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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

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Capitolo 3

Il terzo mondo

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l) Europa orientale e Russia: un mosaico di etnie - L'Europa orientale fino ai giorni nostri.

Le prime notizie storiche sugli slavi riguardano la loro comparsa, verso il 500 d.C., alle frontiere bizantine del basso Danubio: le invasioni barbariche degli unni e degli avari stavano scatenando quella migrazione dei popoli slavi che avrebbe totalmente modificato il volto etnico dell'Europa a partire dal VI secolo. (Goehrke, p. 22)
Ancora oggi, gli slavi rappresentano il gruppo linguistico indoeuropeo più numeroso del continente: ad oriente russi, ucraini, bielorussi; ad occidente polacchi, cechi, slovacchi, lusaziani o sorabi; a sud bulgari, macedoni, montenegrini, serbo-croati, sloveni.
Nel corso dei secoli sorsero, attraverso le guerre, vari Imperi: l'Impero bizantino nel Mediterraneo, che sarebbe stato sostituito da quello ottomano nel 1453; l'Impero asburgico, che stava riunendo sotto la sua autorità le etnie minacciate dall'espansione araba; lo Stato prussiano (in seguito Impero germanico), sorto in seguito alla guerra dei Trent'anni; l'Impero russo, che era riuscito ad espandersi dopo la parentesi dell'invasione mongola in tutta l'Europa orientale: di questa espansione ne avrebbero fatto le spese la Polonia e gli Stati nord-asiatici.
Le guerre spostavano i confini a nord, a sud, ad ovest, ad est. Le popolazioni locali erano costrette a migrare in continuazione, per non soggiacere ai sempre nuovi conquistatori. Oltre alle migrazioni slave del '500 e a quelle russe in seguito all'invasione mongola, vi erano altri due casi di rilievo: l'espansione dell'Impero russo obbligava i contadini a spostarsi nei territori estremi, quelli non toccati dalle truppe nemiche e meno soggetti alle vessazioni dello zar; nella Penisola balcanica dopo le due battaglie del Kosovo, nel 1389 e approssimativamente nel 1685, i serbi erano stati costretti per ben due volte alla diaspora e la regione divenne territorio albanese.
Siccome i quattro Imperi erano l'emanazione del predominio delle quattro etnie dominanti, araba, austriaca, ariana e russo-bianca, le altre etnie minoritarie avrebbero a poco a poco rivendicato la loro autonomia, fino a raggiungere il culmine nel XIX secolo con i moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848. I capisaldi dell'idea nazionale sarebbero stati tre: la storia, la lingua e la religione.
La storia portava alla riscoperta del passato, alla tradizione del Medioevo. Si rispolveravano le biografie dei propri eroi medioevali, figure leggendarie. La cultura romantica si ispirava al culto degli ideali patriottici; romanticismo significava anche libertà, rottura di norme consolidate, affermazione dell'individuo contro le convenzioni. Nella storia delle rivoluzioni ottocentesche si incontra spesso la figura del patriota che andava a combattere per la libertà degli altri popoli. (Giardina, p. 12-13)
Nello stesso tempo si resuscitava la lingua nazionale, in cui non si vedeva soltanto un mezzo di comunicazione, ma una struttura mentale, grazie alla quale un popolo conservava la propria anima. Nel XIX secolo, la lingua assumeva un'importanza crescente sia nelle ricerche erudite, sia nelle lotte politiche. Filologi e grammatici si sforzavano di ritrovare la lingua originale, di epurarla e di elevarla ad un rango culturale.
Le religioni diventavano la linea di resistenza del particolarismo contro il dominatore. Era il caso della lotta dei cristiani balcanici contro l'Impero ottomano, degli slavi ortodossi - soprattutto serbi - contro l'Austria o l'Ungheria cattoliche. Era ancora il caso della Polonia cattolica contro la Russia ortodossa o la Prussia luterana. (Rémond)
