SEMIOTICA E TRADUZIONE |
Abbiamo cercato di delineare un quadro
interpretativo del fenomeno della traduzione. Nonostante di questo tema si
parli oramai da secoli, ancora oggi non esiste una disciplina formalmente
riconosciuta e quindi siamo dovuti andare alla ricerca di testi, saggi,
articoli e commenti di quanti hanno in anni recenti trattato di questo ordine
di problemi. In molte di queste fonti abbiamo riscontrato gli sforzi e gli
appelli fatti perché si riconosca finalmente questo ambito di studio, ma le proposte
sono tante e spesso in aperto contrasto le une con le altre. Se la voce sembra
unica quando si lamenta questo vuoto nella ricerca e nell’offerta didattica,
basta andare appena un po’ più a fondo per scoprire che non c’è alcun accordo
su dove e su cosa questa disciplina debba poggiare. La proposta dei Translation
Studies, operata da André Lefevere e caldeggiata da Susan Bassnett, per
quanto comprensiva pretenda di essere[1],
si fonda e dichiara il suo debito alla Letteratura Comparata. In Europa,
invece, e soprattutto in Francia, non c’è unanimità su quale termine usare e di
volta in volta gli autori presentano i loro studi sulla traduzione come
afferenti a diverse discipline: Linguistica, Sociolinguistica, Studi Letterari,
Filosofia, Semiologia e Semiotica. La nostra intuizione che la traduzione (sia
come processo che come prodotto) fosse un fenomeno prevalentemente segnico
ci ha guidato attraverso questi studi. Siamo andati, allora, alla ricerca di
conferme e chiarimenti. Abbiamo fin da subito riscontrato in gran parte di essi
l’esigenza di ricorrere al segnico in generale, per poi scoprire,
procedendo, che era possibile reclamare alle teorie del segno lo studio di
queste questioni. Il problema era allora quale teoria del segno impegnare su
questa strada[2]. L’incontro,
allora, con le opere di Dinda L. Gorlée e di Umberto Eco, che abbiamo
presentato nel capitolo conclusivo, hanno chiarito molti dei nostri dubbi.
Il primo passo è stato prendere in considerazione
la nozione comune di traduzione. Per molti la traduzione sembra equivalere ad
una meccanica trasposizione di termini di una lingua con termini di un’altra
lingua. Come tale l’operatore di questa azione di basso profilo sembra poter
essere quasi chiunque, l’unica discriminante essendo l’adeguata conoscenza
della lingua straniera. Pur riconoscendo che il tradurre è un’operazione
abbastanza comune, ci siamo sentiti in dovere di problematizzare un po’ la
questione: dipende da cosa si traduce. C’è tradurre e Tradurre. In ogni caso,
anche al livello più elementare del fenomeno – quale, per esempio, la
traduzione come strumento didattico, usata spesso fin dalle scuole medie
inferiori – non si dà mai un semplice scambio di lemmi, bensì un complesso
meccanismo di resa nella lingua di destinazione di un testo nella lingua di
partenza, un meccanismo che deve tener conto del fatto che non c’è quasi mai
perfetta corrispondenza tra le parole di lingue diverse. E’ una questione ben
nota alla linguistica che definisce questo fenomeno asimmetria semantica.
Piuttosto che meccanico, allora, il processo
traduttivo sembra quindi essere, come suggerisce Susan Bassnett, un processo
creativo, un processo che impegna molte capacità, molte tappe e che non sempre
produce un risultato soddisfacente. Tradurre non vuol dire spostare, trasportare,
trasporre bensì rifare, rendere, creare. La creatività risiede nel fatto che
posto di fronte all’intraducibilità diretta di sezioni del testo di partenza,
il traduttore è costretto a ricorrere a tutte le sue capacità linguistiche
(della lingua di partenza e destinazione) per prima interpretare, quindi
ricostruire, redigere un testo che convogli un universo di significati quanto
più prossimo possibile a quello dell’originale.
