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SEMIOTICA E TRADUZIONE
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Abbiamo cercato di delineare un quadro interpretativo del fenomeno della traduzione. Nonostante di questo tema si parli oramai da secoli, ancora oggi non esiste una disciplina formalmente riconosciuta e quindi siamo dovuti andare alla ricerca di testi, saggi, articoli e commenti di quanti hanno in anni recenti trattato di questo ordine di problemi. In molte di queste fonti abbiamo riscontrato gli sforzi e gli appelli fatti perché si riconosca finalmente questo ambito di studio, ma le proposte sono tante e spesso in aperto contrasto le une con le altre. Se la voce sembra unica quando si lamenta questo vuoto nella ricerca e nell’offerta didattica, basta andare appena un po’ più a fondo per scoprire che non c’è alcun accordo su dove e su cosa questa disciplina debba poggiare. La proposta dei Translation Studies, operata da André Lefevere e caldeggiata da Susan Bassnett, per quanto comprensiva pretenda di essere[1], si fonda e dichiara il suo debito alla Letteratura Comparata. In Europa, invece, e soprattutto in Francia, non c’è unanimità su quale termine usare e di volta in volta gli autori presentano i loro studi sulla traduzione come afferenti a diverse discipline: Linguistica, Sociolinguistica, Studi Letterari, Filosofia, Semiologia e Semiotica. La nostra intuizione che la traduzione (sia come processo che come prodotto) fosse un fenomeno prevalentemente segnico ci ha guidato attraverso questi studi. Siamo andati, allora, alla ricerca di conferme e chiarimenti. Abbiamo fin da subito riscontrato in gran parte di essi l’esigenza di ricorrere al segnico in generale, per poi scoprire, procedendo, che era possibile reclamare alle teorie del segno lo studio di queste questioni. Il problema era allora quale teoria del segno impegnare su questa strada[2]. L’incontro, allora, con le opere di Dinda L. Gorlée e di Umberto Eco, che abbiamo presentato nel capitolo conclusivo, hanno chiarito molti dei nostri dubbi.

 

Il primo passo è stato prendere in considerazione la nozione comune di traduzione. Per molti la traduzione sembra equivalere ad una meccanica trasposizione di termini di una lingua con termini di un’altra lingua. Come tale l’operatore di questa azione di basso profilo sembra poter essere quasi chiunque, l’unica discriminante essendo l’adeguata conoscenza della lingua straniera. Pur riconoscendo che il tradurre è un’operazione abbastanza comune, ci siamo sentiti in dovere di problematizzare un po’ la questione: dipende da cosa si traduce. C’è tradurre e Tradurre. In ogni caso, anche al livello più elementare del fenomeno – quale, per esempio, la traduzione come strumento didattico, usata spesso fin dalle scuole medie inferiori – non si dà mai un semplice scambio di lemmi, bensì un complesso meccanismo di resa nella lingua di destinazione di un testo nella lingua di partenza, un meccanismo che deve tener conto del fatto che non c’è quasi mai perfetta corrispondenza tra le parole di lingue diverse. E’ una questione ben nota alla linguistica che definisce questo fenomeno asimmetria semantica.

Piuttosto che meccanico, allora, il processo traduttivo sembra quindi essere, come suggerisce Susan Bassnett, un processo creativo, un processo che impegna molte capacità, molte tappe e che non sempre produce un risultato soddisfacente. Tradurre non vuol dire spostare, trasportare, trasporre bensì rifare, rendere, creare. La creatività risiede nel fatto che posto di fronte all’intraducibilità diretta di sezioni del testo di partenza, il traduttore è costretto a ricorrere a tutte le sue capacità linguistiche (della lingua di partenza e destinazione) per prima interpretare, quindi ricostruire, redigere un testo che convogli un universo di significati quanto più prossimo possibile a quello dell’originale.

Così come rifiutiamo la metafora postale, e la inerente concezione strumentale del linguaggio, del processo di comunicazione, allo stesso modo rigettiamo la visione meccanicistica del processo traduttivo.

Nel parlare come nel tradurre non abbiamo a che fare con pacchi (i significanti) che veicolano contenuti pre-confezionati (i significati). Il processo di comunicazione linguistica ed il processo di traduzione presuppongono, al contrario, un delicato meccanismo di negoziazione. Come Eco fa notare: noi negoziamo i significati con l’emittente del messaggio.