Soltanto la Grecia (che ottenne l'indipendenza dall'Impero ottomano) e l'Ungheria (che avrebbe ottenuto l'autonomia all'interno dell'Impero austro-ungarico) ebbero successo. Per il resto, i moti rivoluzionari furono duramente repressi. L'Italia e la Germania costituiscono casi a parte.
Occorreva aspettare la prima guerra mondiale, la cui causa principale fu presumibilmente l'ambizione dei serbi di costruire uno Stato autonomo e inglobante le altre etnie, per vedere la fine contemporanea dei tre Imperi multinazionali (quello austro-ungarico, quello russo e quello germanico) e la crisi mortale verso la quale era avviato l'Impero ottomano, oltre che l'ascesa del comunismo (vedere più avanti).
Ma gli Stati che nascevano non riuscivano ad esercitare pienamente il loro potere. Nell'Europa centrale e in quella danubiano-balcanica la storia aveva lavorato in profondità ed i gruppi etnici o le culture nazionali si erano così inestricabilmente mescolati che, qualsiasi soluzione fosse stata adottata, sarebbero rimaste rivendicazioni insoddisfatte e nuove ragioni di crisi sarebbero state seminate. (Di Nolfo, p. 50)
La disgregazione dell'Impero austro-ungarico aveva aperto la via alla rinascita della Polonia, dopo l'ingiusta spartizione subita nel XVIII secolo. Così, mentre il confine meridionale era abbastanza chiaramente definito grazie alla geografia, che lo situava sul crinale della catena carpatica, tutti gli altri confini erano materia di discussione.
La questione del confine orientale era indissolubilmente legata alla situazione sovietica. Dopo due anni di guerra, nell'ottobre 1920 si arrivò ad un armistizio che lasciava ai sovietici gran parte dell'Ucraina, ma concedeva alla Polonia estesi territori, abitati da ucraini e bielorussi, lungo una linea di confine che sarebbe durata fino alla seconda guerra mondiale.
Ad occidente, la Polonia aveva acquistato la Galizia austriaca ed i territori tedeschi dell'Alta Slesia e della Pomerania, dove fu costruito un "corridoio" per uno sbocco sul Mar Baltico, separando così la Germania dal suo naturale prolungamento ad oriente. (Di Nolfo, p. 53-54)
Al confine sud-orientale della Germania nasceva, sulle rovine dell'Impero asburgico, la Cecoslovacchia. Il nazionalismo boemo coronava la sua azione pluridecennale e l'attività svolta durante la guerra: la Boemia-Moravia, dall'antica tradizione culturale e dall'avanzato sviluppo industriale, si univa alla Slovacchia, ancora prevalentemente agricola e dominata dal clero cattolico. Alla base dell'unione vi era un impegno al riconoscimento dell'autonomia slovacca, che i boemi non avrebbero poi molto rispettato e che fu motivo di permanenti contrasti tra le due comunità. Inoltre l'omogeneità del nuovo Stato era minata dal fatto che esso aveva inglobato tutti i territori abitati da popolazioni germaniche prima appartenenti all'Impero asburgico, nella regione dei Sudeti.
I nuovi confini tedeschi erano poi delimitati (ma non modificati territorialmente) a sud dell'Austria. La nascita della Repubblica austriaca era il segno più vistoso della rottura rispetto al passato. La distruzione del vecchio sistema trovava il suo simbolo nella creazione di questo piccolo Stato di poco più che 6 milioni e mezzo di abitanti, un quarto dei quali concentrato nella capitale di Vienna. (Di Nolfo, p. 55-56)
Nei Balcani, gli esponenti dei gruppi etnici degli slavi del sud avevano concordato (con il Patto di Corfù del 20 luglio 1917) la creazione di uno Stato indipendente, la cui struttura etnica era caratterizzata dalla presenza almeno dei tre maggiori gruppi nazionali (serbi, croati e sloveni) e da quella di montenegrini, macedoni, albanesi, ungheresi ed italiani, che davano al nuovo Stato un carattere di provvisorietà che solo dall'esterno avrebbe potuto essere sorretto.