Così come rifiutiamo la metafora postale, e la
inerente concezione strumentale del linguaggio, del processo di comunicazione,
allo stesso modo rigettiamo la visione meccanicistica del processo traduttivo.
Nel parlare come nel tradurre non abbiamo a che
fare con pacchi (i significanti) che veicolano contenuti pre-confezionati (i
significati). Il processo di comunicazione linguistica ed il processo di
traduzione presuppongono, al contrario, un delicato meccanismo di negoziazione.
Come Eco fa notare: noi negoziamo i significati con l’emittente del messaggio.
Quindi, come vediamo, respingere la metafora
meccanicistica ci porta a prendere in considerazione l’importanza di dotare lo
studio della traduzione di un’adeguata teoria del significato, dobbiamo cioè
ricorrere alla semantica. Il problema della traduzione, infatti, passa ineludibilmente
per un’accurata analisi dei significati. Ma come si analizza il significato di
un’espressione? Lo abbiamo chiesto principalmente a Hjelmslev (cfr. par. 1.3.2)
dal quale abbiamo tratto la conclusione che l’analisi componenziale del
significato non è possibile, almeno non lo è in termini scientificamente
soddisfacenti. Se lo fosse stato la pratica della traduzione ne avrebbe di
certo avuto solo da guadagnare. Avendo rinunciato temporaneamente[3]
all’analisi del significato sembra
allora necessario rivolgersi altrove. Ci viene in soccorso la dimensione
pragmatica di ogni atto di comunicazione. Come fa notare, forse per primo,
Bloomfield (cfr. par. 1.3.3): il significato di una forma linguistica è la
situazione in cui l’enuncia il parlante. Bloomfield introduce la dimensione
pragmatica alla determinazione del significato, ma non ne facilita il compito,
anzi, lo complica perché sostiene contestualmente che non si danno mai due
situazioni identiche. Ciononostante il concetto di situazione enunciato da Bloomfield
rende Catford in grado di sostenere che l’equivalenza in traduzione non si può
stabilire solo ricorrendo allo studio dei contenuti dei testi ma principalmente
ricorrendo al contesto, ovvero due espressioni in lingue diverse possono dirsi
equivalenti se intercambiabili in una data situazione.
Il ricorso al discorso pragmatico è coerente, come
fa notare la Bassnett, con l’adozione di un quadro interpretativo semiotico, e
alcuni studiosi vi ricorrono spesso. Hatim e Mason (cfr. par. 3.4.2), per esempio,
preferiscono, per stabilire un’equivalenza tra testi utilizzare la nozione di equivalence of intended effect [equivalenza dell’effetto voluto, T.N.] dato
che “l’equivalenza non è solo
linguistica e semantica; è anche pragmatica”. Essi inoltre propongono un
modello della comunicazione (valido anche per la traduzione) che “coinvolge il
lettore in una ricostruzione del contesto attraverso un’analisi di quello che
ha avuto luogo (campo), chi ha partecipato (tenore) e quale mezzo è stato
selezionato per riportare il messaggio (modo)”, [T.N.].
Un modello linguistico, come suggerisce anche
Steiner (cfr. par. 3.2.2), è imprescindibile se si vuole analizzare il fenomeno
della traduzione. In molti, come Vinay e Darbelnet, tentano l’applicazione di
un modello teorico strutturalista alla traduzione ma abbiamo visto che questo
modello non riesce a dare ragione di ogni aspetto del fenomeno
complessivamente. Per esempio non sembra attribuire grande importanza a quel
che di extra o para-linguistico (come i valori fono-simbolici delle parole) è
presente in alcune espressioni soprattutto poetiche. La necessità, allora, di
sostituirlo con un altro modello diventa pressante. Tra gli studi che abbiamo
in questa sede presentato sono molti quelli (Nida, Hatim e Mason, etc.) che
rinunciano all’utilizzo di un modello puramente linguistico per affrontare il
problema in termini segnici. Da parte nostra, ci siamo rivolti, invece,
ispirati dall’ultimo libro di Umberto Eco, a cercare di capire se la filosofia semiotica di Charles Sanders
Peirce è in grado o meno di concepire un modello linguistico adatto ai nostri
scopi.
