INDICE

 

  1 - L’individualità nella Commedia (AUERBACH) -                               

  2 - Struttura della Commedia (AUERBACH) -                                       

  3 - Il canto V dell’Inferno (BOSCO-REGGIO) -

  4 - Gli “accidiosi” nella palude stigia (BOSCO, SAPEGNO) -

  5 - Cavalcante nel canto X dell’Inferno (GRAMSCI) -

  6 - Farinata nel canto X dell’Inferno (BOSCO-REGGIO) -

  7 - Ulisse nel XXVI dell’Inferno (BOSCO-REGGIO) -

  8 - Catone guardiano del Purgatorio (BOSCO-REGGIO) -

  9 - Il canto V del Purgatorio e Pia (BOSCO-REGGIO) -

10 - Il canto VIII del Purgatorio (BOSCO-REGGIO) -

11 - Stazio in Purgatorio XXI e XXII (BOSCO-REGGIO) -

12 - Il recupero dello stilnovismo nel XXIV del Purgatorio (BOSCO-REGGIO)

13 - Il canto XXVI del Purgatorio (BOSCO-REGGIO) –

14 - Il Paradiso Terrestre: la processione e la trasformazione del carro -

15 - Il canto VI del Paradiso (BOSCO-REGGIO) -

16 - Francesco e Domenico nel Paradiso (BOSCO-REGGIO) -

17 - La visione di Dio nel XXXIII del Paradiso (BOSCO-REGGIO) -

 

 

 

L’individualità nella Commedia

 

E. AUERBACH, Studi su Dante,

Feltrinelli 1974, pp. 76-91

 

L’epoca della Commedia è anche l’epoca in cui gruppi di uomini, gesti individuali, escono da una oscurità secolare (è l’età dei Comuni). D. trovava in Tommaso (1225-1274) la giustificazione filosofica della sua attenzione ai caratteri individuali. Tommaso sosteneva infatti che la molteplicità e distinzione delle cose create sono il segno della somiglianza del creato con Dio[1]. Inoltre tutte le cose, nella dialettica potenza-atto, sono in movimento verso Dio[2]: l’uomo solo, dotato di intelletto e volontà, possiede (a differenza delle forme inferiori della creazione - piante, animali - e di quelle superiori - angeli) la libertà di scelta. Così si spiega la storia: l’uomo tende al bene, ma può scegliere beni particolari. Quindi ogni uomo empirico realizza il suo essere compiendo certe scelte, caratterizzandosi secondo un certo habitus (carattere).

D. avverte a tal punto questa “individuazione”, che concepisce un’aldilà in cui gli uomini mantengono per sempre il segno del loro habitus. Di qui anche il fascino della Commedia: le anime non sono fredde allegorie dei peccati, ma vivi caratteri. Per far questo, si trattava di superare un ostacolo teologico: fino al giudizio universale manca il corpo (e le relative sensazioni) e non è data sorte eterna. Su quest’ultimo punto, D. accetta l’idea di Tommaso per cui sorte eterna è data alla morte e il giudizio universale accresce lo stato; sul primo punto va oltre Tommaso, inventando le ombre (anime, con un corpo d’aria, in grado di sentire gioie e dolori).

Questa individuazione delle anime (per cui esse restano segnate dalla loro vicenda terrena) è estranea alla tradizione delle visioni d’oltretomba (la personalità individuale è annullata; esistono piuttosto freddi cataloghi secondo le specie dei peccati). Forse unico modello è la Didone virgiliana, che mantiene il suo dolore (la sua individualità) nell’oltretomba.

A tale individualità si adatta l’espressione linguistica (corrispondente alla condizione del personaggio), cosiccome si adatta il paesaggio, che non è mai visto come aggiunta lirica, ma è fortemente compenetrato con la situazione etica (fisica ed etica non sono divise).

 

 

Struttura della Commedia

 

E. AUERBACH, Studi su Dante,

Feltrinelli, 1974, pp. 91-121.

 

Nella Commedia sono fusi tre sistemi: fisico, etico, storico-politico.

1) Siamo all’interno della cosmografia tolemaica accordata con la filosofia aristotelico-cristiana (cioè, tomista). L’Empireo è l’immobile sede di Dio; il primum mobile inizia il movimento (determinato dall’amore per Dio e dal desiderio di ricongiungersi a lui) e lo comunica a tutto l’universo; così tutte le cose create (piante, animali) sono inclinate naturalmente al bene (amor naturale) e quindi non possono peccare; anche l’uomo, in quanto corpo, subisce l’inclinazione-influsso delle stelle, ma in quanto anima, è dotato di intelletto e volontà: cioè, di libero arbitrio (amor d’animo o d’elezione), per cui può decidere sul suo destino eterno (se salvarsi o dannarsi).