La Romania, che era stata sconfitta sul campo dagli austro-tedeschi e costretta alla pace umiliante del 7 maggio 1918, afferrò al volo l'occasione della dissoluzione dell'Impero asburgico e della crisi russa per allargarsi a tutta la Transilvania, abitata in gran parte da ungheresi e tedeschi, la Bessarabia e la Bucovina, tolte all'Ucraina, e la Dobrugia meridionale, tolta alla Bulgaria. Nasceva così un altro Stato plurinazionale, dando luogo ad una situazione paradossale: quella per cui solo i paesi vinti diventavano etnicamente omogenei, l'Ungheria e la Bulgaria. (Di Nolfo, p. 59)
L'Albania era un territorio spartito da gruppi feudali e politici rivali, su cui avrebbero speculato l'Italia e la Jugoslavia, ciascuno tirando acqua al proprio mulino. (Di Nolfo, p. 72)
A tutto ciò bisognava aggiungere le rivalità che opponevano i vari Stati. C'era l'attivismo revisionistico ungherese; in Austria il regime democratico stentava a consolidarsi; la Bulgaria, isolata dal resto della penisola balcanica come nemico tradizionale, alimentava sia un generale orientamento revisionistico, sia una vera e propria guerra di bande che operavano soprattutto nella Macedonia jugoslava e greca; lo scontro tra greci e jugoslavi era gravido di conseguenze. (Di Nolfo, p. 74)
I complicati giochi diplomatici che seguirono, sui quali non ci soffermeremo, confermavano la precarietà del nuovo assetto, aprendo la strada al revisionismo tedesco ed alle ambizioni hitleriane: la presenza di cospicue minoranze ariane negli altri territori dell'Europa orientale sarebbe stata un'ottima giustificazione per l'occupazione di questi territori, fino alla sconfitta del 1943. Vale la pena ricordare, a questo proposito, le persecuzioni subite dagli slavi sotto il dominio nazista: gli slavi non erano considerati fondamentalmente pericolosi come gli ebrei, ma erano destinati a costituire un'immensa riserva di manodopera servile - sorte cui milioni di loro incapparono.
L'avanzata sovietica fino a Berlino avrebbe permesso, nei decenni successivi, all'Urss di instaurare la dittatura comunista negli Stati conquistati. Questi ultimi subirono poche modifiche territoriali rispetto alla guerra precedente: l'Unione Sovietica allargò i suoi confini ad ovest, i tedeschi fuggirono in massa nel suolo germanico, mentre gli ebrei migrarono, sempre in massa, verso Israele.
Sul piano socio-economico, la dittatura comunista significava quattro cose: stagnazione, sfruttamento imperiale delle risorse, ridimensionamento delle rivendicazioni etniche e dura repressione dei tentativi insurrezionali.
La crisi del blocco sovietico cominciò negli anni 80. Da un lato, l'ascesa del movimento sindacale polacco di ispirazione fortemente cattolica, Solidarnosc; dall'altro l'avvento al potere in Urss di Michail Gorbaciov, che poneva il problema di una ristrutturazione (perestrojka) del regime e di un suo avvio a una trasparenza politica (glasnost').
Nel 1989-90 una serie di movimenti investì l'intero universo comunista, provocando la fine della Repubblica tedesco-orientale e la caduta dei regimi vigenti dalla Polonia alla Cecoslovacchia, dall'Ungheria alla Romania, dalla Bulgaria all'Albania. Un effetto di non secondaria importanza sarebbe stato il flusso massiccio di popolazioni da est ad ovest del continente: questo flusso è, oggi, rallentato dagli accordi per l'allargamento dell'Unione Europea.
Nell'Urss stessa, dove Gorbaciov fu alla fine rapidamente superato dagli eventi e dovette ritirarsi, si delinearono fortissime agitazioni e contrasti etnici e nazionali nei paesi baltici, nel Caucaso, in Moldavia e anche in Ucraina e Russia bianca, che tutti rivendicarono e conseguirono l'indipendenza. Si giunse, così, allo scioglimento (nel 1992, dopo settant'anni) dell'Unione Sovietica e alla sua sostituzione con una molto evanescente Comunità di Stati Indipendenti.