Ci muoviamo su di un terreno
in cui è particolarmente difficile operare dei distinguo teorici.
Come osserva Steiner, traduzione, linguaggio e comunicazione
sono campi concettuali intimamente collegati e i cui confini sono sfumati.
Susan Petrilli sostiene che “se rappresentiamo la comunicazione e la traduzione
con due cerchi concentrici, quello della comunicazione è compreso in quello
della traduzione”, cioè traducendo in forma grafica:
Dal canto suo, Steiner sostiene invece una sostanziale
equivalenza tra i concetti di traduzione e comunicazione e quindi:
Quest’ultima visione del problema è tutt’altro che
rara. Anche la Gorlée che pretende di applicare la semiotica di Peirce al
problema della traduzione esordisce stabilendo un’equivalenza tra semiosi e
traduzione.
Il motivo per cui si tende ad accomunare
comunicazione e traduzione, forse, sta proprio nel fatto che si concepisce il
linguaggio come avente una capacità particolare che è quella
dell’intertestualità, ovvero “la capacità che un linguaggio ha di rappresentare
(tradurre) enunciati di un altro linguaggio”[4].
E’ incontestabile che le lingue storiche abbiano questa caratteristica, ma
forse l’affermazione di cui sopra si regge su di un equivoco. Tradurre,
in questo caso, non vuol dire Tradurre, bensì, probabilmente, interpretare,
infatti è posto tra parentesi. Tradurre vuol dire, per noi, ridurre al minimo
gli ineludibili sfalsamenti rispetti all’originale. Per la concezione di
intertestualità, forse, sarebbe meglio parlare di un discorso che interpreta un
altro discorso perché in questo caso non cè il minimo accenno alla necessaria
fedeltà ma solo la possibilità della spiegazione e la spiegazione interpreta, ovvero
dice qualcosa in più. Quindi Prampolini usa ‘tradurre’ come espressione
figurata così come secondo Eco fa Jakobson[5].
Se è vero che "la traduzione è sempre
ri-enunciazione", come sostiene Meschonnic, non è vero il contrario. Non
tutti le ri-enunciazioni sono traduzioni, non in senso stretto, semmai lo sono
in senso figurato come abbiamo cercato di dimostrare. Si può parafrasare un
verso di Montale impiegando pagine e pagine; definiremo queste pagine una
traduzione? Forse no, tuttavia quello che avrebbe fatto l’autore di tali pagine
sarebbe stato cercare di tradurre il pensiero del poeta. Non siamo tutti
traduttori, anche se abbiamo tutti, o quasi, la facoltà di tradurre, allo
stesso modo per cui non siamo tutti scrittori anche se abbiamo tutti, o quasi,
la capacità di scrivere.
Dal canto nostro, e come abbiamo già dichiarato
nella sezione introduttiva di questo lavoro, comunicazione e traduzione, per
quanto interconnesse l’una con l’altra, sono sfere distinte. La traduzione è un
fenomeno complesso, anzi è più fenomeni, come dimostrano gli innumerevoli
tentativi classificatori, non da ultimo quello di Jakobson tra traduzione
endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica. In realtà il numero di
possibili generi di traduzioni si moltiplica se consideriamo, con Peirce, non
solo le traduzioni dal verbale ma anche quelle dal non verbale. Un utilissimo
spunto è stato allora il suggerimento di Toury, ovvero di “provare a pensare la
traduzione come una classe di fenomeni, i rapporti tra i cui membri
siano quelli di rassomiglianza familiare”[6].
