolazioni, di cui si proclama
che erano esse stesse nazioni. Una conferma se ne ha nella simultanea
rivendicazione della dignità di lingua per quelli che,
fino a poco prima, l'opinione generale considerava e definiva
"dialetti". E una conferma ulteriore se ne può
forse avere nel mito delle "radici", delle "tradizioni",
delle "culture locali".
I contrasti territoriali tra i paesi confinanti (Ungheria e Romania
per la Transilvania, Jugoslavia e Albania per il Kosovo) mantengono
tensioni non sottovalutabili, ridimensionati solo dal fatto che,
come abbiamo già visto, la seconda guerra mondiale, con
i conseguenti flussi migratori delle minoranze locali perseguitate,
aveva reso alcuni di questi Paesi più "nazionali".
In Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 non sarebbe
stato possibile mantenere l'equilibrio da lui voluto e garantito,
lo Stato federale si è dissolto e attraverso conflitti
sanguinosissimi si è affermata l'indipendenza di Slovenia,
Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina, mentre sono rimasti uniti
col nome di Jugoslavia solo Serbia e Montenegro. (Galasso, p.
493-494)
La recente guerra del Kosovo e i focolai nelle altre regioni
balcaniche dovrebbero confermare il loro carattere di guerre
tradizionali, dato che le varie etnie, albanese, serba, macedone
e così via, ragionano secondo la concezione patriarcale
della storia: dappertutto si disegnano cartine geografiche inglobanti
anche i confratelli perseguitati dagli Stati confinanti in quanto
minoranze (cartina panalbanese, panserba
), si invocano
pulizie etniche, si cerca nella storia la dimostrazione della
propria superiorità e della benedizione divina, si mantiene
un'alta prolificità come arma di difesa
Non a caso, gli Stati Uniti hanno messo in primo piano la questione
balcanica in questi anni: Milosevic e gli altri protagonisti
della guerra in Jugoslavia e delle guerre recenti, sono visti
come residuati del sistema patriarcale, e in quanto incompatibili
con il processo di globalizzazione (o meglio di americanizzazione)
sono considerati una minaccia, almeno finché stanno al
potere o ambiscono a riottenerlo. La giustificazione umanitaria
della guerra del Kosovo non convince, se la si confronta con
l'inezia di fronte al genocidio ceceno o a quello di Timor Est.
Adesso approfondiamo due casi particolari: la rivoluzione comunista
in Russia e la stalinizzazione. Questo excursus storico ci servirà
per comprendere un quarto modello di sviluppo (comunista), dopo
aver conosciuto gli altri tre nei paragrafi precedenti (tribale,
feudale e capitalista). Ma ci serve anche perché spiega
benissimo le leggi di natura che regolano il rapporto città-campagna,
così fondamentali per il tema della popolazione.
- Primo caso particolare:
la rivoluzione comunista
La conseguenza più importante della prima guerra mondiale
era stato l'avvento del comunismo in Russia. I bolscevichi avevano
ereditato un territorio molto arretrato rispetto agli Stati occidentali:
l'80% dei 170 milioni di abitanti che popolavano la Russia nel
1913 viveva nelle campagne, senza dimenticare poi che lo sviluppo
urbano del paese era stato assai tardivo e ridotto. Quando nel
1880 San Pietroburgo aveva raggiunto il milione di abitanti,
Londra ne aveva già 5 e Parigi 2,5. Nel 1920, la quota
di popolazione urbana superava a malapena il 15% del computo
totale.
Più di 40 milioni di contadini facevano parte della categoria
dei servi della gleba, quindi appartenevano allo Stato o a proprietari
terrieri. Essi erano costretti a prestazioni di lavoro obbligatorie,
le cosiddette corvées (in russo barcina), oppure
al pagamento di un tributo in natura o in denaro (obrok). La
legge del 3 marzo 1861, il manifesto firmato dallo zar Alessandro
II per l'emancipazione dei contadini, si era rivelata una riforma
abortita.
La rivoluzione del 1917 sembrò trasformare in realtà
il perenne desiderio dei contadini russi: la cessione della proprietà
della terra a chi realmente la coltivava. Per questo, perlomeno
nelle prime fasi, i contadini appoggiarono il potere bolscevico.
(Pombeni, p. 243-244)
I problemi del nuovo Stato, che nel 1922 si sarebbe chiamato
Urss (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), furono
cinque: l'interruzione dei rapporti tra città e campagna,
la guerra civile, la persecuzione delle classi ricche, l'immigrazione
interna e il nuovo diritto di famiglia.