Un'analoga indipendenza sarebbe avvenuta nella parte asiatica della Federazione Russa, nei territori di: Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. In Tagikistan prima, in Cecenia dopo sarebbero scoppiate delle guerre (la prima è ormai terminata, mentre la seconda è ancora in corso). La posta in gioco è, ora, l'indipendenza del popolo ceceno. La Russia non può accettare la richiesta di indipendenza per motivi economici (le riserve petrolifere), ma soprattutto per motivi sociali: l'indipendenza di una regione potrebbe fungere da vaso di Pandora per la richiesta d'indipendenza di altre minoranze, e minacciare così l'integrità stessa del territorio proprio mentre si sta avviando faticosamente un processo di modernizzazione. (Galasso, p. 482)
Come si evince dall'esempio russo, la conseguenza più importante del fallimento del comunismo reale è stata, ed è tutt'ora, la crisi dello Stato nazionale. Secessioni ed autonomie sono rivendicate per popolazioni, di cui si proclama che erano esse stesse nazioni. Una conferma se ne ha nella simultanea rivendicazione della dignità di lingua per quelli che, fino a poco prima, l'opinione generale considerava e definiva "dialetti". E una conferma ulteriore se ne può forse avere nel mito delle "radici", delle "tradizioni", delle "culture locali".
I contrasti territoriali tra i paesi confinanti (Ungheria e Romania per la Transilvania, Jugoslavia e Albania per il Kosovo) mantengono tensioni non sottovalutabili, ridimensionati solo dal fatto che, come abbiamo già visto, la seconda guerra mondiale, con i conseguenti flussi migratori delle minoranze locali perseguitate, aveva reso alcuni di questi Paesi più "nazionali".
In Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 non sarebbe stato possibile mantenere l'equilibrio da lui voluto e garantito, lo Stato federale si è dissolto e attraverso conflitti sanguinosissimi si è affermata l'indipendenza di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina, mentre sono rimasti uniti col nome di Jugoslavia solo Serbia e Montenegro. (Galasso, p. 493-494)
La recente guerra del Kosovo e i focolai nelle altre regioni balcaniche dovrebbero confermare il loro carattere di guerre tradizionali, dato che le varie etnie, albanese, serba, macedone e così via, ragionano secondo la concezione patriarcale della storia: dappertutto si disegnano cartine geografiche inglobanti anche i confratelli perseguitati dagli Stati confinanti in quanto minoranze (cartina panalbanese, panserba…), si invocano pulizie etniche, si cerca nella storia la dimostrazione della propria superiorità e della benedizione divina, si mantiene un'alta prolificità come arma di difesa…
Non a caso, gli Stati Uniti hanno messo in primo piano la questione balcanica in questi anni: Milosevic e gli altri protagonisti della guerra in Jugoslavia e delle guerre recenti, sono visti come residuati del sistema patriarcale, e in quanto incompatibili con il processo di globalizzazione (o meglio di americanizzazione) sono considerati una minaccia, almeno finché stanno al potere o ambiscono a riottenerlo. La giustificazione umanitaria della guerra del Kosovo non convince, se la si confronta con l'inezia di fronte al genocidio ceceno o a quello di Timor Est.
Adesso approfondiamo due casi particolari: la rivoluzione comunista in Russia e la stalinizzazione. Questo excursus storico ci servirà per comprendere un quarto modello di sviluppo (comunista), dopo aver conosciuto gli altri tre nei paragrafi precedenti (tribale, feudale e capitalista). Ma ci serve anche perché spiega benissimo le leggi di natura che regolano il rapporto città-campagna, così fondamentali per il tema della popolazione.

