Con il neolitico cambiava il
panorama socio-economico. L'uomo non era più un nomade
che cacciava per sopravvivere, ma era diventato agricoltore.
Il suo punto di riferimento non era più la preda da uccidere,
ma la terra da coltivare.
La scoperta dell'agricoltura è ancora un mistero per gli
studiosi. Non è d'interesse ai fini del libro, ma è
da sottolineare che una delle cause ipotetiche della rivoluzione
agricola è l'aumento della popolazione: l'esplosione anagrafica
era stimata nel Paleolitico medio (70.000/50.000 anni a.C.) circa
un milione di persone per raggiungere all'inizio del Neolitico
(10.000 anni a.C.) oltre nove milioni di individui concentrati
in aree relativamente ristrette.
Trova ampio riscontro il fatto che il passaggio dalla raccolta
del cibo alla sua produzione determinava un notevole aumento
del numero di persone che una data regione poteva nutrire o,
per usare un'espressione ecologica, della capacità biologica
della regione.
Facendo riferimento ai documenti etnografici, gli studiosi Ammermann
e Cavalli-Sforza hanno scoperto che, nonostante una considerevole
variabilità, le densità delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori
erano generalmente molto inferiori a quelle raggiunte dalle popolazioni
di agricoltori: infatti, con l'eccezione dei pescatori delle
coste del pacifico nord-occidentale, le prime raggiungevano densità
che si collocavano perlopiù fra 0,1 e 1 abitante per chilometro
quadrato, mentre le popolazioni di agricoltori presentavano densità
dai 3 ai 288 abitanti circa per chilometro quadrato. Normalmente
si ritiene che la transizione neolitica abbia prodotto a lungo
andare un aumento di cento volte nelle densità di popolazione.
(Ammerman, p. 85)
Due sono le teorie che si contrappongono per spiegare tale aumento.
La teoria "classica" riposa su un semplice ma convincente
ragionamento. L'insediamento e l'inizio della coltivazione e
della domesticazione, permettevano un approvvigionamento più
regolare, e proteggevano le popolazioni che vivevano dei frutti
dell'ecosistema dallo stress nutritivo connesso con l'instabilità
del clima e l'alternanza delle stagioni. La coltivazione di grano,
orzo, miglio, mais o riso - cereali altamente nutrienti e facilmente
conservabili - accresceva grandemente le disponibilità
alimentari e aiutava a superare i periodi di penuria. Salute
e sopravvivenza miglioravano, la mortalità si abbassava,
la capacità di crescita si rafforzava e si stabilizzava.
Negli ultimi decenni questa teoria è stata rimessa in
discussione rovesciandone i termini: nelle popolazioni agricole
sedentarie sia la mortalità, sia la fecondità si
accrescevano, ma la seconda più della prima e questo spiegava
l'accelerazione demografica.
Perché la mortalità avrebbe dovuto essere più
elevata tra gli agricoltori che non tra i cacciatori? Ciò
sarebbe avvenuto, in sostanza, per due ordini di cause. Il primo
sarebbe connesso col fatto che il livello nutritivo, dal punto
di vista della qualità (e secondo alcuni anche della quantità)
sarebbe peggiorato con la transizione all'agricoltura. L'alimentazione
di cacciatori e raccoglitori, fatta di radici, erbe, bacche,
frutti, animali, sarebbe stata assai più completa di quella
degli agricoltori sedentari, con un'alimentazione calorica sufficiente
ma povera e monotona per la grande prevalenza dei cereali. La
prova di questo si troverebbe (par. b) negli esami dei reperti
scheletrici. (Livi Bacci, p. 54)
Il secondo sostegno della teoria è diverso, ma forse più
convincente. Con l'insediamento stabile si ponevano le condizioni
per l'insorgenza, la diffusione e la conservazione di malattie
infettive e parassitarie sconosciute o più rare in popolazioni
mobili e a bassa densità. La più alta concentrazione
demografica faceva da "serbatoio" agli agenti patogeni,
che rimanevano allo stato latente in attesa delle occasioni favorevoli
per risvegliarsi. Malattie che si trasmettevano per contatto
si avvantaggiavano, nella loro diffusione, della accresciuta
densità. Questa, d'altro canto, aumentava la contaminazione
del suolo e dell'acqua, facilitando la reinfezione.
La sostituzione di alloggi permanenti ai ricoveri occasionali
o mobili propri delle popolazioni nomadi favoriva il contatto
con parassiti e altri vettori di malattie infettive. La sedentarietà,
inoltre, aumentava anche la trasmissibilità di quelle
infezioni provocate da vettori il cui ciclo di vita era interrotto
da frequenti spostamenti umani, come avveniva per le pulci le
cui larve si riproducevano in nidi, giacigli o alloggi piuttosto
che sul corpo di animali o persone.