Quindi, come vediamo, respingere la metafora meccanicistica ci porta a prendere in considerazione l’importanza di dotare lo studio della traduzione di un’adeguata teoria del significato, dobbiamo cioè ricorrere alla semantica. Il problema della traduzione, infatti, passa ineludibilmente per un’accurata analisi dei significati. Ma come si analizza il significato di un’espressione? Lo abbiamo chiesto principalmente a Hjelmslev (cfr. par. 1.3.2) dal quale abbiamo tratto la conclusione che l’analisi componenziale del significato non è possibile, almeno non lo è in termini scientificamente soddisfacenti. Se lo fosse stato la pratica della traduzione ne avrebbe di certo avuto solo da guadagnare. Avendo rinunciato temporaneamente[3] all’analisi del significato sembra  allora necessario rivolgersi altrove. Ci viene in soccorso la dimensione pragmatica di ogni atto di comunicazione. Come fa notare, forse per primo, Bloomfield (cfr. par. 1.3.3): il significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il parlante. Bloomfield introduce la dimensione pragmatica alla determinazione del significato, ma non ne facilita il compito, anzi, lo complica perché sostiene contestualmente che non si danno mai due situazioni identiche. Ciononostante il concetto di situazione enunciato da Bloomfield rende Catford in grado di sostenere che l’equivalenza in traduzione non si può stabilire solo ricorrendo allo studio dei contenuti dei testi ma principalmente ricorrendo al contesto, ovvero due espressioni in lingue diverse possono dirsi equivalenti se intercambiabili in una data situazione.

Il ricorso al discorso pragmatico è coerente, come fa notare la Bassnett, con l’adozione di un quadro interpretativo semiotico, e alcuni studiosi vi ricorrono spesso. Hatim e Mason (cfr. par. 3.4.2), per esempio, preferiscono, per stabilire un’equivalenza tra testi utilizzare la nozione di equivalence of intended effect [equivalenza dell’effetto voluto, T.N.] dato che “l’equivalenza non è solo linguistica e semantica; è anche pragmatica”. Essi inoltre propongono un modello della comunicazione (valido anche per la traduzione) che “coinvolge il lettore in una ricostruzione del contesto attraverso un’analisi di quello che ha avuto luogo (campo), chi ha partecipato (tenore) e quale mezzo è stato selezionato per riportare il messaggio (modo)”, [T.N.].

Un modello linguistico, come suggerisce anche Steiner (cfr. par. 3.2.2), è imprescindibile se si vuole analizzare il fenomeno della traduzione. In molti, come Vinay e Darbelnet, tentano l’applicazione di un modello teorico strutturalista alla traduzione ma abbiamo visto che questo modello non riesce a dare ragione di ogni aspetto del fenomeno complessivamente. Per esempio non sembra attribuire grande importanza a quel che di extra o para-linguistico (come i valori fono-simbolici delle parole) è presente in alcune espressioni soprattutto poetiche. La necessità, allora, di sostituirlo con un altro modello diventa pressante. Tra gli studi che abbiamo in questa sede presentato sono molti quelli (Nida, Hatim e Mason, etc.) che rinunciano all’utilizzo di un modello puramente linguistico per affrontare il problema in termini segnici. Da parte nostra, ci siamo rivolti, invece, ispirati dall’ultimo libro di Umberto Eco, a cercare di capire se la filosofia semiotica di Charles Sanders Peirce è in grado o meno di concepire un modello linguistico adatto ai nostri scopi.

Ci muoviamo su di un terreno in cui è particolarmente difficile operare dei distinguo teorici. Come osserva Steiner, traduzione, linguaggio e comunicazione sono campi concettuali intimamente collegati e i cui confini sono sfumati. Susan Petrilli sostiene che “se rappresentiamo la comunicazione e la traduzione con due cerchi concentrici, quello della comunicazione è compreso in quello della traduzione”, cioè traducendo in forma grafica:

 

 

Dal canto suo, Steiner sostiene invece una sostanziale equivalenza tra i concetti di traduzione e comunicazione e quindi:

 

Quest’ultima visione del problema è tutt’altro che rara. Anche la Gorlée che pretende di applicare la semiotica di Peirce al problema della traduzione esordisce stabilendo un’equivalenza tra semiosi e traduzione.