- Primo caso particolare: la rivoluzione comunista
La conseguenza più importante della prima guerra mondiale era stato l'avvento del comunismo in Russia. I bolscevichi avevano ereditato un territorio molto arretrato rispetto agli Stati occidentali: l'80% dei 170 milioni di abitanti che popolavano la Russia nel 1913 viveva nelle campagne, senza dimenticare poi che lo sviluppo urbano del paese era stato assai tardivo e ridotto. Quando nel 1880 San Pietroburgo aveva raggiunto il milione di abitanti, Londra ne aveva già 5 e Parigi 2,5. Nel 1920, la quota di popolazione urbana superava a malapena il 15% del computo totale.
Più di 40 milioni di contadini facevano parte della categoria dei servi della gleba, quindi appartenevano allo Stato o a proprietari terrieri. Essi erano costretti a prestazioni di lavoro obbligatorie, le cosiddette corvées (in russo baršcina), oppure al pagamento di un tributo in natura o in denaro (obrok). La legge del 3 marzo 1861, il manifesto firmato dallo zar Alessandro II per l'emancipazione dei contadini, si era rivelata una riforma abortita.
La rivoluzione del 1917 sembrò trasformare in realtà il perenne desiderio dei contadini russi: la cessione della proprietà della terra a chi realmente la coltivava. Per questo, perlomeno nelle prime fasi, i contadini appoggiarono il potere bolscevico. (Pombeni, p. 243-244)
I problemi del nuovo Stato, che nel 1922 si sarebbe chiamato Urss (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), furono cinque: l'interruzione dei rapporti tra città e campagna, la guerra civile, la persecuzione delle classi ricche, l'immigrazione interna e il nuovo diritto di famiglia.
Già subito dopo la rivoluzione era stata legalizzata l'occupazione contadina della terra (legge fondiaria del 1918). La parcellizzazione della proprietà avrebbe limitato la produzione agricola nei decenni successivi, e i governi comunisti si sarebbero visti costretti tra due scelte: ripristinare il mercato oppure confiscare i prodotti con la forza e il terrore di massa.
Si scelse la seconda soluzione, e i risultati furono catastrofici perché i contadini in questo modo non erano incoraggiati a coltivare che limitatamente per la propria sussistenza. Gli incentivi non venivano neanche dall'industria: siccome non si riusciva a produrre manufatti e beni di prima necessità per i contadini, questi interruppero ogni rapporto con la città, non fornirono più agli operai e alla popolazione urbana merce di scambio. Nelle città si patì la fame e molti migrarono nelle campagne. (Goehrke, p. 316-325)
L'industria non riusciva ad esser efficiente per diversi motivi: l'arretratezza dei macchinari ereditati dallo zarismo, il sabotaggio dei capiofficina e dei direttori d'azienda (che per questo furono perseguitati dal regime), gli scarsi incentivi per gli operai (razioni insufficienti di pane e militarizzazione dell'apparato industriale), e gli investimenti nell'industria pesante piuttosto che su quella leggera.
Quest'ultimo punto merita maggiore attenzione: la rottura dei rapporti commerciali con il resto del mondo aveva costretto Lenin a puntare sull'autosufficienza. Questo richiedeva necessariamente la costruzione dei macchinari pesanti per la meccanizzazione del sistema agricolo, per la costruzione di altre fabbriche e per la realizzazione di infrastrutture viarie per il trasporto di questi macchinari nei luoghi prefissati. L'industria leggera produsse così poco: la scarsità di maglioni rese terribili gli inverni russi, la gente moriva come mosche sotto la neve. (Goehrke, p. 328-332)