Ma anche volendo collezionare, per così dire, tutti i possibili tipi di
traduzione che ci possono venire in mente, siamo ancora all’interno della
comunicazione e non all’esterno, come vorrebbe Petrilli, o allo stesso punto o
livello, come vorrebbe Steiner. L’idea della Familienähnlichkeit è senz’altro vincente ma forse va espansa
un altro po’ fino ad includere non solo tutti i tipi di traduzione, bensì tutti
i tipi di interpretazione, come suggerisce Eco che (fornendo peraltro una
personale rilettura del celebre saggio di Jakobson sulla traduzione) assume che
il mondo della comunicazione coincida essenzialmente con quello
dell’interpretazione. Ogni fenomeno di comunicazione, qualsiasi esso sia, anche
se uno dei due estremi del modello non è umano, come insegna Peirce, è un atto
interpretativo. Non tutto l’interpretare è tradurre e Eco suggerisce allora di
concepire la traduzione come un tipo del genere interpretazione. E allora:
Sembra allora più chiara
l’affermazione di Eco stesso secondo cui solo
una semiotica soggiacente può produrre un modello teorico abbastanza ampio
da contenere anche la traduzione intersemiotica. “Una linguistica, da sola,
non può rendere ragione di tutti i fenomeni traduttivi, che debbono invece
essere considerati da un punto di vista semiotico più generale”[7]. E quale semiotica ce lo dice senza ulteriori indugi:
“io parto
evidentemente da un’altra teoria del linguaggio, e lo metto in chiaro,
sostenendo che la mia scelta è più fedele a quella di Peirce”[8]
Più fedele come dice Eco non indica una
pedissequa applicazione dei principi peirciani. Come abbiamo detto
nell’Introduzione la semiotica di Eco non è né la semiotica peirciana né la
semiologia strutturalista, bensì una disciplina ibrida che traendo le sue basi
dal pensiero del logico americano si espande in una sorta di semiotica
allargata capace di accogliere al suo interno ogni pensatore che gli fa comodo.
Difatti la concezione di traduzione espressa in Dire quasi la stessa cosa
non è proprio fedele alla lettera peirciana.
Secondo Eco la traduzione è risultato di una
negoziazione. La negoziazione è un concetto che molto ha a che fare con quello
di interpretazione ma non è la stessa cosa, o almeno potrebbe essere concepita
come un arricchimento del concetto di interpretazione perché su di esso si
basa. Eco afferma:
“non basta, per tradurre, produrre un interpretante
del termine, dell’enunciato o del testo originale. Peirce dice che
l’interpretante è quello che mi fa sapere qualcosa di più […] [ma] talora
l’interpretante può anche dirmi un qualcosa di più che, rispetto a un testo da
tradurre, è qualcosa di meno.”[9]
Il significato non è
solo, quindi, l’addizione dei grounds, che ogni volta l’interprete seleziona in base
alla situazione, ma è anche una negoziazione, ovvero una specie di
contrattazione per cui per ottenere qualcosa “si rinuncia a qualcosa d’altro”.
La differenza è sottile ma importante. Nella teoria degli interpretanti il
significato non si negozia, si decide in base a tratti di significati
pertinenti al contesto, la negoziazione, invece, presuppone, un incontro di
volontà divergenti. Nel primo caso è la circostanza a decidere, nel secondo
sono due menti distinte[10].
Nonostante questa appena espressa sia la nostra
posizione e non quella della Gorlée, non possiamo tralasciare il fatto che la
sua raccolta di articoli sia ricchissima di spunti molto interessanti e validi
anche quando cerchiamo di integrarli
nel modello che abbiamo scelto di adottare. Li riporteremo, quindi, adesso, per
avere modo di riflettere sulla traduzione in termini più propriamente
semiotici. I concetti che abbiamo ritenuto più importanti sotto questo aspetto
sono la concezione della traduzione come gioco, l’idea di traduttore-abduttore
e la nozione di semiotraduzione.