Il motivo per cui si tende ad accomunare comunicazione e traduzione, forse, sta proprio nel fatto che si concepisce il linguaggio come avente una capacità particolare che è quella dell’intertestualità, ovvero “la capacità che un linguaggio ha di rappresentare (tradurre) enunciati di un altro linguaggio”[4]. E’ incontestabile che le lingue storiche abbiano questa caratteristica, ma forse l’affermazione di cui sopra si regge su di un equivoco. Tradurre, in questo caso, non vuol dire Tradurre, bensì, probabilmente, interpretare, infatti è posto tra parentesi. Tradurre vuol dire, per noi, ridurre al minimo gli ineludibili sfalsamenti rispetti all’originale. Per la concezione di intertestualità, forse, sarebbe meglio parlare di un discorso che interpreta un altro discorso perché in questo caso non c’è il minimo accenno alla necessaria fedeltà ma solo la possibilità della spiegazione e la spiegazione interpreta, ovvero dice qualcosa in più. Quindi Prampolini usa ‘tradurre’ come espressione figurata così come secondo Eco fa Jakobson[5].

Se è vero che "la traduzione è sempre ri-enunciazione", come sostiene Meschonnic, non è vero il contrario. Non tutti le ri-enunciazioni sono traduzioni, non in senso stretto, semmai lo sono in senso figurato come abbiamo cercato di dimostrare. Si può parafrasare un verso di Montale impiegando pagine e pagine; definiremo queste pagine una traduzione? Forse no, tuttavia quello che avrebbe fatto l’autore di tali pagine sarebbe stato cercare di tradurre il pensiero del poeta. Non siamo tutti traduttori, anche se abbiamo tutti, o quasi, la facoltà di tradurre, allo stesso modo per cui non siamo tutti scrittori anche se abbiamo tutti, o quasi, la capacità di scrivere.

Dal canto nostro, e come abbiamo già dichiarato nella sezione introduttiva di questo lavoro, comunicazione e traduzione, per quanto interconnesse l’una con l’altra, sono sfere distinte. La traduzione è un fenomeno complesso, anzi è più fenomeni, come dimostrano gli innumerevoli tentativi classificatori, non da ultimo quello di Jakobson tra traduzione endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica. In realtà il numero di possibili generi di traduzioni si moltiplica se consideriamo, con Peirce, non solo le traduzioni dal verbale ma anche quelle dal non verbale. Un utilissimo spunto è stato allora il suggerimento di Toury, ovvero di “provare a pensare la traduzione come una classe di fenomeni, i rapporti tra i cui membri siano quelli di rassomiglianza familiare[6]. Ma anche volendo collezionare, per così dire, tutti i possibili tipi di traduzione che ci possono venire in mente, siamo ancora all’interno della comunicazione e non all’esterno, come vorrebbe Petrilli, o allo stesso punto o livello, come vorrebbe Steiner. L’idea della Familienähnlichkeit è senz’altro vincente ma forse va espansa un altro po’ fino ad includere non solo tutti i tipi di traduzione, bensì tutti i tipi di interpretazione, come suggerisce Eco che (fornendo peraltro una personale rilettura del celebre saggio di Jakobson sulla traduzione) assume che il mondo della comunicazione coincida essenzialmente con quello dell’interpretazione. Ogni fenomeno di comunicazione, qualsiasi esso sia, anche se uno dei due estremi del modello non è umano, come insegna Peirce, è un atto interpretativo. Non tutto l’interpretare è tradurre e Eco suggerisce allora di concepire la traduzione come un tipo del genere interpretazione. E allora:

 

 

Sembra allora più chiara l’affermazione di Eco stesso secondo cui solo una semiotica soggiacente può produrre un modello teorico abbastanza ampio da contenere anche la traduzione intersemiotica. “Una linguistica, da sola, non può rendere ragione di tutti i fenomeni traduttivi, che debbono invece essere considerati da un punto di vista semiotico più generale”[7]. E quale semiotica ce lo dice senza ulteriori indugi:

 

 “io parto evidentemente da un’altra teoria del linguaggio, e lo metto in chiaro, sostenendo che la mia scelta è più fedele a quella di Peirce”[8]

 

Più fedele come dice Eco non indica una pedissequa applicazione dei principi peirciani. Come abbiamo detto nell’Introduzione la semiotica di Eco non è né la semiotica peirciana né la semiologia strutturalista, bensì una disciplina ibrida che traendo le sue basi dal pensiero del logico americano si espande in una sorta di semiotica allargata capace di accogliere al suo interno ogni pensatore che gli fa comodo. Difatti la concezione di traduzione espressa in Dire quasi la stessa cosa non è proprio fedele alla lettera peirciana.