2) Si ha peccato quando l’amore, rivolto ai beni “secondi”, è eccessivo o sbaglia il suo oggetto (diventa un amare il male del prossimo). Ma mentre nel Purgatorio si tratta di espiare (dopo il pentimento) delle “corrotte disposizioni”[3], nell’Inferno sono puniti i peccati commessi con il consenso della volontà (che c’è sempre, anche se, nel caso dei peccati meno gravi - quelli per incontinenza - è offuscato da un eccesso di passione; invece è evidente e determinato nel caso dei peccati più gravi - quelli per malizia). Nel Paradiso stanno le anime che amarono giustamente: tutte ugualmente beate, anche se soggettivamente, nel senso che sono soddisfatte della loro visione di Dio, pari al loro merito; ma oggettivamente esiste una scala che va dal difetto di amore (Luna, Mercurio), all’amore della vita attiva (Venere, Sole, Marte, Giove), all’amore della vita contemplativa (Saturno).

3) I due elementi centrali nella storia sono: la redenzione e la missione di Roma[4]. Dopo la redenzione, l’ordine universale è segnato dalla compresenza dell’autorità temporale e di quella spirituale. Ma l’allegoria del carro (nell’Eden) indica che il disordine comincia con la donazione di Costantino: di qui l’avidità della curia e la disgregazione del potere imperiale. In particolare Firenze, che, con il suo spirito borghese-affaristico, non riconosce, tendenzialmente, autorità sacre, è il luogo della corruzione. L’Eden è simbolo di un mondo pacificato: l’età dell’oro. Le due profezie (del Veltro nel prologo, del DXV nell’Eden) indicano il ripristino dell’autorità imperiale.

 


 

 

 

Il canto V dell’Inferno

 

BOSCO-REGGIO, commento all’Inferno ;

introduzione al V canto.

 

La critica romantica ci vedeva l’esaltazione dell’amore, una Francesca eroica che si riscatterebbe dal peccato in forza dell’intensità del suo sentimento. Ma, si è poi obiettato, nella mentalità di Dante la riprovazione del peccato non può che essere ferma e totale. La verità sta nel mezzo: la condanna del giudizio morale-religioso non esclude la “compassione” sul piano umano, la “pietà”.

Pietà” è appunto la parola chiave del canto (ritorna ai versi 72, 93, 117, 140; e al 2 del canto VI): per negarle il significato di “compassione” (inaccettabile dal punto di vista morale), la si spiega come “angoscia”, “turbamento”, “perplessità intellettuale”. Ma perché Dante non dovrebbe provare compassione (etimologicamente: cum pati ) per un tipo di peccato a cui si sente vicino, un peccato che ha radice nell’Amore, di cui è imbevuta la cultura romanza, dai Provenzali agli Stilnovisti?

Se di fronte al peccato c’è sempre un ripensamento angoscioso alla propria debolezza umana, qui è massimo (fino alla svenimento) perché l’Amore (cui s’appella Francesca per giustificarsi; amore anche adulterino, che non sente altre leggi all’infuori di quelle del “cor gentile” e della necessità di essere ricambiato) è lo stesso Amore codificato da Andrea Capellano e cantato dagli stilnovisti; quell’amore, quindi, che è sempre in bilico fra elevazione spirituale e abisso del peccato.

In tale abisso è facile precipitare, se non si critica il cuore della dottrina espressa da Francesca (vv. 100-105): Virgilio dirà, nel XXII del Purgatorio (vv. 10-12)[5], che “amore, acceso di virtù, sempre altro accese”, a correzione dell’enunciato “amor ch’a nullo amato amar perdona ”; non l’amore-passione, che rimane vincolato all’esteriorità (alla bellezza), alla materialità (alla corresponsione), ma l’amore-virtù, sforzo interiore di migliorarsi, di elevarsi.

In tal senso deve precisarsi la dottrina stilnovista (e in tal senso nella Vita nova  le canzoni della lode, dell’amore gratuito, segnavano un superamento della precedente concezione): una “cristianizzazione” della dottrina oltre gli stessi maestri (non a caso Guinizzelli e Arnaut sono collocati fra i lussuriosi, ancorché nel Purgatorio).

 

 

Gli “accidiosi” nella palude stigia

 

BOSCO, SAPEGNO: commento e note

ad  Inferno, VII, vv. 115-126.

