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Sovrappopolazione e sottosviluppo.

La Conferenza del Cairo

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Comandè Marco

Capitolo 1

Uno sguardo al passato

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b) Il Paleolitico: l’uomo cacciatore

Il Paleolitico si srotola per centinaia di migliaia di anni: da un milione e mezzo a 15 mila anni fa. E proprio 15 mila anni addietro pare che il clima fosse relativamente mite, quasi come quello odierno.

In questa «età della pietra» ha poco senso riferirsi alla popolazione mondiale o a popolazioni legate a grandi territori. Siamo, piuttosto, di fronte a una congerie di piccoli aggregati, relativamente autonomi, normalmente di poche centinaia di unità, in equilibrio precario con l’ambiente, e fortemente vulnerabili. La discesa, anche per fattori del tutto casuali, al di sotto di certe soglie – ad esempio cento o duecento unità – comprometteva la riproduttività e sopravvivenza della collettività. La crescita numerica poteva provocare, invece, la scissione e la formazione di un nuovo nucleo. (Livi Bacci, p. 51-52)

La struttura dei gruppi riferita all’età e al sesso ci sfugge. Per colmare questa lacuna, possiamo citare qui i dati globali concernenti le categorie di età degli individui sepolti nel Paleolitico superiore europeo:

Età

Numero

%
 0-11  29  38.2
 11-20  12  16,0
 21-30  15  20,0
 31-40  11  14,7
 41-50  7  9,2
 oltre 50  2  2,8

La divisione per sessi ha potuto essere determinata dai dati antropologici soltanto per le categorie comprese tra i 21 e i 30 anni (5 maschi e 10 femmine) e tra i 31 e i 40 (6 maschi, 5 femmine). Proiettare questi dati sulla struttura demografica delle popolazioni viventi richiede certamente una qualche prudenza, soprattutto a causa del carattere molto selettivo delle sepolture del Paleolitico superiore. (Storia d’Europa, p. 70)

Un aspetto essenziale dell’indagine statistica è l’alta mortalità infantile. Ma non era dovuta, come vedremo fra poco, alle malattie o alla fame: i dati etnografici indicano chiaramente che il fattore principale nel controllo della popolazione era l’infanticidio (soprattutto femminile). Un altro aspetto è la scarsità di anziani, i quali, non appena non riuscivano più a seguire il gruppo negli spostamenti – come i malati -, venivano abbandonati al loro destino in qualche rifugio, con provviste per due o tre giorni. Un atto di crudeltà, certo, ma accudire malati e anziani risultava penalizzante per l’intero gruppo, specialmente per i bambini che avevano bisogno di cibo, cibo che poteva essere procurato solo se il gruppo si spostava rapidamente da un luogo all’altro.

Si stima che la popolazione totale fosse di qualche milione. Una cifra precisa non esiste. E’ da ritenere che gli insediamenti umani fossero siti sulle fasce centrali del pianeta, cioè quelle non ricoperte dai ghiacciai (che allora ricoprivano quasi il triplo della terra che coprono oggi): il cuore del Mediterraneo e dell’Asia mediterranea, ma anche le plaghe dell’Europa e dell’Asia centrale. Ve ne saranno stati pure in Africa, pure in quella tropicale e subtropicale, visto che l’uomo sarebbe apparso proprio là, in Africa. (Pasquarelli, p. 26)

Riguardo alla diffusione dei primi uomini nei continenti, due teorie si confrontano a colpi di ricerche e scoperte. La prima, detta multiregionale, ipotizza che l’Homo Erectus abbia lasciato l’Africa circa due milioni di anni fa e che da allora le varie colonie sparse per il globo si siano riprodotte autonomamente. La seconda, famosa con il suo nome inglese «Out of Africa», sostiene che buona parte dell’evoluzione della nostra specie sia avvenuta in Africa. La culla sarebbe stata abbandonata in tempi molto più recenti, tra i 40 e i 100 mila anni fa. E le differenze genetiche fra gli uomini di oggi, anche molto lontani fra loro, sarebbero quindi minime.