Secondo Eco la traduzione è risultato di una negoziazione. La negoziazione è un concetto che molto ha a che fare con quello di interpretazione ma non è la stessa cosa, o almeno potrebbe essere concepita come un arricchimento del concetto di interpretazione perché su di esso si basa. Eco afferma:

 

“non basta, per tradurre, produrre un interpretante del termine, dell’enunciato o del testo originale. Peirce dice che l’interpretante è quello che mi fa sapere qualcosa di più […] [ma] talora l’interpretante può anche dirmi un qualcosa di più che, rispetto a un testo da tradurre, è qualcosa di meno.”[9]

 

Il significato non è solo, quindi, l’addizione dei grounds, che ogni volta l’interprete seleziona in base alla situazione, ma è anche una negoziazione, ovvero una specie di contrattazione per cui per ottenere qualcosa “si rinuncia a qualcosa d’altro”. La differenza è sottile ma importante. Nella teoria degli interpretanti il significato non si negozia, si decide in base a tratti di significati pertinenti al contesto, la negoziazione, invece, presuppone, un incontro di volontà divergenti. Nel primo caso è la circostanza a decidere, nel secondo sono due menti distinte[10].

 

Nonostante questa appena espressa sia la nostra posizione e non quella della Gorlée, non possiamo tralasciare il fatto che la sua raccolta di articoli sia ricchissima di spunti molto interessanti e validi anche quando cerchiamo di  integrarli nel modello che abbiamo scelto di adottare. Li riporteremo, quindi, adesso, per avere modo di riflettere sulla traduzione in termini più propriamente semiotici. I concetti che abbiamo ritenuto più importanti sotto questo aspetto sono la concezione della traduzione come gioco, l’idea di traduttore-abduttore e la nozione di semiotraduzione.

Secondo la Gorlée si può vedere la traduzione come un gioco[11], compararla ad un puzzle o ad una partita di scacchi, ovvero come “un gioco decisionale individuale basato su scelte ragionevoli regolate da leggi tra soluzioni alternative” [T.N.]. La studiosa non usa questa definizione ma forse sarebbe opportuno vedere nella traduzione una rule-governed creativity. Certe differenze sono evidenti, come il fatto che esistono alcuni giochi che hanno una unica soluzione possibile mentre la traduzione può avere più soluzioni accettabili, ma nell’insieme un gioco ha sempre per lo più lo scopo di trovare una soluzione pertinente, di creare una situazione più soddisfacente possibile rispetto alle regole del gioco in questione. Di certo però la metafora del gioco ha il merito di illustrare correttamente la situazione traduttiva per cui qualcuno si trova di fronte ad un problema che può risolvere solo seguendo un insieme di regole (della lingua come del gioco) e portando avanti un approccio per prove ed errori, ovvero usando l’abduzione.

Traduttore/abduttore è la risposta al ben noto adagio traduttore/traditore che ormai è facile incontrare anche nelle fonti in lingua straniera. Spesso il traduttore non viene associato al traditore che per mettere in rilievo la loro paradossale incompatibilità:  anche se tradurre consiste nel non tradire, la traduzione più fedele finisce ineludibilmente per tradire l’originale.

Il traduttore/abduttore non traduce solo operando deduzioni (dalla regola ai casi particolari) o induzioni (dai molti casi particolari alla regola), egli opera ipotesi al di là dei dati che ha a disposizione e cerca di fissare una regola che possa, successivamente, essere confermata dai dati raccolti nel frattempo o smentita per formularne un’altra. Il processo decisionale (o ludico) porta il traduttore di volta in volta a formulare in prima istanza delle ipotesi interpretative e successivamente dei tentativi di traduzione che possono essere bocciati o assunti.

Tutte le cose finora dette del pensiero della Gorlée rientrano nel concetto di semiotranslation. Una semiotraduzione è una buona traduzione, secondo l’autrice:

 

 “Le ‘buone’ traduzioni […] genereranno altre traduzioni, con abiti migliori, e nel lungo periodo ciò che emergerà idealmente da questo flusso di semiosi sarà una traduzione che esaudisca le condizioni di verità.”[12]

 

Dietro quest’affermazione si cela evidentemente il discorso peirciano. Così come accade per ogni interpretazione che dell’oggetto chiarisce sempre qualcosa in più così accade anche per la traduzione. Il discorso fatto riguardo all’interpretante finale (cfr. par. 1.3.5), vale secondo Gorlée, a quanto pare, anche per una ipotetica traduzione finale che soddisfi finalmente le condizioni di verità.

