Nuova moralità
della tragedia manzoniana
S.
NIGRO
Esisteva
una condanna della immoralità della tragedia, in quanto eccitatrice di
passioni. Per Manzoni tale immoralità deriva dalla sua particolare verisimiglianza,
determinata dalla sua fedeltà alle, presunte, unità aristoteliche (di
luogo e di tempo): si produce così una sorta di identificazione fra tempo dello
spettatore e tempo dell’azione scenica, identificazione che induce al coinvolgimento
emotivo (e inibisce la riflessione critica).
Liberarsi
dalle unità pseudo-aristoteliche vuol dire favorire
un processo di estraniazione nello spettatore, che diventa giudice
(e non più “complice”) dell’azione; e l’idea del coro come commento esterno
all’azione (del resto già di A. W. Schlegel[1]) è ulteriore
testimonianza di tale intenzione (di fare dello spettatore un giudice
estraniato)[2].
L’argomento,
poi, non saranno le passioni amorose, ma il mistero cristiano del dolore
incolpevole patito dal giusto, di cui Cristo è l’archetipo (dell’eroe
innocente, che è quindi figura Christi:
sarà Carmagnola o Adelchi o Ermengarda): perché questo è il messaggio più alto
che il cristiano possa assumere dalla storia.
La tragedia di Ermengarda
AA.VV.,
Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. III *
Paravia
1993, pp. 533 e 537.
Ermengarda vive
soprattutto nella scena I dell’atto IV (dialogo con la sorella Ansberga e delirio), che si conclude con il coro.
La
scena è costruita con grande sapienza drammatica e psicologica: l’eroina
compare distaccata dalle cose del mondo e protesa verso la liberazione che
attende dalla morte; ma in realtà la passione per il marito e il trauma per il
ripudio non sono sopiti, ed affiorano attraverso successivi indizi: anzitutto
dichiara di voler far giungere a Carlo un messaggio di perdono, poi chiede di
poter conservare nella tomba l’anello nuziale, infine enuncia la speranza che,
una volta morta, Carlo, pentito, voglia chiederne la spoglia. Ma l’amore,
taciuto e quasi nascosto anche a se stessa, emerge in tutta la sua violenza
quando Ansberga le comunica che Carlo è convolato a
nuove nozze: allora precipita nel delirio e confessa apertamente la sua gelosia
(“Scacciate quella donna, o scudieri!” ; “Carlo!..., lancia a costei
quel tuo sguardo severo”), il suo amore intenso e sconvolgente (“Amor
tremendo è il mio. Tu nol conosci ancora; oh!, tutto
ancora non tel mostrai: tu eri mio...”).
E’
qui descritto un grande conflitto psicologico, che è nuovo nella tradizione
tragica: c’era l’antecedente di contrasti interiori determinati da passioni
impossibili perché incestuose, colpevoli (si pensi a Fedra di Racine o a Mirra di Alfieri),
ma la novità di Manzoni sta nell’aver scoperto la possibilità del tragico in
una passione pienamente legittima perché nasce nel campo dell’amore coniugale[3].
E
dunque la tragedia di Ermengarda è, in un certo
senso, doppia:
da una parte è vittima innocente, come il fratello, della ragion di Stato, ma
dall’altra è anche vittima di una passione potente e sconvolgente (“amor
tremendo è il mio”) che la sua stessa coscienza (di creatura fragile,
eterea e virginale) non riesce a comprendere ed accettare.
L’esito
non può essere che mortale: e la morte non solo renderà giustizia ad una
innocente (è il motivo della “provida sventura”),
ma le consentirà di riacquistare quella pace interiore che l’urto con la
passione terrena aveva contaminato (così nel coro: “Muori; e la faccia
esanime / si ricomponga in pace; / com’era allor che improvida / d’un avvenir fallace, / lievi pensier virginei / solo pingea” ).
La prosa
manzoniana
D.
PETRINI, Dal Barocco al Decadentismo,
Le
Monnier, 1957, pp. 38 e segg.