Le carestie ed epidemie erano dovute anche alla guerra civile, che era scoppiata tra il potere sovietico e le province ribelli, aiutate dalle potenze occidentali in funzione anticomunista. L'Impero perse province ricche di industrie e materie prime, come gli Urali, l'area del Volga, la Siberia, il Turkestan, il Caucaso e il bacino del Donec; soltanto un nono della Russia europea e un sesto della popolazione rimasero ininterrottamente sotto controllo, ed inoltre l'industria dovette adattarsi alla necessità della conduzione della guerra. Una tale forma organizzativa richiedeva un apparato burocratico gigantesco, la cui estensione si ampliò infine a tal punto da oscurare la stessa burocrazia zarista, e la cui gestione sarebbe continuata anche dopo l'interruzione del conflitto nel 1922. (Goehrke, p. 326-327)
Per colpa anche delle carestie e della guerra civile, la repressione contro i nemici del regime sovietico divenne sistematica. Ecco uno schema esemplificativo di quelli che potrebbero essere stati i principali gruppi di vittime:
- i militanti politici non bolscevichi, dagli anarchici ai monarchici;
- gli operai in lotta per la difesa dei diritti più elementari: pane, lavoro, un minimo di libertà e di dignità;
- i contadini, spesso disertori, coinvolti in qualcuna delle innumerevoli insurrezioni contadine o negli ammutinamenti di unità dell'Armata rossa;
- i cosacchi, deportati in massa perché come gruppo sociale ed etnico erano considerati ostili al regime;
- gli "elementi estranei alla società" e altri "nemici del popolo", "sospetti" e "ostaggi" liquidati "preventivamente", soprattutto durante la guerra civile. (Courtois, p. 77-78)
Per evitare che anche le altre minoranze etniche succubi alla dittatura potessero rivendicare l'indipendenza, tutti i governi comunisti, dal 1919 ai giorni nostri, avrebbero favorito l'immigrazione interna per diluire ulteriormente queste minoranze, e avrebbero disperso le nazionalità meno docili attraverso il Paese. Il caso staliniano, che sarà evidenziato nel prossimo sotto-paragrafo, ne sarebbe stata solo una manifestazione patologica.
Il nuovo diritto di famiglia, quale venne approvato nel 1920, concepì la famiglia su basi paritarie uomo-donna, e voleva essere un'imitazione dei principi della rivoluzione francese. Si cercò di abolire il matrimonio religioso (le religioni furono duramente perseguitate) e di concedere alla coppia il diritto all'aborto, al divorzio e all'assistenza post-parto. In pratica le durezze della vita e l'ideologia produttivistica costrinsero le famiglie alla promiscuità, e l'aborto fu circoscritto dalla necessità di ulteriori braccia e dall'alta mortalità infantile.
Un aspetto positivo, oltre alla costruzione di ambulatori medici per le donne operaie incinte, fu il diritto femminile al lavoro, anche se ciò andò a scapito del legame con i figli. Questi venivano iscritti, insieme agli orfani ed ai bambini abbandonati, agli istituti di educazione sociale; l'educazione andava dalla prima infanzia fino all'età di 16 anni. Qui la prima cosa che si imparava era l'idea di comunità, contrapposta a quella di proprietà e di famiglia. (Kollontaj, p. 14-15)