 

In conclusione, nell’introduzione abbiamo dichiarato che la nostra tesi si fondava sulla convinzione che un processo di traduzione fosse sempre e comunque un processo di interpretazione in senso peirciano. La nostra idea era che la traduzione non fosse altro che un interpretante di un representamen che è l’originale testuale. Abbiamo anche sostenuto che come interpretante la traduzione non è e non può essere una semiosi duplicata o la stessa semiosi e abbiamo criticato la Gorlée per questa assurda affermazione dato che ogni semiosi è unica e irripetibile. Abbiamo anche detto che la traduzione, essendo un interpretante, sta per; questo sta per vuol dire che conserva ad un certo grado le caratteristiche del representamen, ovvero ne arricchisce o impoverisce la portata. Ma adesso ci chiediamo: questo arricchimento o impoverimento può essere arginato o controllato in qualche modo?

La risposta è che può esserlo solo “sotto certi aspetti e capacità” del traduttore. Se vogliamo vedere la traduzione come un processo di interpretazione siamo costretti a vedere questa versione del triangolo semiotico:

 

 

 

L’interprete peirciano è nel nostro caso il traduttore cui la società richiede la produzione di un testo quanto più simile possibile all’originale. Le esigenze sociali, le sue particolari attitudini e capacità porteranno l’interprete/traduttore a selezionare del representamen (il source text) solo alcuni tratti pertinenti (il Ground peirciano) e a riproporli sotto forma di nuova semiosi (target text). In che rapporto saranno, allora, l’originale e la traduzione? La risposta che abbiamo proposto nell’introduzione è ancora quella più valida: il testo tradotto sta in un rapporto maggiormente iconico con l’originale (cfr. p. 2). Ovviamente questo è solo indicativo. Se prendiamo alcuni rifacimenti radicali di testi ritenuti impossibili o difficili da tradurre[13] ci accorgiamo che nonostante siano in rapporto fondamentalmente iconico con l’originale in questi testi aumenta notevolmente il grado di simbolicità.

La traduzione perfetta non è possibile, e nemmeno duplicare una semiosi è possibile, quindi la traduzione non può essere altro che un compromesso o, per dirla con Eco, una negoziazione. Nell’introduzione ci chiedevamo, a tale proposito, se la traduzione non fosse altro che un accontentarsi con quello che si può fare, ovvero un compromesso cui ci abbandoniamo sconfitti in partenza. Infatti è proprio questo, abbiamo capito, la traduzione. L’unica cosa che cambia è che noi percepivamo tutto questo come una condanna all’infedeltà, come un sacrilegio e invece non lo è. Se tutte le produzioni segniche, e come tale anche la scrittura creativa, sono forme di interpretazione, per cui si mente sempre un po’, perché la traduzione, che in fondo non è che semiosi a sua volta, dovrebbe essere una forma di interpretazione meno nobile?

Cosa hanno di diverso la produzione segnica artistica e quella comune? Entrambe sono forme di comunicazione, entrambe sono forme di interpretazione. Il valore estetico aggiunto è certamente la discriminante tra i due, ma da cosa dipende questo valore? E’ probabile, a nostro avviso, che molto di questo valore abbia a che fare con le specifiche capacità e abilità dell’interprete. Se scrittore, poeta, pittore sono solo interpreti (in senso peirciano) molto dotati[14] che riescono a respingere o a oltrepassare i limiti del proprio sistema semiotico e se questo avviene solo in virtù di esigenze espressive particolari, quali quelle dell’artista, in cosa dovrebbe essere diverso un traduttore? Diverso, meglio dotato, certo, del parlante comune, ma non dello scrittore. Come accade nella scrittura che c’è chi scrive e chi Scrive, così nella traduzione c’è chi traduce e chi Traduce. Tutti scriviamo ma pochi di noi sono Steinbeck; allo stesso modo molti di noi a scuola hanno tradotto nel corso delle lezioni d’inglese o di francese qualche frase tipo “Mentre Kevin andava a scuola, la mamma preparava già il pranzo” ma questo non vuol dire che potremmo tutti tradurre The Tyger di W. Blake, almeno non con grande successo.