Il
periodo del Manzoni, pur ampio, è tutto fondato sulla cesura (il
suo modello è l’eloquenza oratoria, quale si ritrova, ad esempio, nei discorsi
del Cardinale: “...Siete voi che me la fate provare, voi, dico, che avrei
dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto
pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei
più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo
sperare.”); i particolari risaltano sempre ognuno per sè,
staccati dalla punteggiatura, ora più lieve, ora più ferma (la virgola, il
punto e virgola, i due punti). E’ questo il suo “stile realistico” (“Fare
ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; essere
arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di
comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran
soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni di costui.”).
Quando
invece vuol riprodurre i modi espressivi popolari, fa proprio il contrario (uso
sovrabbondante, quando non anacolutico, delle
congiunzioni): “M’ha mandato il nostro curato, perché questo signore,
Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto) ed è venuto al nostro paese a
parlare al signor arcivescovo (che l’abbiamo là in visita quel sant’uomo) e s’è
pentito dei suoi peccatacci e vuol mutar vita; e ha
detto al Cardinale che aveva fatto rubare una povera innocente, che siete voi,
d’intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m’ha detto chi
possa essere.”.
Altro
esempio del fondo oratorio da cui muove Manzoni è il cosiddetto “raccordo
ternario”: aggettivi, sostantivi, verbi sono precisati tre volte (“accorata,
affannata, attonita ”, “aspre, scure, disabitate ”, “erano
uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli ”, “vino molto
giovane che brilla e gorgoglia e ribolle ”).
La
cesura è caratteristica anche del finale dei periodi: dopo
la pausa dei due punti vengono ripresi e conclusi i precedenti elementi del
periodo.
Si
noti infine la frequenza, nei momenti lirici, del decasillabo,
segnalato dall’accentuazione di tre sillabe in tre sillabe (nella descrizione
della monaca di Monza: “dietro quélle, una mònaca rìtta ”; “bellézza sbattùta,
sfiorìta ”; “velo néro, sospéso e stiràto ”; “sul pètto, a coprìre
lo scòllo ”; “bianchìssima
bénda di lìno ”; “ma nòn
d’inferiòre bianchézza ”).
L’interpretazione
correttiva della realtà
G.
BARBERI SQUAROTTI, Teoria e prove dello stile
del
Manzoni, Silva
1965, p. 7 e segg.
Il
realismo manzoniano non si limita a rispecchiare il reale, ma lo “corregge” o
“integra”. Spia di questo intervento è la sua lingua stessa, in particolare
l’aggettivazione (“poverino ”, “sventurata ”, “malvissuto ”).
Ciò
deriva dalla sua ideologia: la natura è “caduta” (è imperfetta); Manzoni la
guarda dall’alto, come Dio, e la “corregge” (la giudica), ovviamente esprimendo
il suo punto di vista cristiano: riconosce il bene, indica il male. Le cose e i
gesti degli uomini, in sè privi di consistenza
assoluta, dispersi, irragionevoli, segnati dal marchio della caduta, vengono
corretti secondo un rigoroso ordinamento etico-ideologico,
ovvero vengono ricostituiti in colpe (nei “dispregiativi”) o sventure (nei
“commiserativi”), senza possibilità di dubbio e di ambiguità.
L’ambiente del
romanzo: il Seicento
L.
RUSSO, Personaggi dei Promessi Sposi,
Laterza
1965, p. 24 e segg.
Manzoni
ambienta il suo romanzo nel Seicento, perché questo secolo gli pare il più
significativo, per vanità e farisaismo ipocrita,
della perdita di valori morali.
C’è,
subito all’inizio, il manoscritto, retorico e barocco, e quindi simbolo di un
gusto per il pomposo tutto esteriore. Ci sono il puntiglio e il senso
dell’onore (don Rodrigo muove tutta l’azione per spuntare un impegno;
Attilio e il conte zio devono sostenere l’onore del casato; il padre
provinciale, l’onore dell’abito; don Ferrante, l’onore della scienza e delle
regole ortografiche; per l’onore e per il decoro il principe-padre sacrifica la
figlia).