Secondo
la Gorlée si può vedere la traduzione come un gioco[11],
compararla ad un puzzle o ad una partita di scacchi, ovvero come “un gioco
decisionale individuale basato su scelte ragionevoli regolate da leggi tra
soluzioni alternative” [T.N.]. La studiosa non usa questa definizione ma forse
sarebbe opportuno vedere nella traduzione una rule-governed creativity. Certe differenze sono evidenti,
come il fatto che esistono alcuni giochi che hanno una unica soluzione
possibile mentre la traduzione può avere più soluzioni accettabili, ma
nell’insieme un gioco ha sempre per lo più lo scopo di trovare una soluzione
pertinente, di creare una situazione più soddisfacente possibile rispetto alle
regole del gioco in questione. Di certo però la metafora del gioco ha il merito
di illustrare correttamente la situazione traduttiva per cui qualcuno si trova
di fronte ad un problema che può risolvere solo seguendo un insieme di regole
(della lingua come del gioco) e portando avanti un approccio per prove ed
errori, ovvero usando l’abduzione.
Traduttore/abduttore è la
risposta al ben noto adagio traduttore/traditore che ormai è facile
incontrare anche nelle fonti in lingua straniera. Spesso il traduttore non
viene associato al traditore che per mettere in rilievo la loro paradossale
incompatibilità: anche se tradurre
consiste nel non tradire, la traduzione più fedele finisce ineludibilmente per
tradire l’originale.
Il traduttore/abduttore non traduce solo operando
deduzioni (dalla regola ai casi particolari) o induzioni (dai molti casi
particolari alla regola), egli opera ipotesi al di là dei dati che ha a
disposizione e cerca di fissare una regola che possa, successivamente, essere
confermata dai dati raccolti nel frattempo o smentita per formularne un’altra.
Il processo decisionale (o ludico) porta il traduttore di volta in volta a
formulare in prima istanza delle ipotesi interpretative e successivamente dei
tentativi di traduzione che possono essere bocciati o assunti.
Tutte le cose finora dette del pensiero della
Gorlée rientrano nel concetto di semiotranslation. Una semiotraduzione è
una buona traduzione, secondo l’autrice:
“Le ‘buone’ traduzioni […] genereranno altre traduzioni,
con abiti migliori, e nel lungo periodo ciò che emergerà idealmente da questo
flusso di semiosi sarà una traduzione che esaudisca le condizioni di verità.”[12]
Dietro quest’affermazione si cela evidentemente il
discorso peirciano. Così come accade per ogni interpretazione che dell’oggetto
chiarisce sempre qualcosa in più così accade anche per la traduzione. Il
discorso fatto riguardo all’interpretante finale (cfr. par. 1.3.5), vale
secondo Gorlée, a quanto pare, anche per una ipotetica traduzione finale che
soddisfi finalmente le condizioni di verità.
In conclusione, nell’introduzione abbiamo dichiarato
che la nostra tesi si fondava sulla convinzione che un processo di traduzione
fosse sempre e comunque un processo di interpretazione in senso peirciano. La
nostra idea era che la traduzione non fosse altro che un interpretante di un
representamen che è l’originale testuale. Abbiamo anche sostenuto che come
interpretante la traduzione non è e non può essere una semiosi duplicata o la
stessa semiosi e abbiamo criticato la Gorlée per questa assurda affermazione
dato che ogni semiosi è unica e irripetibile. Abbiamo anche detto che la
traduzione, essendo un interpretante, sta per; questo sta per
vuol dire che conserva ad un certo grado le caratteristiche del representamen,
ovvero ne arricchisce o impoverisce la portata. Ma adesso ci chiediamo: questo
arricchimento o impoverimento può essere arginato o controllato in qualche
modo?