Non è la traduzione in senso stretto ad essere un arrangiarsi con quello che abbiamo a disposizione, ma il linguaggio umano stesso. Siamo coscienti di avvicinarci pericolosamente con queste dichiarazioni alla concezione strumentale del linguaggio e peggio ancora al mito babelico, ma non è questo che vogliamo intendere. E’ nostra convinzione che al pari di altri sistemi semiotici che l’uomo ha a disposizione per comunicare, la lingua non possa dire e significare tutto. Se così fosse non si spiegherebbe la ragione per cui ricorriamo spesso ad altri sistemi come la mimica, la gestualità, etc.

La semiotica studia tutti questi sistemi ed è decisamente meglio attrezzata di qualsiasi altra disciplina per affrontare tutti i tipi e i livelli della produzione segnica. Per quanto strano possa sembrare, nemmeno nella poesia o nella prosa è solo e sempre affare di linguaggio. Posto di fronte ad un testo da tradurre, un traduttore non deve solo rendere un testo in una lingua in un’altra lingua, deve tradurre una cultura nella propria. Un testo, qualsiasi testo, è intensamente ricco di elementi para- o extra-linguistici di cui solo una disciplina, come la semiotica, che ha come compito:

 

“quello di individuare fenomeni diversi nel flusso apparentemente incontrollabile degli atti interpretativi”[15]

 

può dare ragione. Se ogni atto di traduzione è un atto di interpretazione (e non è vero l’inverso), allora solo la disciplina che studia le dinamiche degli atti interpretativi a tutti i livelli ed in ogni sistema semiotico può essere una cornice teorica e un quadro di riferimento adatti per l’analisi di questo problema. Questa disciplina è la semiotica, una semiotica ispirata a Charles Sanders Peirce.



[1] Lefevere propose appunto di usare studies e non theories o altre formule perché intendeva che la nuova disciplina racchiudesse prospettive e approcci differenti.

[2] Nell’introduzione abbiamo, infatti, problematizzato l’uso indiscriminato di semiologia e semiotica come sinonimi e abbiamo accennato a diverse teorie del segno.

[3] Abbiamo accennato anche ad altre ricerche che si occupano dell’analisi del significato, in particolare abbiamo menzionato il modello NSM che si mette alla ricerca di primitivi semantici comuni a tutte le lingue. Il fatto che finora l’analisi semantica non abbia dato grandi risultati non significa che non sarà mai di alcun aiuto alla teoria e alla pratica della traduzione. Di certo, dato l’altro grado di indeterminatezza di alcuni testi complessi, come quelli poetici, la cui interpretazione può anche doversi basare solo su inferenze e deduzioni, l’analisi dei significati non riuscirà mai a portare vero soccorso alla traduzione.

[4] Cfr. Prampolini (1999) p. 131.

[5] Cfr. Eco (2003:229): “Nell’esporre queste posizioni di Jakobson (in Eco 1978: 24) scrivevo: ‘Jakobson dimostra che interpretare un elemento semiotico significa ‘tradurlo’ in un altro elemento (che può pure essere un intero discorso). E che da tale traduzione l’elemento da interpretare risulta sempre creativamente arricchito’. Come si vede ponevo ‘tradurlo’ tra virgolette, per indicare che si trattava di un’espressione figurata. […] Vorrei ricordare che avevo sottoposto a Jakobson il mio saggio, prima di pubblicarlo, e […] In tale sede non c’erano state obiezioni alla mia virgolettatura”.

[6] Traduzione Nostra.

[7] Eco (2003) p. 257.

[8] Ibid. p. 232.

[9] Ibid.

[10] E non potrebbe essere diversamente dal momento che, come abbiamo visto, l’emittente peirciano non è necessariamente umano, quindi in gioco c’è una sola mente, quella del ricevente-interprete del representamen. Eco, invece, sembra restringere il campo all’effettiva comunicazione fra due menti.

[11] Un’idea compatibile con quella della Gorlée è presente nel saggio La traduzione come processo decisionale di Jirí Levý contenuto in Nergaard (ed.)(1995:63): “dal punto di vista pragmatico l’attività del tradurre è un PROCESSO DECISIONALE: una serie di un certo numero di situazioni consecutive – di mosse, come in un gioco –, situazioni che impongono al traduttore la necessità di scegliere tra un certo numero di alternative”.

[12] Gorlée (1994) p. 221, Traduzione nostra.

[13] Eco (2003) propone molti esempi di rifacimento radicale tra cui la sua stessa traduzione degli “Exercices de style” di Raymond Queneau.

[14] Non intendiamo in questa sede esaminare la natura di questo dono. Non vogliamo comunque affermare che questo sia innato o meno, questo discorso esula dai nostri obiettivi.

[15] Eco (2003) p. 344.