 

Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidioso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra”. Queste sono le parole che, secondo Virgilio, pronunciano i dannati “fitti nel limo” della palude stigia. La prima idea sarebbe quella di catalogarli come accidiosi, ma non si capisce la relazione fra ira ed accidia (che invece ci dovrebbe essere, visto che la palude stigia è il luogo della punizione degli iracondi); anche perché non esiste altrove che due peccati diversi siano puniti nello stesso girone (qualcuno ha forzato in questa direzione, facendo della palude stigia il luogo dove sarebbero puniti i peccati capitali altrimenti esclusi: accidia, superbia, invidia).

La soluzione sta, secondo Bosco, nel commento di Tommaso all’Etica aristotelica: lì si distingue tra iracondi acuti (che subito s’infiammano e presto si calmano), amari (che covano l’ira interiormente come sordo rancore), difficili o gravi (che non trovano pace finché non si soddisfano con la vendetta). Questo sordo rancore delle ultime due categorie sarebbe ciò che rende “tristi” e “accidiosi” (nel senso appropriato, perché chi cova l’ira, come dice B. Latini nel Tesoretto, ha in mente solo quella e non pensa ad alcun bene; ed appropriato, più ancora che per gli iracondi acuti, appare il contrappasso: furono ottenebrati da “accidioso fummo” ed ora sono avvolti dalla melma).

Tutt’altro che sciocca, però, l’idea del Porena che i peccati puniti qui siano, come altrove, gli estremi rispetto al giusto mezzo: se esiste un giusto sdegno (quale quello, frequente, di Dante), è peccato non solo l’ira, ma anche il suo contrario, l’eccesso di mansuetudine (di pazienza), che quindi si manifesterebbe come “accidioso fummo”, ovvero come apatia rispetto alla giusta reazione (incapacità di reagire a fin di bene). Non ben spiegabile, però, resta l’aspetto della tristezza.

 

 

Cavalcante nel canto X dell’Inferno

 

A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale,

Ed. Riuniti 1971, pp. 54-58.

 

Il dramma di Cavalcante non è espresso con parole; linguisticamente è “inespresso”; è la “struttura” della scena che lo esprime (la poesia è nella struttura): c’è l’emergere di Cavalcante, le sue parole (il suo breve scambio di battute con Dante) e il suo ricadere supino (anzi, a contrariis, rispetto a Farinata, viene suggerito “di Cavalcante lo stravolgimento del sembiante, la testa che ricade, il dorso che si piega”).

Il nodo del suo dramma non sta tanto nella questione del merito di Guido a tale viaggio per “altezza d’ingegno” (e quindi diventa secondaria la spiegazione del verso “forse cui Guido vostro ebbe a disdegno [6]); il nodo sta in quell’“ebbe”: se Guido sia vivo o morto. E che il nodo stia qui lo apprendiamo “strutturalmente” a posteriori: quando Farinata ci dirà che loro non vedono nel presente (del dramma, Farinata recita la didascalia: che quindi è, tutt’altro che un’aggiunta dottrinale, indispensabile alla poesia del canto). Il nodo (il centro poetico) sta dunque nel manifestarsi in atto della specifica pena degli epicurei.

In questo modo Gramsci rivalutava la seconda parte del canto, espunta dalla critica romantica.

Mi pare che resti un problema: come si spiega questa angoscia di Cavalcante per una eventuale morte di Guido? Va bene la pietas del padre per il figlio; ma da morto, come ci si può disperare per la morte di un altro, anche se figlio? Proprio da morto si dovrebbe riconoscere la precarietà della vita e l’ineluttabilità della morte. Allora perché l’angoscia? Perché, se Guido è morto, “non fiere gli occhi suoi lo dolce lome. L’angoscia è data dal pensiero che Guido possa aver perso il godimento della luce del sole; ed è comprensibile che questa idea possa essere angosciosa dal punto di vista di Cavalcante, che è un dannato. Ma, a rigore, Guido potrebbe aver perso la luce del sole per acquistare la luce eterna della beatitudine (in Paradiso). Vorrà dire che Cavalcante sa già che per Guido la morte significherà dannazione.

 

 

Farinata nel canto X dell’Inferno

 

BOSCO-REGGIO, commento all’Inferno;

introduzione al canto X.

 

L’interpretazione di Gramsci mette al centro Cavalcante perché in lui si esplica la “pena in atto” (l’epicureo non può vedere il presente: è un contrappasso per contrapposizione, dato che in vita “videro” solo il presente, e la sua materialità corporea, e non “videro” il futuro, ovvero l’immortalità dell’anima): ma bisognerebbe dimostrare che tale condizione non sia di tutti gli eretici, o addirittura di tutti i dannati.

Chi dice che è il canto degli affetti terreni (la politica e l’amor paterno) non considera che il restare inchiodati al peccato (e quindi al terreno) è di tutti i dannati (altrimenti ci sarebbe una sorta di rimorso).

