Abbiamo presentato la società
patriarcale come un ordine statico, tuttavia tale staticità
si fondava su un presupposto palesemente falso. Immutabilità
è sinonimo di perfezione. Solo una società perfetta,
o sul punto di diventarlo, non aspira alla novità o non
si fa risucchiare nel vortice di avvenimenti imprevisti o non
voluti. Il sistema patriarcale era tutt'altro che regolato: ritorniamo
alle carestie, pestilenze, guerre, colpi di Stato
Come risultato, l'intera struttura oscillava tra due tendenze
all'apparenza inconciliabili: la conservazione delle basi su
cui si fondava il potere aristocratico (agricoltura, ereditarietà
delle cariche, religione) e il progresso (scoperte scientifiche,
sviluppo industriale, codificazione del diritto).
Fino alla rivoluzione industriale, il processo di modernizzazione
era stato lento, si era sviluppato solo in casi di necessità
(il miglioramento delle tecniche agricole) o grazie all'abilità
dei pochi coraggiosi che avevano osato sfidare l'ordine costituito
(Galileo Galilei, Cristoforo Colombo, Martin Lutero
).
L'essenza di tutto il processo era la città: in un ordine
statico, l'ambiente urbano era l'unico a presentare elementi
di dinamicità. Il risultato finale, che analizzeremo meglio
nei prossimi capitoli, quando studieremo la popolazione contemporanea
nei Paesi sviluppati, è la cosiddetta "famiglia nucleare",
padre, madre, due figli, conformismo borghese, liberalità
dei costumi, mentalità aperta
Abbiamo già incontrato questa definizione ("famiglia
nucleare") parlando del Vicino Oriente antico. Abbiamo osservato
anche che il sistema urbano era più legato al mondo esterno,
ai commerci e al confronto culturale, alle novità, mentre
il villaggio rurale era più chiuso, diffidente. La campagna
era il luogo del sacrificio, e i valori fondanti erano Dio, patria
e famiglia; si contrapponeva la città, luogo del denaro,
dell'educazione e del divertimento.
La città produceva nuovi mestieri che non avevano nulla
a che fare con la terra, con il lavoro dei campi, con le alternanze
della vita rurale, con il tran-tran campestre, con la vita del
villaggio contadino. Si poteva sbarcare il lunario senza arare
il terreno e senza vivere in campagna.
E poiché c'era tanta gente disposta o costretta a lavorare
la terra in qualità di coloni, braccianti, vassalli o
schiavi, ecco che le classi dominanti (re, sacerdoti, caste privilegiate)
e quelle che facevano mestieri non agricoli (commercianti, artigiani,
burocrati, maghi, soldati, finanzieri, postini, trasportatori,
architetti, perfino barbieri) finivano con l'organizzarsi e l'aggregarsi
per costruire la città, per vivere in città.
Non c'era più motivo perché stessero nel villaggio
contadino, e ce n'erano tanti perché si trasferissero
nell'agglomerato urbano dove nacquero il mercato, lo scambio,
il potere, la spesa pubblica, la burocrazia, la corte del monarca,
il commercio, e non soltanto dei beni prodotti dalla terra. (Pasquarelli,
p. 136)
Siccome i nobili e i re erano anche capi religiosi, le città
nella preistoria erano definite "dimore degli dei".
Una definizione che avrebbe affascinato nei secoli successivi.
Il contesto urbano era densamente popolato. Probabilmente Platone,
nel coniare il termine "pianificazione familiare",
era rimasto influenzato da tale elemento: anche lui in fondo
viveva in un ambiente urbano, la polis greca. "Lasceremo
decidere ai governanti il numero dei matrimoni, per mantenere
invariato, se possibile, il numero delle persone, tenendo conto
di guerre, malattie e altri flagelli simili, sì che lo
Stato non aumenti né rimpicciolisca". (Platone, p.
391)
Mentre la campagna non aveva confini ideali, la città
era sempre stata costruita intorno a un perimetro, con limiti
precisi che mutavano solo eccezionalmente (al contrario delle
metropoli contemporanee). Si può dire che soltanto la
forte mortalità delle società precapitalistiche
mantenesse alto il numero delle nascite.
Fino alla fine del 1700 la città era un'eccezione. In
tutto il mondo, il tasso di urbanizzazione si aggirava intorno
al 10%. Pochi Paesi avevano una concentrazione eccezionale: le
Fiandre, dove si valuta la popolazione urbana intorno al 50%
del totale, la pianura padana, l'Italia centrale, la costa francese
del mediterraneo, dove il tasso arrivava forse al 30-40% (è
ancora la percentuale fornita dai censimenti e dalle inchieste
durante l'Impero); l'Inghilterra raggiungerebbe il 30%, la Francia
dell'ancien régime il 16-18%.
Al di qua di questa urbanizzazione, ineguale per densità
a seconda dei Paesi e delle civiltà, si situava una miriade
di piccole città di qualche migliaio di abitanti. Sullo
sfondo si staccavano le città più famose, l'importanza
di ciascuna delle quali era decisamente superiore al tasso di
urbanizzazione.