Lo stile di vita era il nomadismo. Si trattava di una costrizione, non di una scelta: l’agricoltura si doveva ancora scoprire, e gli unici mezzi di sussistenza erano quelli disponibili in natura, la caccia e i frutti selvatici. Gli spostamenti pare non avessero come stella polare soltanto i branchi di animali da inseguire per abbattere o catturare; ma anche e soprattutto i terreni ancora da sfruttare. Fu un nomadismo guidato più dalla bussola del suolo generoso che da quella della boscaglia piena di animali. Segno che il ricavato del suolo era più determinante per la sopravvivenza della tribù o del gruppo; e lo era non perché esso fosse più abbondante, ma perché era meno aleatorio e meno rischioso del bottino di una battuta di caccia. (Pasquarelli, p. 33)

Essendo la caccia un’attività che richiedeva forza e agilità, erano gli uomini a procurarsi la selvaggina. Le donne, invece, raccoglievano il cibo selvatico e accudivano i figli. La società paleolitica non era monogamica, anche se non si esclude che vi siano stati uomini accoppiati ad una sola donna. Era più frequente la poligamia, uomini con più donne o mogli, e la radice del fenomeno pare fosse nella caccia.

Il cacciatore che spartiva la preda accumulava obblighi e rispetto nel gruppo, accumulava potere, prestigio, autorità. La carne nel Paleolitico era moneta di scambio, serviva a tenere in piedi solidarietà sociali, a signoreggiare su qualcosa o su qualcuno, anche sulle donne, su più donne. Le quali erano per il bravo e potente cacciatore poligamo anche un affare, visto che il grosso dell’alimentazione lo garantiva la raccolta dei frutti spontanei cui erano addette le donne. (Pasquarelli, p. 59)

I continui spostamenti in vaste aree di cattura rendevano estremamente oneroso e pericoloso per le donne il trasporto di piccoli non autonomi. Per questa ragione l’intervallo tra un parto e l’altro sarebbe stato lungo in modo che la nuova nascita avvenisse solo quando il precedente nato fosse capace di badare a se stesso. (Livi Bacci, p. 57)

Pasquarelli riporta l’esempio dei boscimani, un popolo di cacciatori e raccoglitori che vive tutt’oggi nell’Africa meridionale: “Presso i boscimani la media è di circa un figlio ogni quattro anni, e quando la capacità riproduttiva della donna termina, essa ha messo al mondo quattro o cinque figli. Poiché di solito soltanto la metà dei nati raggiunge l’età adulta, la donna partorisce all’incirca tanti figli quanti ne occorrono per rimpiazzare i decessi. (…)

La donna boscimana allatta il piccolo a lungo, per quasi tre anni, non solo perché scarseggia il cibo tenero da offrire alle sue tenere gengive, ma anche perché la vita quotidiana è organizzata in modo da richiedere lunghi intervalli di tempo tra un parto e l’altro. Si stima che essa percorra cinquemila chilometri all’anno per procurar cibo e per cambiare accampamento, portando a spalle il kaross contenente il piccolo assieme alle radici, ai germogli e frutta raccolti. (…)

Il parto ogni cinque anni o giù di lì, ha però un risvolto tutt’altro che encomiabile. L’allattamento prolungato frena in una certa misura l’ovulazione, quindi la possibilità per una donna di rimanere incinta. Ma frenare l’ovulazione non vuol dire eliminarla, mentre l’astinenza sessuale molto difficilmente supera l’anno dalla nascita dell’ultimo figlio. Sicché donne incinte ce ne sono state e ce ne sono anche presso i boscimani durante il periodo che di norma sta in mezzo a due parti, per cui non sorprende che l’aborto e l’infanticidio siano pratiche assai ricorrenti nella vita dei cacciatori-raccoglitori. Si è stimato che nel periodo paleolitico il 50 per cento dei decessi fosse dovuto ad infanticidio, e che un fattore determinante della breve vita media delle donne (ventotto anni) fosse da attribuire ai tentativi di provocare aborti.

I cacciatori-raccoglitori contemporanei sono per lo più sforniti di efficaci mezzi anticoncezionali. Praticano tuttavia alcune tecniche, chimiche e meccaniche, per provocare l’aborto. Numerosi veleni vengono usati per interrompere gravidanze indesiderate, mentre le tecniche meccaniche consistono nella stretta legatura di fasce attorno allo stomaco, in massaggi diciamo così vigorosi, in passaggi bruschi dal freddo al caldo, in pesanti colpi all’addome, nei saltelli sopra una tavola posta trasversalmente sullo stomaco della donna «finché il sangue non sgorga dalla vagina». Tali tecniche pongono sì fine alla gravidanza, ma spesso anche alla vita della donna incinta”. (Pasquarelli, p. 53-55)

La mortalità infantile non era legata solo ad aborti e infanticidi, ma anche alle malattie e alle guerre. Le malattie, però, non avevano quell’incidenza che invece si avrà nei millenni successivi. Si sa che la morte di bambini e di adulti per via d’infezioni batteriche o virali (scarlattina, dissenteria, morbillo, tubercolosi, pertosse) dipende in larga misura dalla dieta e dallo stato fisico dell’individuo. Nell’età della pietra sia quella che questo erano migliori di quanto non siano oggi. La dieta era più naturale e genuina, e il vivere all’aria aperta più tonificante.