La risposta è che può esserlo solo “sotto certi aspetti
e capacità” del traduttore. Se vogliamo vedere la traduzione come un processo
di interpretazione siamo costretti a vedere questa versione del triangolo
semiotico:
L’interprete peirciano è nel nostro caso il
traduttore cui la società richiede la produzione di un testo quanto più simile
possibile all’originale. Le esigenze sociali, le sue particolari attitudini e
capacità porteranno l’interprete/traduttore a selezionare del representamen (il
source text) solo alcuni tratti pertinenti (il Ground peirciano) e a
riproporli sotto forma di nuova semiosi (target text). In che rapporto saranno,
allora, l’originale e la traduzione? La risposta che abbiamo proposto
nell’introduzione è ancora quella più valida: il testo tradotto sta in
un rapporto maggiormente iconico con
l’originale (cfr. p. 2). Ovviamente questo è solo indicativo. Se
prendiamo alcuni rifacimenti radicali di testi ritenuti impossibili o difficili
da tradurre[13] ci
accorgiamo che nonostante siano in rapporto fondamentalmente iconico con
l’originale in questi testi aumenta notevolmente il grado di simbolicità.
La traduzione perfetta non è possibile, e nemmeno
duplicare una semiosi è possibile, quindi la traduzione non può essere altro
che un compromesso o, per dirla con Eco, una negoziazione. Nell’introduzione ci
chiedevamo, a tale proposito, se la traduzione non fosse altro che un
accontentarsi con quello che si può fare, ovvero un compromesso cui ci
abbandoniamo sconfitti in partenza. Infatti è proprio questo, abbiamo capito,
la traduzione. L’unica cosa che cambia è che noi percepivamo tutto questo come
una condanna all’infedeltà, come un sacrilegio e invece non lo è. Se tutte le
produzioni segniche, e come tale anche la scrittura creativa, sono forme di
interpretazione, per cui si mente sempre un po’, perché la traduzione,
che in fondo non è che semiosi a sua volta, dovrebbe essere una forma di
interpretazione meno nobile?
Cosa hanno di diverso la produzione segnica
artistica e quella comune? Entrambe sono forme di comunicazione, entrambe sono
forme di interpretazione. Il valore estetico aggiunto è certamente la
discriminante tra i due, ma da cosa dipende questo valore? E’ probabile, a
nostro avviso, che molto di questo valore abbia a che fare con le specifiche
capacità e abilità dell’interprete. Se scrittore, poeta, pittore sono solo
interpreti (in senso peirciano) molto dotati[14]
che riescono a respingere o a oltrepassare i limiti del proprio sistema
semiotico e se questo avviene solo in virtù di esigenze espressive particolari,
quali quelle dell’artista, in cosa dovrebbe essere diverso un traduttore?
Diverso, meglio dotato, certo, del parlante comune, ma non dello scrittore. Come
accade nella scrittura che c’è chi scrive e chi Scrive, così
nella traduzione c’è chi traduce e chi Traduce. Tutti scriviamo
ma pochi di noi sono Steinbeck; allo stesso modo molti di noi a scuola hanno
tradotto nel corso delle lezioni d’inglese o di francese qualche frase tipo “Mentre
Kevin andava a scuola, la mamma preparava già il pranzo” ma questo non vuol
dire che potremmo tutti tradurre The Tyger di W. Blake, almeno non con
grande successo.
Non è la traduzione in senso stretto ad essere un
arrangiarsi con quello che abbiamo a disposizione, ma il linguaggio umano
stesso. Siamo coscienti di avvicinarci pericolosamente con queste dichiarazioni
alla concezione strumentale del linguaggio e peggio ancora al mito babelico, ma
non è questo che vogliamo intendere. E’ nostra convinzione che al pari di altri
sistemi semiotici che l’uomo ha a disposizione per comunicare, la lingua non
possa dire e significare tutto. Se così fosse non si spiegherebbe la ragione
per cui ricorriamo spesso ad altri sistemi come la mimica, la gestualità, etc.
