Il concetto di barocco
A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, I,
Einaudi 1955, pp. 457-67;
E. H. GOMBRICH, La storia dell’arte raccontata da,
Einaudi 1966, 1974, pp. 382-87, 430-36;
A. CHASTEL, Storia dell’arte italiana, 2,
CDE 1984, pp. 465-78;
F. ABBATE, Il Seicento in Europa, il Barocco, in St. Univ. dell’arte,
Fratelli Fabbri 1966, pp. 7-53.
Incerta l’origine del termine: dal francese baroque, a sua volta, derivato dallo spagnolo barrueco e dal portoghese barroco (indica una perla di forma irregolare, non perfettamente sferica); o dall’italiano barocco (nella terminologia filosofica, designa un tipo di ragionamento vero solo in apparenza, un falso sillogismo). Come altri concetti che definiscono correnti artistiche (gotico, manierismo), è usato inizialmente in accezione spregiativa (strano, astruso; artificioso e spettacolare, ma vuoto)[1].
Fu il Wölfllin (Renaissance und Barock , 1888) il primo ad indicarne le caratteristiche specifiche che ne fanno un tipo d’arte riconoscibile, in quanto in opposizione all’arte classica (e questo, non solo nel ’600, ma sempre nella storia, secondo una sorta di legge della bipolarità classico-barocco, per cui quest’ultimo ritorna come “alessandrinismo”, “gotico”, “impressionismo”, ecc.)[2]: essenziale è l’aspirazione al “pittorico”, cioè il risolversi delle contenute forme lineari (rinascimentali) in un’immagine mossa, fluttuante, inafferrabile; il cancellarsi dei limiti, per suggerire lo sconfinato, l’infinito; il superamento della visione statica (e simmetrica) dello spazio, a favore di una visione dinamica (la linea è soppiantata dalla curva, le superfici sono mosse, il gioco di luci ed ombre produce effetti pittorici). L’arte classica (la cui solidità ben si esprime entro chiare linee orizzontali e verticali) rappresenta una realtà definita e conclusa; le composizioni dell’arte barocca, invece, paiono quasi incompiute, sembra che possano proseguirsi in ogni senso e che rinviino a qualcosa che sta oltre di loro.
Nella facciata della Chiesa del Gesù , a Roma, di Giacomo della Porta (seconda metà del ’500), il tratto più notevole non è tanto il raddoppiamento di ogni colonna (che conferisce all’insieme più ricchezza e varietà), e nemmeno il doppio incorniciamento circolare sopra la porta, quanto il motivo delle due volute (con svolazzi a spirale) che collegano il piano inferiore a quello superiore. Ma, per quanto riguarda l’architettura, è nell’opera di Borromini (1599-1667) che trionfano i principi del barocco, espressi nelle superfici curve ed ondulate (Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane , Roma), nei profili continuamente spezzati e zigzaganti (di cornicioni e trabeazioni), negli accentuati contrasti di sporgenze e rientranze, di luci ed ombre (Chiesa di Sant’Agnese , Roma, ove, fra l’altro, nei due campanili, motivi circolari si connettono, virtuosisticamente, a motivi lineari; Tiburio e Cupola della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza , Roma: dalla gradinata posta a copertura della volta, s’innalza, in un moto vorticoso, la spirale della lanterna).
Per quanto riguarda la scultura, esemplare è l’opera del Bernini (1598-1680): scenografo grandioso nella realizzazione del colonnato di S. Pietro (1656-1665: si apre a cerchio una quadruplice fila di colonne che esalta lo spazio), è autore del Baldacchino di S. Pietro (1624: vero manifesto della nuova arte per l’adozione delle colonne tortili, il movimento della trabeazione, gli effetti cromatici del bronzo); del David (1623, Galleria Borghese: è colto nella rotazione e nello sforzo che ne fanno una sorta di spirale continua); dei gruppi di Apollo e Dafne (1619, Galleria Borghese: il movimento è esaltato nella torsione delle figure) e dell’Estasi di S. Teresa (1644-47, Roma: notevole l’effetto scenografico e pittorico: dall’alto scende una pioggia di raggi d’oro, ed anche la luce, da un’invisibile finestra; le pieghe contorte e vorticose del panneggio accentuano l’effetto drammatico e dinamico); de La beata Ludovica Albertoni (1674, Roma: testimonianza di un virtuosismo estremo)[3].
Gli effetti scenografici sono evidenti nella pittura. La Gloria di Sant’Ignazio (1685, Roma, Chiesa di Sant’Ignazio: ai muri della chiesa sembrano sovrapporsi altri muri, colonne ed arcate monumentali, che prolungano indefinitamente lo spazio, fra grappoli di figure travolte da un moto prorompente) di Andrea Pozzo (1642-1709) è il capolavoro del genere; effetti simili sono ottenuti da Pietro da Cortona (1596-1669) negli affreschi del Salone di Palazzo Barberini (in particolare, della volta).
Per Hauser, quella barocca può essere vista come l’arte che corrisponde alla rivoluzione copernicana. Se il Rinascimento ha sostituito il teocentrismo medievale con una visione antropocentrica della realtà, ora tale visione è messa in crisi dalla scoperta che la terra (e quindi l’uomo) non è al centro: ciò che resta è l’universo infinito, con infiniti centri, di Bruno. Questo provoca un “brivido metafisico” (è l’angoscia di Pascal davanti al “silenzio eterno degli spazi infiniti” [4] ) che pervade tutta l’arte barocca[5].
[1]Così si esprime, alla fine del Settecento, il neoclassico Francesco Milizia:“Borromini in architettura, Bernini in scultura, Pietro da Cortona in pittura, il cavalier Marino in poesia sono la peste del gusto: peste che ha appestato gran numero d’artisti”.
[2]W. sviluppa il suo sistema valendosi di cinque coppie di concetti, ove si contrappongono un carattere classico ed uno barocco, nel passaggio da una concezione artistica più libera ad una più rigida: lineare e pittorico, visione in superficie e visione in profondità, forma chiusa e forma aperta, chiarezza assoluta e chiarezza relativa, molteplicità e unità.
[3]Qui si comprende l’interpretazione di Wölfllin: la rappresentazione è come uno spettacolo provvisorio, al quale chi guarda ha la fortuna di partecipare proprio per un istante; l’occhio incontra sempre visuali apparentemente fortuite, improvvisate ed effimere (non stabili e ben definite come nel classico); le scene sembrano colte di sorpresa e spiate, quasi con tecnica fotografica.
[4] “Non c’è un dio che si curi di me, il resto è delirio” recita un personaggio del commediografo spagnolo Tirso de Molina (1584-1648); e il poeta inglese John Donne (1572-1631) piange un mondo nel quale “tutto è a pezzi, ogni coesione se n’è andata”.
[5]“Le repentine diagonali, gli improvvisi scorci prospettici, gli effetti di luce accentuati, tutto esprime una possente, insaziabile brama d’infinito. Ogni linea conduce l’occhio lontano, ogni forma in movimento pare che voglia sorpassare se stessa, ogni motivo rivela una tensione, come se l’artista non fosse mai del tutto sicuro di riuscire veramente ad esprimere l’infinito” (Hauser, op. cit.)