Tutto
ciò è rappresentato molto bene da quell’“etica” cavalleresca che domina
il secolo: è, per definizione, culto delle apparenze, indifferenza alla
sostanza (e quindi ai valori morali).
La parabola
della borghesia nei Promessi Sposi
G.
F. VENE', Capitale e letteratura,
Garzanti
1974, pp. 74-99.
Renzo
e Lucia sono popolani solo all’apparenza (l’aveva già notato, nel 1931, F. Crispolti, con l’immediato assenso di Gramsci):
Renzo infatti, all’inizio del romanzo, è proprietario di un poderetto
e di un mestiere qualificato (tessitore); alla fine del romanzo investe il
capitale (gli scudi dati a Lucia dall’Innominato, più il ricavato della vendita
del terreno all’erede di don Rodrigo - che ha pagato generosamente)
nell’acquisto di un filatoio in società col cugino Bortolo e diventa un
piccolo industriale, dal quale dipendono altri operai. Dunque Renzo è
pienamente inserito nella logica del liberalismo economico (e del resto
Manzoni, quale romantico lombardo, esprime gli interessi della nascente
borghesia imprenditoriale).
Senonché Manzoni avverte
la contraddizione per cui quella classe non esprime gli interessi della collettività,
ma i suoi propri, riproducendo una logica egoistica di conservazione dei
privilegi acquisiti; così Renzo, sistematosi economicamente, non solo deve
vincere gli ostacoli tipici della mano d’opera (“la scarsezza dei lavoranti
e le pretensioni dei pochi ch’erano rimasti”; ma questi erano quegli stessi
fattori che, all’inizio del libro, garantivano che Renzo avesse “di che
vivere onestamente”, grazie alle buone paghe assegnate dagli imprenditori “a
quelli che rimanevano in paese”); ma, soprattutto, Renzo si chiude nel suo
privato, incurante della vita sociale: di qui la rassegnata desolazione
che si avverte nel finale.
L’alternativa
è quella di individui eccezionali (quali il cardinale Borromeo o l’Innominato)
capaci di sacrificare totalmente se stessi per la collettività: ma la loro
azione è limitata a sanare alcuni casi, senza una reale efficacia nei riguardi
dell’organismo sociale; ed è impossibile non accorgersi del tono rassegnato con
cui Manzoni, dopo aver celebrato le virtù del Cardinale o dell’Innominato,
constata che la società è rimasta qual era prima del loro intervento.
L’originalità di questa interpretazione
consiste nell’attribuire a Manzoni un atteggiamento critico nei confronti delle
conclusioni cui arriva Renzo nel finale. I famosi “ho imparato”, con cui Renzo
enuncia la dottrina del rifiuto della politica, non sarebbero il positivo che
Manzoni vuole insegnare ai suoi lettori (come gli hanno sempre imputato i suoi
critici “laici”: si vedano, ad esempio, Gramsci e Moravia), ma il negativo di
cui Manzoni prende atto con “desolata rassegnazione”.
Il realismo
cattolico di Manzoni
A.
MORAVIA, in L’uomo come fine,
Bompiani
1964, pp. 303-343.
Il
realismo cattolico in Manzoni sembra avere gli stessi intendimenti
propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo
della propria visione del mondo (ed in questo, come capita ai realisti
socialisti, riesce artisticamente poco convincente). La stessa scelta del sec. XVII
è funzionale a tale operazione: è il secolo della Controriforma, e cioè
del cattolicesimo trionfante; il presente non sarebbe andato altrettanto bene
(ed è esattamente il contrario di quel che devono fare i realisti socialisti:
il passato è visto come il negativo negato dal presente).
La
presenza del religioso nel romanzo, come personaggi, situazioni, linguaggio, è
senz’altro ipertrofica (il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi,
Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica: è una
battaglia contro l’illuminismo (laddove, al contrario, in Dante
non notiamo forzature ideologiche: quello cristiano è l’unico modo di pensare
possibile, non una visione del mondo - un’ideologia - da contrapporre ad
altre).