La semiotica studia tutti questi sistemi ed è
decisamente meglio attrezzata di qualsiasi altra disciplina per affrontare
tutti i tipi e i livelli della produzione segnica. Per quanto strano possa
sembrare, nemmeno nella poesia o nella prosa è solo e sempre affare di
linguaggio. Posto di fronte ad un testo da tradurre, un traduttore non deve
solo rendere un testo in una lingua in un’altra lingua, deve tradurre una
cultura nella propria. Un testo, qualsiasi testo, è intensamente ricco di
elementi para- o extra-linguistici di cui solo una disciplina, come la
semiotica, che ha come compito:
“quello
di individuare fenomeni diversi nel flusso apparentemente incontrollabile degli
atti interpretativi”[15]
può dare
ragione. Se ogni atto di traduzione è un atto di interpretazione (e non è vero
l’inverso), allora solo la disciplina che studia le dinamiche degli atti
interpretativi a tutti i livelli ed in ogni sistema semiotico può essere una
cornice teorica e un quadro di riferimento adatti per l’analisi di questo
problema. Questa disciplina è la semiotica, una semiotica ispirata a Charles
Sanders Peirce.
[1] Lefevere propose appunto di
usare studies e non theories o altre formule perché intendeva che
la nuova disciplina racchiudesse prospettive e approcci differenti.
[2] Nell’introduzione abbiamo,
infatti, problematizzato l’uso indiscriminato di semiologia e semiotica come
sinonimi e abbiamo accennato a diverse teorie del segno.
[3] Abbiamo accennato anche ad
altre ricerche che si occupano dell’analisi del significato, in particolare
abbiamo menzionato il modello NSM che si mette alla ricerca di primitivi
semantici comuni a tutte le lingue. Il fatto che finora l’analisi semantica non
abbia dato grandi risultati non significa che non sarà mai di alcun aiuto alla
teoria e alla pratica della traduzione. Di certo, dato l’altro grado di
indeterminatezza di alcuni testi complessi, come quelli poetici, la cui
interpretazione può anche doversi basare solo su inferenze e deduzioni,
l’analisi dei significati non riuscirà mai a portare vero soccorso alla
traduzione.
[4] Cfr. Prampolini (1999) p. 131.
[5] Cfr. Eco (2003:229):
“Nell’esporre queste posizioni di Jakobson (in Eco 1978: 24) scrivevo:
‘Jakobson dimostra che interpretare un elemento semiotico significa ‘tradurlo’
in un altro elemento (che può pure essere un intero discorso). E che da tale
traduzione l’elemento da interpretare risulta sempre creativamente arricchito’.
Come si vede ponevo ‘tradurlo’ tra virgolette, per indicare che si trattava di
un’espressione figurata. […] Vorrei ricordare che avevo sottoposto a Jakobson
il mio saggio, prima di pubblicarlo, e […] In tale sede non c’erano state
obiezioni alla mia virgolettatura”.
[6] Traduzione Nostra.
[7] Eco (2003) p. 257.
[8] Ibid. p. 232.
[9] Ibid.
[10] E non potrebbe essere
diversamente dal momento che, come abbiamo visto, l’emittente peirciano non è
necessariamente umano, quindi in gioco c’è una sola mente, quella del
ricevente-interprete del representamen. Eco, invece, sembra restringere il
campo all’effettiva comunicazione fra due menti.
[11] Un’idea compatibile con
quella della Gorlée è presente nel saggio La traduzione come processo
decisionale di Jirí Levý contenuto in Nergaard (ed.)(1995:63): “dal punto
di vista pragmatico l’attività del tradurre è un PROCESSO DECISIONALE: una
serie di un certo numero di situazioni consecutive – di mosse, come in un gioco
–, situazioni che impongono al traduttore la necessità di scegliere tra un
certo numero di alternative”.
[12] Gorlée (1994) p. 221,
Traduzione nostra.
[13] Eco (2003) propone molti
esempi di rifacimento radicale tra cui la sua stessa traduzione degli
“Exercices de style” di Raymond Queneau.
[14] Non intendiamo in questa
sede esaminare la natura di questo dono. Non vogliamo comunque affermare che
questo sia innato o meno, questo discorso esula dai nostri obiettivi.
[15] Eco (2003) p. 344.