Già subito dopo la rivoluzione era stata legalizzata l'occupazione
contadina della terra (legge fondiaria del 1918). La parcellizzazione
della proprietà avrebbe limitato la produzione agricola
nei decenni successivi, e i governi comunisti si sarebbero visti
costretti tra due scelte: ripristinare il mercato oppure confiscare
i prodotti con la forza e il terrore di massa.
Si scelse la seconda soluzione, e i risultati furono catastrofici
perché i contadini in questo modo non erano incoraggiati
a coltivare che limitatamente per la propria sussistenza. Gli
incentivi non venivano neanche dall'industria: siccome non si
riusciva a produrre manufatti e beni di prima necessità
per i contadini, questi interruppero ogni rapporto con la città,
non fornirono più agli operai e alla popolazione urbana
merce di scambio. Nelle città si patì la fame e
molti migrarono nelle campagne. (Goehrke, p. 316-325)
L'industria non riusciva ad esser efficiente per diversi motivi:
l'arretratezza dei macchinari ereditati dallo zarismo, il sabotaggio
dei capiofficina e dei direttori d'azienda (che per questo furono
perseguitati dal regime), gli scarsi incentivi per gli operai
(razioni insufficienti di pane e militarizzazione dell'apparato
industriale), e gli investimenti nell'industria pesante piuttosto
che su quella leggera.
Quest'ultimo punto merita maggiore attenzione: la rottura dei
rapporti commerciali con il resto del mondo aveva costretto Lenin
a puntare sull'autosufficienza. Questo richiedeva necessariamente
la costruzione dei macchinari pesanti per la meccanizzazione
del sistema agricolo, per la costruzione di altre fabbriche e
per la realizzazione di infrastrutture viarie per il trasporto
di questi macchinari nei luoghi prefissati. L'industria leggera
produsse così poco: la scarsità di maglioni rese
terribili gli inverni russi, la gente moriva come mosche sotto
la neve. (Goehrke, p. 328-332)
Le carestie ed epidemie erano dovute anche alla guerra civile,
che era scoppiata tra il potere sovietico e le province ribelli,
aiutate dalle potenze occidentali in funzione anticomunista.
L'Impero perse province ricche di industrie e materie prime,
come gli Urali, l'area del Volga, la Siberia, il Turkestan, il
Caucaso e il bacino del Donec; soltanto un nono della Russia
europea e un sesto della popolazione rimasero ininterrottamente
sotto controllo, ed inoltre l'industria dovette adattarsi alla
necessità della conduzione della guerra. Una tale forma
organizzativa richiedeva un apparato burocratico gigantesco,
la cui estensione si ampliò infine a tal punto da oscurare
la stessa burocrazia zarista, e la cui gestione sarebbe continuata
anche dopo l'interruzione del conflitto nel 1922. (Goehrke, p.
326-327)
Per colpa anche delle carestie e della guerra civile, la repressione
contro i nemici del regime sovietico divenne sistematica. Ecco
uno schema esemplificativo di quelli che potrebbero essere stati
i principali gruppi di vittime:
- i militanti politici non bolscevichi, dagli anarchici ai monarchici;
- gli operai in lotta per la difesa dei diritti più elementari:
pane, lavoro, un minimo di libertà e di dignità;
- i contadini, spesso disertori, coinvolti in qualcuna delle
innumerevoli insurrezioni contadine o negli ammutinamenti di
unità dell'Armata rossa;
- i cosacchi, deportati in massa perché come gruppo sociale
ed etnico erano considerati ostili al regime;
- gli "elementi estranei alla società" e altri
"nemici del popolo", "sospetti" e "ostaggi"
liquidati "preventivamente", soprattutto durante la
guerra civile. (Courtois, p. 77-78)
Per evitare che anche le altre minoranze etniche succubi alla
dittatura potessero rivendicare l'indipendenza, tutti i governi
comunisti, dal 1919 ai giorni nostri, avrebbero favorito l'immigrazione
interna per diluire ulteriormente queste minoranze, e avrebbero
disperso le nazionalità meno docili attraverso il Paese.
Il caso staliniano, che sarà evidenziato nel prossimo
sotto-paragrafo, ne sarebbe stata solo una manifestazione patologica.
Il nuovo diritto di famiglia, quale venne approvato nel 1920,
concepì la famiglia su basi paritarie uomo-donna, e voleva
essere un'imitazione dei principi della rivoluzione francese.