- Secondo caso particolare: la stalinizzazione
Dopo la morte di Lenin e l'ascesa di Stalin, la politica economica sovietica mutò: si passò dall'autosufficienza alla politica di potenza. Gli elementi inscindibili di questo programma coerente di trasformazione brutale dell'economia e della società furono tre: la collettivizzazione forzata, la dekulakizzazione e l'industrializzazione accelerata. (Courtois, p. 133)
Nell'estate del 1932 erano collettivizzate complessivamente circa 15 milioni di aziende contadine, le quali disponevano di quasi sette decimi dell'intera superficie coltivabile. Nell'intera Unione Sovietica c'erano ora circa 200 mila aziende collettive e più di 4 mila fattorie di soviet, mentre le restanti fattorie individuali erano destinate alla totale rovina. (Goehrke, p. 365)
La funzione centrale assegnata all'agricoltura, dopo la collettivizzazione, consisteva nell'approvvigionare in modo regolare e in misura sufficiente di generi alimentari e di materie prime le città e i centri industriali, che stavano sviluppandosi rapidamente. (Goehrke, p. 369)
Complessivamente, la collettivizzazione di massa portò ad uno sconvolgimento del processo di produzione agricola, che oscurò tutte le crisi passate, e che fece scendere la produttività dell'agricoltura addirittura sotto il livello pietoso del periodo prebellico. La carestia del 1932-33 fece milioni di vittime. (Goehrke, p. 368)
Le aziende degli strati più ricchi della popolazione rurale, soprattutto dei kulaki, furono liquidate. La caccia ai cereali si accompagnò a fenomeni di terrore e controterrore. Nell'inverno del 1929-30, centinaia di migliaia di famiglie di kulaki furono deportate nelle regioni periferiche e condannate ai lavori forzati. Verso il 1940, le deportazioni in massa (non solo di kulaki) coincidenti con l'epurazione politica raggiunsero dimensioni ragguardevoli. (Goehrke, p. 360)
La conseguenza più importante della collettivizzazione, però, fu la massiccia migrazione verso la città a causa delle carestie e del terrore rosso, ma anche per la necessità di manodopera industriale. Nel decennio compreso tra il 1929 e il 1939 la popolazione urbana crebbe da 28,7 milioni (19% della popolazione totale) a 56,1 milioni (33%), mentre nello stesso tempo la popolazione rurale, nonostante un tasso di natalità più elevato, calò di 10,2 milioni di individui. (Goehrke, p. 387)
La politica di industrializzazione ebbe successo dal punto di vista quantitativo, ma per il resto si rivelò fallimentare: le risorse naturali ed umane furono sfruttate indiscriminatamente, si sacrificarono ancora una volta i beni di consumo, non c'era coordinamento fra le diverse industrie, la qualità dei beni era pessima, si ebbero fenomeni di ristagno. (Goehrke, p. 383-386)
Anche il diritto di famiglia si aggiornò. Stalin introdusse molte restrizioni alla libertà sessuale: nel 1936 venne proibito l'aborto per la prima gravidanza, dal 1944 si abolì qualsiasi diritto all'aborto legale e si previdero due anni di reclusione per i medici che continuavano a praticarlo clandestinamente. Nel 1934 si introdusse una norma che puniva l'omosessualità con un periodo di reclusione dai tre agli otto anni.
Con la legge matrimoniale del 1935 si stabilì nuovamente che i genitori "siano responsabili dell'educazione e del comportamento dei propri figli". La nuova legge per il divorzio del 1936 stigmatizzò l'errore di "confondere l'infatuazione con l'amore" e fissò, per la pratica di scioglimento del matrimonio, una cifra tra i 30 e i 50 rubli. La cifra salì a 500-2.000 rubli nel 1944. Dal '36 in poi si lanciarono campagne di onori e decorazioni per le madri prolifiche. (Kollontaj, p. 11)
Nella primavera del 1934 il governo adottò una serie di provvedimenti repressivi nei confronti dei giovani vagabondi e delinquenti minorili che, in seguito alla dekulakizzazione, alla carestia, al generale abbrutimento dei rapporti sociali, erano sempre più numerosi nelle città. In parallelo l'NKVD (la polizia sovietica) ebbe l'incarico di riorganizzare le "case di accoglienza e di residenza obbligata dei minori", fino ad allora dipendenti dal commissariato del popolo per l'Istruzione, e di costituire una serie di "colonie di lavoro" destinate ai minorenni.
Si sarebbe così inaugurata la lunga serie di orfanotrofi, che avrebbero ospitato non solo i giovani delinquenti e gli orfani, ma anche in alcuni casi i figli che i regimi comunisti in tutta l'Europa dell'Est e nella Russia avrebbero sequestrato ai legittimi genitori. (Courtois, p. 165)
La repressione coinvolse anche molti gruppi etnici, specialmente durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo il numero di prigionieri dei gulag crebbe in misura considerevole, passando da circa 1,2 milioni a oltre 2,5 milioni, in conseguenza dell'arrivo in massa di centinaia di migliaia di persone deportate in base a criteri di appartenenza etnica. I prigionieri provenivano soprattutto dai territori conquistati. Ecco il lungo elenco delle vittime: finlandesi, polacchi, tedeschi, ceceni, ingusci, tatari di Crimea, caraciai, balcari, calmucchi, greci, bulgari, armeni di Crimea, turchi pescheti, curdi, chemscini del Caucaso, ucraini, lituani, lettoni, estoni. I baltici rappresentavano un quinto del contingente dei campi. (Courtois, p. 210)
Il Grande terrore cessò solo con la morte di Stalin, avvenuta nel 1953. I gulag si spopolarono, il sistema penale si addolcì ma non scomparve, le minoranze etniche poterono far valere i propri diritti, anche se spesso non ottennero i risultati sperati: molti non poterono tornare ai territori di origine; quelli che ci riuscivano si scontravano coi civili russi nel frattempo insediatisi, e le tensioni si placarono solo quando si costruirono nuovi alloggi.
Per concludere, proviamo a costruire un possibile schema per il comunismo reale:

  Motivazioni soggettive Motivazioni oggettive
 Politica  Dittatura  Burocrazia
 Economia  Comunità  Pianificazione
 Società  Uguaglianza  Utopia
 Ambiente  Centralizzazione  Militarizzazione

- La struttura geopolitica: tra etnicismo e globalismo
La struttura fisica e sociale dell'Europa orientale non si discosta molto dal resto del continente, pertanto ricordiamo qui solo alcune peculiarità. In Romania vi sono giacimenti di petrolio. L'Albania ha la densità di popolazione rurale più alta, per via della struttura economia più debole. Il crollo della dittatura ha indebolito anche l'apparato poliziesco onnicomprensivo e repressivo, lasciando alla criminalità il controllo del territorio.
Nel complesso, solo il 10% degli abitanti è ricco (come in tutti i Paesi in via di sviluppo, Russia compresa), quanto al resto le condizioni sociali sono simili all'Europa dopo la seconda guerra mondiale: orfanotrofi disastrati, molti bambini sulle strade, manovalanza sottopagata, abitazioni modestissime, infrastrutture fatiscenti. È solo a poco a poco che la nuova classe proletaria riesce ad emanciparsi, grazie agli investimenti di capitale dall'estero, i quali stanno rinnovando l'intero apparato industriale per renderlo più efficiente e meno inquinante (come sta capitando anche altrove, con la globalizzazione). Il numero di figli per donna è in linea con i Paesi industrializzati tranne nel caso delle minoranze locali, il che non dovrebbe durare per i prossimi anni.
Qualcosa di più è da dire sull'immenso territorio russo, il più grande del mondo, anche dopo la perdita dei territori ad ovest e a sud, e con una delle più basse densità di popolazione per via delle difficoltà del suolo.
Sul territorio si succedono varie fasce di vegetazione e vari ambienti. Da nord a sud, essi sono nell'ordine: la tundra, ossia il deserto freddo dell'estremo settentrione, dove vivono solo arbusti bassi e licheni e la fauna è costituita prevalentemente da renne, pesci e uccelli artici; la taiga, cioè la foresta di conifere e betulle, dove vivono numerosi animali ricercati per la loro preziosa pelliccia; la foresta mista con la steppa, dove si alternano suoli poveri con altri molto più fertili; la steppa, piatta e senza alberi, che costituisce il paesaggio naturale più tipico della Russia; le aree semidesertiche e desertiche nell'area del Caspio. (Forte, p. 267-269)
Le immense foreste del Nord, che coprono oltre il 45% del territorio dell'intero Paese, e i ricchissimi giacimenti minerari fanno della Russia un "miracolo geologico". Per questo, l'Occidente capitalista guarda con molto interesse a quest'area: potrebbe sostituire l'instabile territorio mediorientale nel ruolo di fornitore di materie prime, in cambio di prodotti finiti a valore aggiunto destinati al consumo della classe borghese nascente.
Quanto all'inquinamento la Russia, con il 20% delle risorse idriche e il 22% delle foreste del mondo, spreca le sue risorse: ogni giorno il 20% (cioè 20 milioni di tonnellate l'anno) del petrolio estratto finisce disperso nell'ambiente, e con solo l'1% del Pil mondiale la nazione produce il 7% delle emissioni mondiali di biossido di carbonio. (Famiglia cristiana)
La popolazione russa sta diminuendo di 750 mila unità l'anno: è questo il risultato di una società civile malata. Il tasso di mortalità maschile sta salendo vertiginosamente, a causa dell'alcoolismo che ha raggiunto livelli devastanti e della generale negligenza degli uomini nei confronti della propria salute. Le donne incinte e i bambini sono poco assistiti, e la maggior parte dei russi considerano i loro ospedali posti pericolosi, da evitare a tutti i costi.
La noncurante e aggressiva cultura maschilista russa spaventa e infastidisce le donne: è molto meglio, a loro parere, cercare di emigrare o semplicemente non sposarsi e molte, a causa delle difficoltà economiche, ricorrono alla prostituzione. Come conseguenza, il tasso di natalità è ormai ridotto a 1,2 bambini a donna. Qualche attrito è con la Cina: la sua popolazione in crescita comincia a premere alle frontiere russe in Siberia e in Asia centrale. (Internazionale)
Ultimo argomento: le centrali nucleari. Ecco la tabella delle centrali in funzione e quelle che si stanno costruendo, in Europa orientale e in Russia:

Nazione

Centrali in funzione

Centrali in costruzione
 Bulgaria

6

0
 Ungheria

4

0
 Lituania

2

0
 Repubblica Ceca

5

1
 Romania

1

0
 Russia

30

3
 Slovacchia

6

2
 Slovenia

1

0
 Ucraina

13

0

Bibliografia:
Courtois Stéphane e altri, Il libro nero del Comunismo, Mondadori '98.
Di Nolfo Ennio, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza '00.
Famiglia Cristiana n. 27/2002, "Il Cremino avvelena anche te".
Forte Gioacchino e Tanara Urbettazzi Milli, Geografia, vol. 2, De Agostini '99.
Galasso Giuseppe, Storia d'Europa, Vol.3, Laterza '96.
Giardina A. e altri, L'età contemporanea, Laterza '97.
Goehrke Carsten e altri, Russia, Feltrinelli '77.
Internazionale n. 437, 17 maggio 2002, "La scomparsa silenziosa".
Kollontaj Aleksandra, Comunismo, famiglia, morale sessuale, Savelli '76.
Pombeni Paolo (a cura di), Introduzione alla storia contemporanea, Il Mulino '97.
Rémond René, Introduzione alla storia contemporanea, citato in Giardina, p. 114-115.

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