Era il caso in particolare delle grandi città dell'Asia,
quasi un mondo giustapposto a quello delle campagne e degli itinerari.
All'inizio del 1700, Istanbul poteva arrivare a 700 mila abitanti,
Pechino ad alcuni milioni, Tokio forse a 4 milioni all'interno
di un paese in corso di rapida urbanizzazione fin dal XVII secolo.
In Occidente, le dimensioni del fenomeno erano minori: città
capitali di Stati nazionali come Londra e Parigi si staccavano
dalle altre, la prima con 86 mila abitanti, la seconda con 690
mila alla vigilia della rivoluzione. Le piazze commerciali più
o meno prestigiose, che erano sede di attività politica
legata all'esistenza di uno Stato sviluppato, arrivavano nel
migliore dei casi a 100 o 200 mila abitanti. (Enciclopedia, p.
10-11)
In sintesi, la consistenza relativa della popolazione urbana
non poteva superare una data proporzione della popolazione totale
(il 20-25%), e le città non potevano superare determinate
dimensioni dal punto di vista demografico. Questi due limiti
erano, infatti, essenzialmente la conseguenza diretta della consistenza
relativa dell'eccedente agricolo.
La percentuale era incostante, legata com'era alle fasi cicliche
di ascesa e crollo della popolazione. La città preindustriale
aveva bisogno di riserve cui attingere per compensare l'eccessiva
mortalità dell'epoca. La città era la prima in
genere a subire gli effetti delle crisi alimentari e delle epidemie;
in seguito si svuotava, seguendo il ritmo delle grandi fluttuazioni
demografiche delle campagne, per poi tornare a ripopolarsi. Non
c'è bisogno di ricordare i continui appelli che le città
mediterranee rivolgevano regolarmente alle zone montane per reclutare
forza-lavoro. In Inghilterra, anche la città di Nottingham,
nella prima metà del XVIII secolo, sarebbe decaduta senza
questa migrazione.
Erano dunque necessarie due condizioni, affinché la popolazione
urbana "decollasse" veramente: riserve di immigranti
dovute a una situazione demografica generale più favorevole
e la possibilità di cumulare questi e altri fattori. Tuttavia,
i presupposti per lo sviluppo di un'autentica società
urbana non si esaurivano qui.
Doveva anche esistere la scrittura, perché fosse possibile
l'organizzazione di grandi città e il loro approvvigionamento
da parte della campagna, e doveva esistere una metallurgia, che
consentiva un'attrezzatura più perfezionata, capace di
favorire l'aumento della produttività agricola e artigianale.
E se l'agricoltura aveva reso possibile la nascita della città
e ne aveva condizionato l'evoluzione, la città era a sua
volta essenziale per consentire e, soprattutto, facilitare la
conservazione e il perfezionamento delle innovazioni tecniche.
(Enciclopedia, p. 87)
In altre parole, solo la mentalità cittadina favoriva,
per amore o per forza, lo sviluppo delle manifatture necessarie
per la produzione, appunto, agricola e artigianale. In teoria
gli antichi Imperi, romano, cinese, indiano, islamico, avevano
le potenzialità per anticipare la rivoluzione industriale.
In teoria, perché in pratica non se ne fece nulla.
Solo nell'Inghilterra moderna erano esistite le basi per l'industrializzazione
di massa: le vaste recinzioni di terreni (enclosures), la conseguente
urbanizzazione forzosa delle masse contadine, un ceto nobiliare
e borghese che originava il potere dal diritto di proprietà
e non dalla rendita parassitaria, uno spirito imprenditoriale
legato al rischio e aperto alle novità scientifiche
Proprio in Inghilterra, e poi in tutta l'Europa occidentale,
il panorama mutò radicalmente: si verificò un processo
irreversibile chiamato "rivoluzione demografica".
Il prolungarsi della speranza di vita e la volontaria riduzione
della fecondità erano logicamente collegati allo spostamento
della massa della popolazione verso la città, alla sua
integrazione in una civiltà urbana.
L'analisi demografica mostra chiaramente che la città
e l'industria produssero questo fitto intreccio di conseguenze;
è invece più difficile seguire il mutamento dei
comportamenti nel corso del tempo. Alla fine del XVIII secolo
non era possibile descrivere, senza cadere in eccessi, una demografia
urbana i cui caratteri fossero al tempo stesso coerenti e omogenei.
Nella grande città britannica si mantenne, fino agli ultimi
30 anni dell'800, una forte fecondità popolare; unica
in Francia, Parigi dava, fino al 1870 circa, l'esempio della
sterilità, mentre la limitazione delle nascite era già
da tempo praticata in certe campagne. (Enciclopedia, p. 16)
Parlando dell'Europa dell'Ottocento, abbiamo posto le giuste
premesse per il prossimo paragrafo: tuffiamoci a capofitto nello
studio del mondo capitalista!
Bibliografia:
Enciclopedia Einaudi
'78, vol. 3.
Pasquarelli Gianni,
Preistoria del potere, Rusconi '83.
Platone (a cura
di Giuseppe Lozza), La Repubblica, Mondadori '90. |