Si cercò di abolire il matrimonio religioso (le religioni
furono duramente perseguitate) e di concedere alla coppia il
diritto all'aborto, al divorzio e all'assistenza post-parto.
In pratica le durezze della vita e l'ideologia produttivistica
costrinsero le famiglie alla promiscuità, e l'aborto fu
circoscritto dalla necessità di ulteriori braccia e dall'alta
mortalità infantile.
Un aspetto positivo, oltre alla costruzione di ambulatori medici
per le donne operaie incinte, fu il diritto femminile al lavoro,
anche se ciò andò a scapito del legame con i figli.
Questi venivano iscritti, insieme agli orfani ed ai bambini abbandonati,
agli istituti di educazione sociale; l'educazione andava dalla
prima infanzia fino all'età di 16 anni. Qui la prima cosa
che si imparava era l'idea di comunità, contrapposta a
quella di proprietà e di famiglia. (Kollontaj, p. 14-15)
- Secondo caso particolare:
la stalinizzazione
Dopo la morte di Lenin e l'ascesa di Stalin, la politica economica
sovietica mutò: si passò dall'autosufficienza alla
politica di potenza. Gli elementi inscindibili di questo programma
coerente di trasformazione brutale dell'economia e della società
furono tre: la collettivizzazione forzata, la dekulakizzazione
e l'industrializzazione accelerata. (Courtois, p. 133)
Nell'estate del 1932 erano collettivizzate complessivamente circa
15 milioni di aziende contadine, le quali disponevano di quasi
sette decimi dell'intera superficie coltivabile. Nell'intera
Unione Sovietica c'erano ora circa 200 mila aziende collettive
e più di 4 mila fattorie di soviet, mentre le restanti
fattorie individuali erano destinate alla totale rovina. (Goehrke,
p. 365)
La funzione centrale assegnata all'agricoltura, dopo la collettivizzazione,
consisteva nell'approvvigionare in modo regolare e in misura
sufficiente di generi alimentari e di materie prime le città
e i centri industriali, che stavano sviluppandosi rapidamente.
(Goehrke, p. 369)
Complessivamente, la collettivizzazione di massa portò
ad uno sconvolgimento del processo di produzione agricola, che
oscurò tutte le crisi passate, e che fece scendere la
produttività dell'agricoltura addirittura sotto il livello
pietoso del periodo prebellico. La carestia del 1932-33 fece
milioni di vittime. (Goehrke, p. 368)
Le aziende degli strati più ricchi della popolazione rurale,
soprattutto dei kulaki, furono liquidate. La caccia ai cereali
si accompagnò a fenomeni di terrore e controterrore. Nell'inverno
del 1929-30, centinaia di migliaia di famiglie di kulaki furono
deportate nelle regioni periferiche e condannate ai lavori forzati.
Verso il 1940, le deportazioni in massa (non solo di kulaki)
coincidenti con l'epurazione politica raggiunsero dimensioni
ragguardevoli. (Goehrke, p. 360)
La conseguenza più importante della collettivizzazione,
però, fu la massiccia migrazione verso la città
a causa delle carestie e del terrore rosso, ma anche per la necessità
di manodopera industriale. Nel decennio compreso tra il 1929
e il 1939 la popolazione urbana crebbe da 28,7 milioni (19% della
popolazione totale) a 56,1 milioni (33%), mentre nello stesso
tempo la popolazione rurale, nonostante un tasso di natalità
più elevato, calò di 10,2 milioni di individui.
(Goehrke, p. 387)
La politica di industrializzazione ebbe successo dal punto di
vista quantitativo, ma per il resto si rivelò fallimentare:
le risorse naturali ed umane furono sfruttate indiscriminatamente,
si sacrificarono ancora una volta i beni di consumo, non c'era
coordinamento fra le diverse industrie, la qualità dei
beni era pessima, si ebbero fenomeni di ristagno. (Goehrke, p.
383-386)
Anche il diritto di famiglia si aggiornò. Stalin introdusse
molte restrizioni alla libertà sessuale: nel 1936 venne
proibito l'aborto per la prima gravidanza, dal 1944 si abolì
qualsiasi diritto all'aborto legale e si previdero due anni di
reclusione per i medici che continuavano a praticarlo clandestinamente.
Nel 1934 si introdusse una norma che puniva l'omosessualità
con un periodo di reclusione dai tre agli otto anni.