E,
come ogni opera di propaganda, fallisce proprio nel momento chiave: quando si
tratta di descrivere la conversione (ovvero la trasformazione del
personaggio da “cattivo” in “buono”); già la cattiveria di un don Rodrigo
o di un Innominato non è motivata con credibilità (è piuttosto gratuita
ed astratta, come, del resto, la bontà del Cardinale; solo il carattere
di Egidio, appena accennato, sembra alludere a qualcosa di diverso e più
profondo); e altrettanto “incredibile” è la conversione (di fra Cristoforo:
impulsiva; o dell’Innominato: astratta); molto più
convincente, al contrario, è la semplicità con cui Agostino narra
la propria conversione nelle Confessioni. Manzoni, invece, riesce quando
deve descrivere il fenomeno opposto: dal bene al male, ovvero la “corruzione”,
privata (di don Abbondio e,
soprattutto, di Gertrude) e pubblica (la peste): in virtù
di una sensibilità decadente ante litteram.
Resta
la simpatia per Renzo e Lucia, per gli umili che sono puri in
quanto fuori della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi
(corrotti) i personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono
alle classi che fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.);
la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla parrocchia e
lontana dalla politica, cosiccome dalla biblioteca.
Il limite è quello del paternalismo: Manzoni è assimilabile al
feudatario erede di don Rodrigo, che “aveva abbastanza umiltà per mettersi
al di sotto di Renzo e Lucia, ma non per stare loro in pari”. E si guardi
la magra figura che il sarto (socialmente modesto) fa davanti al Cardinale:
a conferma di un’inferiorità, oltre che sociale, anche morale ed intellettuale.
Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio,
aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico
dell’uguaglianza umana.
Manzoni: la
scelta del romanzo e il populismo
G.
BALDI, A. Manzoni: cattolicesimo e ragione borghese,
Paravia
1975, pp. 27-41.
Scrivendo
un romanzo, Manzoni compie una scelta di rottura: si trattava di un
genere ritenuto inferiore, per lettori ignoranti e per donne, e perciò
rifiutato dalla cultura alta (oltretutto, appariva anche moralmente
discutibile: rappresentando in maniera troppo viva e diretta la realtà vissuta
e le passioni, si temeva che esercitasse una influenza nefasta e corruttrice
sugli sprovveduti). Il successo del genere nell’Inghilterra del Settecento
è da porsi in relazione con l’affermarsi della borghesia, che chiede una forma
letteraria realistica e popolare (accessibile, non aristocratica). La
scelta manzoniana va quindi compresa nell’ambito di quel movimento culturale
(il romanticismo) che esprime in Italia le esigenze della nascente borghesia.
Il
populismo è quell’atteggiamento che vede il popolo (entità,
peraltro, non sociologicamente determinata) come depositario di tutti i valori
positivi ed autentici. Manzoni ha tale atteggiamento nei confronti del popolo
della campagna (che è spontaneamente laborioso, onesto, altruista,
umile); laddove invece il negativo è visto sia nelle classi superiori
(corrotte, violente, superbe: fanno eccezione pochi individui eroici, come il
borghese Cristoforo e l’aristocratico Federigo)
sia nel popolo della città (sovversivo, avido, violento)[4].
L’idea
di un Manzoni “democratico”, già liquidata da Gramsci (che ha
messo in luce il carattere aristocratico del cattolicesimo manzoniano, evidente
nel distacco ironico e nel compatimento scherzoso con cui è trattato il
popolo), va rigettata per un’altra ragione: Manzoni offre una immagine positiva
del popolo, ma solo in quanto è passivo e rassegnato, in quanto non
pretende di agire per modificare le cose; positiva è Lucia, che sa
che “la fiducia in Dio raddolcisce i guai” e “li rende utili per una
vita migliore” (se non qui ed ora, “provvidamente” nell’aldilà); positivo è
Renzo, ma solo quando ha imparato “a non mettersi ne' tumulti”, “a
non predicare in piazza”, e cioè a non fare politica.