Per quanto riguarda le malattie epidemiche letali (colera, peste bubbonica, vaiolo, febbre tifoidea, influenza) esse si verificano solo in presenza di alte densità di popolazione, sono le malattie della società giunta allo stadio dell’organizzazione statale, delle città sovraffollate e sottoalimentate. Queste non erano certo le condizioni in cui viveva l’uomo dell’età della pietra. Perfino flagelli come la malaria e la febbre gialla ebbero effetti minori nel Paleolitico che nei periodi successivi.

Il massimo di devastazione della malaria, per esempio, si ebbe con il disboscamento agricolo di foreste umide che aveva creato l’habitat ideale per la riproduzione delle zanzare. Non era certo l’ambiente paleolitico, che ignorava il disboscamento.

Resti di scheletri forniscono importanti indizi a sostegno di questa tesi. Uno studioso, J. Lawrence Angel, ha tracciato un profilo della salute durante gli ultimi trentamila anni prendendo in considerazione l’altezza media degli individui e il numero dei denti mancanti al momento della morte: si sa, infatti, che la statura e lo stato dei denti sono fortemente influenzati dalla quantità di proteine assimilate, che a sua volta è segno di benessere generale.

Ebbene, trentamila anni addietro l’altezza media dei maschi raggiungeva i 177 cm mentre quella delle femmine si attestava sui 165 cm. Ventimila anni dopo, l’altezza media degli uomini non superava i 165 cm mentre quella delle donne era sui 153 cm. Dunque un calo netto. (Pasquarelli, p. 64)

La guerra non poteva contenere le nascite: i gruppi paleolitici erano prevalentemente poligami per cui pochi maschi riuscivano ad accoppiarsi a tutte le femmine disponibili. Erano invece i valori, le necessità, le imperiosità e le emergenze, che la guerra poneva e imponeva, a frenare la pressione demografica.

Si incoraggiava l’allevamento dei figli maschi come materia prima per il combattimento, come condizione essenziale per l’autonomia e l’indipendenza del gruppo, come virilità e prestanza quali valori prioritari in una società guerriera. E, per contro, si limitava drasticamente l’allevamento delle femmine mediante l’incuria o l’infanticidio, e in questo senso la guerra o, meglio, i valori che essa esprimeva finivano col limitare la crescita della popolazione. Così il maschio aveva la precedenza sulla femmina sia nella scala sociale, sia nelle risorse da destinargli e nei diritti da conferirgli, sia nel potere o strapotere sessuale.

Lo confermerebbero i risultati di studi recenti condotti sulle popolazione che vivono ancora allo stadio nomade. Essi mostrano una netta prevalenza dei maschi nelle fasce di età fino a quattordici anni e una tendenza a bilanciarsi dei maschi e delle femmine nelle fasce d’età adulte. Nelle prime, il rapporto fra maschi e femmine è di 128 a 100; nelle seconde, è di 101 a 100. Questo spiega il sistematico infanticidio delle femmine che squilibra il rapporto a favore dei maschi fino a quattordici anni di età, rapporto che si riequilibra nelle fasce degli adulti a causa dei decessi maschili dovuti ai combattimenti. (Pasquarelli, p. 78)

Riepilogando, lo schema della società tribale indica il grado di adattamento alla natura dell’animale predatore chiamato uomo:

 

Motivaz. soggettive

Motivaz. oggettive
 Politica  Tribalismo  Nomadismo
 Economia  Sopravvivenza  Caccia
 Società  Prestigio  Comunità
 Ambiente  Armonia  Caverne

Bibliografia:

Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino ’02.

Pasquarelli Gianni, Preistoria del potere, Rusconi ’83.

Storia dell’Europa, Preistoria e antichità, Einaudi ’94.

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