Con la legge matrimoniale del 1935 si stabilì nuovamente
che i genitori "siano responsabili dell'educazione e del
comportamento dei propri figli". La nuova legge per il divorzio
del 1936 stigmatizzò l'errore di "confondere l'infatuazione
con l'amore" e fissò, per la pratica di scioglimento
del matrimonio, una cifra tra i 30 e i 50 rubli. La cifra salì
a 500-2.000 rubli nel 1944. Dal '36 in poi si lanciarono campagne
di onori e decorazioni per le madri prolifiche. (Kollontaj, p.
11)
Nella primavera del 1934 il governo adottò una serie di
provvedimenti repressivi nei confronti dei giovani vagabondi
e delinquenti minorili che, in seguito alla dekulakizzazione,
alla carestia, al generale abbrutimento dei rapporti sociali,
erano sempre più numerosi nelle città. In parallelo
l'NKVD (la polizia sovietica) ebbe l'incarico di riorganizzare
le "case di accoglienza e di residenza obbligata dei minori",
fino ad allora dipendenti dal commissariato del popolo per l'Istruzione,
e di costituire una serie di "colonie di lavoro" destinate
ai minorenni.
Si sarebbe così inaugurata la lunga serie di orfanotrofi,
che avrebbero ospitato non solo i giovani delinquenti e gli orfani,
ma anche in alcuni casi i figli che i regimi comunisti in tutta
l'Europa dell'Est e nella Russia avrebbero sequestrato ai legittimi
genitori. (Courtois, p. 165)
La repressione coinvolse anche molti gruppi etnici, specialmente
durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo il numero
di prigionieri dei gulag crebbe in misura considerevole, passando
da circa 1,2 milioni a oltre 2,5 milioni, in conseguenza dell'arrivo
in massa di centinaia di migliaia di persone deportate in base
a criteri di appartenenza etnica. I prigionieri provenivano soprattutto
dai territori conquistati. Ecco il lungo elenco delle vittime:
finlandesi, polacchi, tedeschi, ceceni, ingusci, tatari di Crimea,
caraciai, balcari, calmucchi, greci, bulgari, armeni di Crimea,
turchi pescheti, curdi, chemscini del Caucaso, ucraini, lituani,
lettoni, estoni. I baltici rappresentavano un quinto del contingente
dei campi. (Courtois, p. 210)
Il Grande terrore cessò solo con la morte di Stalin, avvenuta
nel 1953. I gulag si spopolarono, il sistema penale si addolcì
ma non scomparve, le minoranze etniche poterono far valere i
propri diritti, anche se spesso non ottennero i risultati sperati:
molti non poterono tornare ai territori di origine; quelli che
ci riuscivano si scontravano coi civili russi nel frattempo insediatisi,
e le tensioni si placarono solo quando si costruirono nuovi alloggi.
Per concludere, proviamo a costruire un possibile schema per
il comunismo reale:
|
Motivazioni soggettive |
Motivazioni oggettive |
Politica |
Dittatura |
Burocrazia |
Economia |
Comunità |
Pianificazione |
Società |
Uguaglianza |
Utopia |
Ambiente |
Centralizzazione |
Militarizzazione |
- La struttura geopolitica:
tra etnicismo e globalismo
La struttura fisica e sociale dell'Europa orientale non si discosta
molto dal resto del continente, pertanto ricordiamo qui solo
alcune peculiarità. In Romania vi sono giacimenti di petrolio.
L'Albania ha la densità di popolazione rurale più
alta, per via della struttura economia più debole. Il
crollo della dittatura ha indebolito anche l'apparato poliziesco
onnicomprensivo e repressivo, lasciando alla criminalità
il controllo del territorio.
Nel complesso, solo il 10% degli abitanti è ricco (come
in tutti i Paesi in via di sviluppo, Russia compresa), quanto
al resto le condizioni sociali sono simili all'Europa dopo la
seconda guerra mondiale: orfanotrofi disastrati, molti bambini
sulle strade, manovalanza sottopagata, abitazioni modestissime,
infrastrutture fatiscenti. È solo a poco a poco che la
nuova classe proletaria riesce ad emanciparsi, grazie agli investimenti
di capitale dall'estero, i quali stanno rinnovando l'intero apparato
industriale per renderlo più efficiente e meno inquinante
(come sta capitando anche altrove, con la globalizzazione). Il
numero di figli per donna è in linea con i Paesi industrializzati
tranne nel caso delle minoranze locali, il che non dovrebbe durare
per i prossimi anni.