Ciò
che si deduce dai capitoli sul tumulto di Milano è che il popolo ha, sì, molte
qualità ammirevoli, ma, in quanto ignorante, irrazionale, facile all’emotività,
è incapace di agire politicamente (e di autogovernarsi); perciò ha bisogno di
una guida paterna e illuminata; tale guida è reperibile solo nella classe
superiore, ed è costituita da una minoranza di persone (le sole atte a
governare) munite di cognizioni politiche ed economiche, nonché di capacità di
giudizio razionale.
Romanzo senza
idillio
E.
RAIMONDI, Il romanzo senza idillio,
Einaudi
1974, pp. 173-189.
Se
è vero che l’Iliade e l’Odissea
sono i due grandi modelli narrativi occidentali (nel 1° protagonista
è la vicenda storica, entro cui agiscono i personaggi, nel 2° protagonista è
l’individuo, che, attraverso varie esperienze, acquista una personalità o
ritrova la propria), il personaggio di Renzo fa dei Promessi
Sposi una specie di Odissea, non solo perché il suo viaggio dal
contado a Milano si configura come una sorta di Bildungsroman
(romanzo di formazione), ma anche perché è proprio lui (come si dice nel cap. XXXVII) che ha raccontato la storia all’Anonimo.
Ovviamente,
si rintraccia anche l’archetipo della favola, secondo il modello
analizzato da Propp: i due uniti
davanti alla sventura; la partenza e la separazione; le peripezie, il
ricongiungimento e il lieto fine. Ma solo Renzo attraversa i meccanismi del
sistema sociale e ne sperimenta la violenza; tocca a lui la parte di protagonista,
vittima e “cercatore” nei confronti di quella realtà complessa che è la
giustizia; deve provare non solo l’ingiustizia del sopruso, ma anche il
cinismo imbroglione di Azzeccagarbugli e, soprattutto, la “morale” opportunista,
e quindi complice, di don Abbondio[5] (“non
si tratta di torto o ragione, ma solo di forza”); ed è proprio la protesta
contro questa “morale” che lo determina nei suoi comportamenti milanesi. La
giustizia la trova al lazzaretto, quando, ancora una volta, pensa alla
vendetta personale. Solo ora fra Cristoforo gli rivela di avere imparato
sulla propria pelle (ha ucciso un prepotente) che non c’è giustizia nella
violenza, ma solo nel perdono. E non a caso, in conclusione, si
ripropone l’antinomia Renzo-don Abbondio: è quest’ultimo che, alla notizia della morte
di don Rodrigo, celebra la Provvidenza come una “scopa”[6]; Renzo invece
fa appello ad una giustizia superiore (“io gli ho perdonato”). Don Abbondio non ha imparato niente, ed è pronto a ricadere
nell’opportunismo complice.
Renzo,
nella sequenza finale degli “ho imparato”, sembra rassegnarsi alla logica del
curato (è bene farsi i fatti propri): ma questo non può essere; ed è Lucia
a svelare l’“altra” verità: il male del mondo resta inspiegabile
e la fiducia in Dio resta l’unico conforto, l’unica difesa contro di esso.
Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male (altro
che idillio: l’abbandono della terra natale da parte dei protagonisti è paragonato
dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno); i problemi
proposti sin dall’inizio si prolungano inquietanti nelle coscienze; l’ironia
della conclusione consiste in una sorta di sfida al lettore: e se non
fosse vero che, come pensa Lucia, il male ha un senso (è utile “per una vita
migliore”)? E se non l’avesse? Dove finisce la ricerca di Renzo, comincia
quella del lettore.