Con la sedentarietà, molti animali, addomesticati e no,
venivano attirati stabilmente nella nicchia ecologica dell'uomo,
potendo infettarlo con agenti patogeni specifici degli animali
e, comunque, aumentando l'incidenza del parassitismo. Certe tecniche
agricole sarebbero state responsabili della diffusione di determinate
patologie come, ad esempio, la malaria, alimentata dallo sviluppo
dell'irrigazione e dalla creazione artificiale di depositi di
acqua stagnante. (Livi Bacci, p. 55-56)
Entrambe le teorie concordano riguardo all'aumento della fecondità:
tale aumento trova fondamento nelle modificazioni dell'assetto
sociale che erano intervenute nelle società rese sedentarie
dallo sviluppo dell'agricoltura. Nelle comunità di cacciatori
e raccoglitori, una nuova nascita avveniva solo quando il precedente
nato era capace di badare a se stesso (par. b). In una società
stabilmente insediata questa necessità verrebbe meno,
il "costo" dei figli, in termini di investimento parentale,
sarebbe minore e il loro apporto economico per i lavori nella
casa, nei campi, nella guardia degli animali, maggiore. (Livi
Bacci, p. 57)
Può ben essere, inoltre, che il livello di nutrizione
fosse assai meno influente sulla mortalità di quanto si
ipotizza, poiché solo in casi di forte penuria e di marcata
denutrizione si accrescono i rischi di contrarre alcune malattie
infettive o di esserne vittime. (Livi Bacci, p. 60)
La coltivazione aveva finito con l'inchiodare l'uomo laddove
aveva seminato, almeno per il tempo necessario alla maturazione
del raccolto. Così la vita si faceva più comunitaria,
più associata, più organizzata. La produzione di
cibo veniva programmata e dominata dall'uomo, il clan si dilatava
nella tribù, la grotta o la caverna veniva abbandonata
per la capanna nel villaggio contadino. Nasceva la civiltà
rurale, che avrebbe fatto storia fino ai giorni nostri nei quali
convive con quella cittadina. (Pasquarelli, p. 83)
Spinte demografiche irresistibili portavano a ricorrenti intensificazioni
della produzione. Queste si risolvevano sempre in un esaurimento
delle risorse ambientali, che generalmente dava luogo a nuovi
sistemi di produzione ciascuno con una forma caratteristica di
violenza istituzionalizzata, di lavoro penoso, di sfruttamento
o di crudeltà.
L'intensificazione - lo sfruttamento di terra, acqua, minerali
o energia per unità di tempo e di spazio - era, ed è
ancora, una risposta ricorrente alle minacce contro il tenore
di vita. Nei tempi antichi queste minacce sorgevano principalmente
da mutamenti climatici e migrazioni di popolazioni di animali
(par. b). Nelle epoche più recenti lo stimolo principale
divenne la competizione fra gli Stati (par. e). Con il colonialismo,
lo stimolo fu l'accaparramento di materie prime necessarie all'industria
(cap. 3). Oggi si parla di un neocolonialismo delle multinazionali
(par. r).
Al di là delle sue cause immediate, l'intensificazione
è sempre controproducente. In assenza di mutamenti tecnologici,
porta inevitabilmente all'impoverimento dell'ambiente e alla
riduzione dell'efficienza della produzione in quanto quest'ulteriore
sforzo prima o poi deve essere applicato ad animali, piante,
terreni, minerali e fonti di energie più remote, meno
sicure e meno abbondanti. Una minore efficienza, a sua volta,
porta ad una riduzione dei livelli di vita, ovvero esattamente
all'opposto del risultato desiderato.
L'esempio più famoso è la desertificazione del
Sahara, un tempo foresta rigogliosa. La conoscenza del terreno
era scarsa, pertanto anche il modo di coltivazione era arretrato,
il cosiddetto taglia e brucia, che impoveriva il terreno subito
dopo i primi raccolti, con la conseguenza che le prime popolazioni
agricole erano costrette a spostarsi frequentemente, ma sempre
ripristinando il taglia e brucia. Soltanto a poco a poco, e grazie
all'esperienza, si svilupparono le tecniche agricole moderne.
Bibliografia:
Ammerman A., Cavalli-Sforza
L., La Transizione Neolitica e la Genetica di Popolazioni in
Europa, Boringhieri
'86.
Livi Bacci Massimo,
Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino '02.
Pasquarelli Gianni,
Preistoria del potere, Rusconi '83. |