Qualcosa di più è da dire sull'immenso territorio
russo, il più grande del mondo, anche dopo la perdita
dei territori ad ovest e a sud, e con una delle più basse
densità di popolazione per via delle difficoltà
del suolo.
Sul territorio si succedono varie fasce di vegetazione e vari
ambienti. Da nord a sud, essi sono nell'ordine: la tundra, ossia
il deserto freddo dell'estremo settentrione, dove vivono solo
arbusti bassi e licheni e la fauna è costituita prevalentemente
da renne, pesci e uccelli artici; la taiga, cioè la foresta
di conifere e betulle, dove vivono numerosi animali ricercati
per la loro preziosa pelliccia; la foresta mista con la steppa,
dove si alternano suoli poveri con altri molto più fertili;
la steppa, piatta e senza alberi, che costituisce il paesaggio
naturale più tipico della Russia; le aree semidesertiche
e desertiche nell'area del Caspio. (Forte, p. 267-269)
Le immense foreste del Nord, che coprono oltre il 45% del territorio
dell'intero Paese, e i ricchissimi giacimenti minerari fanno
della Russia un "miracolo geologico". Per questo, l'Occidente
capitalista guarda con molto interesse a quest'area: potrebbe
sostituire l'instabile territorio mediorientale nel ruolo di
fornitore di materie prime, in cambio di prodotti finiti a valore
aggiunto destinati al consumo della classe borghese nascente.
Quanto all'inquinamento la Russia, con il 20% delle risorse idriche
e il 22% delle foreste del mondo, spreca le sue risorse: ogni
giorno il 20% (cioè 20 milioni di tonnellate l'anno) del
petrolio estratto finisce disperso nell'ambiente, e con solo
l'1% del Pil mondiale la nazione produce il 7% delle emissioni
mondiali di biossido di carbonio. (Famiglia cristiana)
La popolazione russa sta diminuendo di 750 mila unità
l'anno: è questo il risultato di una società civile
malata. Il tasso di mortalità maschile sta salendo vertiginosamente,
a causa dell'alcoolismo che ha raggiunto livelli devastanti e
della generale negligenza degli uomini nei confronti della propria
salute. Le donne incinte e i bambini sono poco assistiti, e la
maggior parte dei russi considerano i loro ospedali posti pericolosi,
da evitare a tutti i costi.
La noncurante e aggressiva cultura maschilista russa spaventa
e infastidisce le donne: è molto meglio, a loro parere,
cercare di emigrare o semplicemente non sposarsi e molte, a causa
delle difficoltà economiche, ricorrono alla prostituzione.
Come conseguenza, il tasso di natalità è ormai
ridotto a 1,2 bambini a donna. Qualche attrito è con la
Cina: la sua popolazione in crescita comincia a premere alle
frontiere russe in Siberia e in Asia centrale. (Internazionale)
Ultimo argomento: le centrali nucleari. Ecco la tabella delle
centrali in funzione e quelle che si stanno costruendo, in Europa
orientale e in Russia:
Nazione |
Centrali in funzione |
Centrali in costruzione |
Bulgaria |
6 |
0 |
Ungheria |
4 |
0 |
Lituania |
2 |
0 |
Repubblica Ceca |
5 |
1 |
Romania |
1 |
0 |
Russia |
30 |
3 |
Slovacchia |
6 |
2 |
Slovenia |
1 |
0 |
Ucraina |
13 |
0 |
Bibliografia:
Courtois Stéphane
e altri, Il libro nero del Comunismo, Mondadori '98.
Di Nolfo Ennio, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999,
Laterza '00.
Famiglia Cristiana n. 27/2002, "Il Cremino avvelena anche
te".
Forte Gioacchino e Tanara Urbettazzi Milli, Geografia, vol. 2,
De Agostini '99.
Galasso Giuseppe, Storia d'Europa, Vol.3, Laterza '96.
Giardina A. e altri, L'età contemporanea, Laterza '97.
Goehrke Carsten e altri, Russia, Feltrinelli '77.
Internazionale n. 437, 17 maggio 2002, "La scomparsa silenziosa".
Kollontaj Aleksandra, Comunismo, famiglia, morale sessuale, Savelli
'76.
Pombeni Paolo (a cura di), Introduzione alla storia contemporanea,
Il Mulino '97.
Rémond René, Introduzione alla storia contemporanea,
citato in Giardina, p. 114-115. |