Ciò che preme a Raimondi è dimostrare che, per Manzoni, non c’è possibilità
di “idillio” nella vita reale: e in questo senso, direi, si tratta di un
“romanzo di formazione” anche per Lucia, la quale (inizialmente prigioniera di
una visione ingenuamente idilliaca della vita, chiusa entro i confini
protettivi della casa e della chiesa) parte dalla convinzione che “la condotta
più cauta” basti a tenere lontano il male e arriva a capire che invece “i guai”
appartengono irrimediabilmente alla condizione umana, e quindi toccano anche ai
giusti e agli innocenti. E questa è anche la convinzione profonda di Manzoni,
secondo cui la condizione dell’uomo nel mondo è segnata per sempre dalla
caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del dolore: certo, la
“fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e lo “rende utile per una vita migliore”, ma
non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente
a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in questa vita),
bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”), si
acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa
vita, e del proprio dovere verso gli altri.
Che ci sia un
dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né in un
opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica) è evidente dal fatto
che tutto il romanzo è una denuncia dura e inflessibile della responsabilità
degli uomini (soprattutto di quelli che governano) nel commettere il male. Il
male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di agire per
contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire per attenuarlo
(non si spiegherebbe altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di
fra Cristoforo, del Cardinale, dell’Innominato convertito).
Dunque, il vero
“sugo” della storia sta nel principio secondo cui bisognerebbe pensare più a “far bene”
che a “star bene” (“e così si finirebbe anche per star meglio”[7]).
E se è così, è
anche superato l’intransigente pessimismo (il “giansenismo”) enunciato nelle
parole di Adelchi morente (“Loco a
gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta
/ che far torto o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la
possibilità che il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non
c’è), quanto perché le suddette parole dell’anonimo rivendicano uno spazio (un
“loco”, per quanto piccolo) per un’azione “gentile” ed “innocente”, sostengono
il dovere (per quanto frustrato) di operare per il bene.
[1]Nelle sue Lezioni
sull’arte e la letteratura drammatica (tenute a Vienna fra il
1809 e il 1811) c’è anche il rifiuto delle unità pseudo-aristoteliche;
tale rifiuto (specificamente, come in Manzoni, delle unità di tempo e di luogo)
sarà poi ripreso da V. Hugo, in quell’altro “manifesto” del romanticismo
europeo che è la Prefazione al Cromwell
(1827).
[2]Si noti come
tale atteggiamento ricordi l’“effetto di estraniazione” (VerfremdungsEffekt)
predicato da Brecht.
[3]E’ un Manzoni,
dunque, indagatore della dimensione psicologica dell’eros: un campo da cui nel
romanzo si terrà sistematicamente lontano (si pensi al silenzio sull’amore di
Gertrude per Egidio, o di Lucia per Renzo).
[4]Insomma,
piacciono “i contadini ossequiosi di Brusuglio con
cui il conte Manzoni si intrattiene in lunghe conversazioni quando si trova in
villa, non il popolo urlante sotto le finestre della sua casa di Milano durante
il linciaggio del ministro Prina (ministro delle
finanze del regno d’Italia, impopolare per le imposizioni fiscali, fu linciato
dalla folla alla caduta di Napoleone, nell’aprile del 1814 ).”
[5]E' lui il
“cattivo” del romanzo, non il “comico” che poi esorcizziamo: così Hofmannstahl (Vienna, 1874-1929); e
giustamente Pirandello lo vede come esempio di “umorismo”.
[6]Non l’autore,
dunque (che certo non si identifica in don Abbondio;
né si identifica con altri personaggi, fra cui anche Renzo, che credono di
riconoscere nella storia i segni della Provvidenza): chi dà una tale
rappresentazione del disordine del mondo, non può “farla così semplice”. E’ il
romanzo non della Provvidenza, ma della responsabilità degli uomini (e la Storia
della colonna infame lo dimostra).
[7]Lo dice
l’anonimo nell’ultimo capitolo, paragonando la condizione umana a quella di un
malato che sta scomodo nel suo letto e immagina, sbagliando, di poter stare
bene in altri letti che vede attorno a sé, piani e ben fatti; e Manzoni
commenta: “è tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in
fondo ha ragione”.