Il X è, semplicemente, il canto di Farinata, la cui sorte Dante sente particolarmente vicina alla propria. Anche Dante subisce (nel 1315) la legge che bandisce i figli degli esuli (pur di non umiliarsi davanti alla prepotenza dei vincitori: per coerenza politica e rispetto per se stesso). E poi: Dante esule è già vicino al ghibellinismo (e quindi non si tratta, come parrebbe a prima vista, dello scontro fra due uomini di parte avversa). Infine: dopo il 1266 furono gli Uberti (e non tutti i ghibellini) ad essere esclusi da ogni amnistia.

Quindi: il “gran dispitto” di Farinata nei confronti dell’inferno si spiega perché lui è tutto fisso al problema che l’angoscia: l’aver compiuto il proprio dovere patriottico (con un’ombra di dubbio: ho forse ecceduto? Sembra giustificarsi quando dice: “non fui io sol”) e l’aver coinvolto i propri discendenti nella condanna. Il diverbio con Dante è nella logica del “rinfaccio” fra famiglie (e non fra fazioni); e che ci sia un’affinità di fondo (e non una rivalità) fra i due interlocutori, è dimostrato dal fatto che, infine, Farinata profetizza a Dante un analogo destino: quello dell’esilio, e quindi della lacerazione fra il proprio dovere politico-morale e il dovere di padre.

Che qui sia il nodo poetico del canto (che il poeta senta fortemente, ed intenda esprimere, questo dramma) ci è confermato dalle parole augurali con cui Dante si rivolge a Farinata: “Deh, se riposi mai vostra semenza...

 

 

Ulisse nel XXVI dell’Inferno

 

BOSCO-REGGIO, commento all’Inferno;

introduzione al canto.

 

Il peccato sembra essere collegato ad un uso fraudolento della parola (per ingannare, a fine di male): e il contrappasso sembra consistere non solo nell’essere coperti dalla fiamma (cosiccome loro agirono per “vie coperte”), ma anche nella difficoltà di parlare (la fiamma è vista come una lingua che parla a fatica).

Quanto a Ulisse, è evidente dal testo che Dante (che non conosceva il greco) non conosceva né l’Odissea  né i riassunti della stessa; conosceva il personaggio tramite gli autori latini (Cicerone, Orazio, Seneca) che lo presentano come astuto e “desideroso di conoscenza”. Ma quella sulla sua fine è invenzione tutta di Dante: sembra risentire della letteratura cortese d’avventura (quella di Ulisse può sembrare la “ricerca” del cavaliere; e ci sono termini tecnico-cavallereschi come “perduto” e “sottrasse”); e forse c’è l’eco dell’impresa dei fratelli Vivaldi, che nel 1291 partirono per l’occidente e non tornarono mai più. Per altro non si può non pensare che Dante senta un’affinità con l’eroe che rinuncia alla pietas familiare (come lui esule) per una meta più alta.

Certamente superata l’interpretazione romantica che faceva di Ulisse un eroe della ribellione (e del libero pensiero), che va oltre le colonne d’Ercole perché non tollera limitazioni: nell’“orazion picciola” non ci sono riferimenti a violazioni o ribellioni. Ma anche da rifiutarsi è l’interpretazione che collega il viaggio (e il suo esito) al peccato per il quale Ulisse è punito (la frode attraverso la parola sarebbe attuata a danno dei compagni  con l’“orazion picciola”: ma come ci si può vedere la frode, se l’unico argomento usato è l’invito a spendere la poca vita residua in un rischio  estremo?). Si deve invece distinguere il peccato per il quale Ulisse è punito, dalla tragedia implicata dal viaggio. Il naufragio è necessario perché il volo è “folle”, ovvero non sostenuto dalla grazia di Dio (come indicano chiaramente i rilievi sull’uso della parola “folle” nella Commedia [7]); il varcare i limiti delle colonne d’Ercole è simbolo della presunzione della ragione di poter tutto conoscere prima della rivelazione[8]. Né in Ulisse è punita la curiositas  (che Cicerone attribuisce agli uomini frivoli), perché tutta la tradizione classica gli attribuisce un nobile amore di sapienza; vuole raggiungere quella conoscenza cui l’uomo è naturalmente (non colpevolmente) inclinato; la sua tragedia è la tragedia dei grandi pagani, per cui Virgilio dirà, malinconicamente, in Pg. III, 38-39: “ma se possuto aveste saper tutto, mestier non era parturir Maria”.

 


 

 

Catone guardiano del Purgatorio

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;

introduzione al canto I.

 

Come mai Catone (l’Uticense; stoico, repubblicano, e quindi fiero pompeiano, nato nel 95 a. C., si uccise in Utica nel 46 a. C., pur di non arrendersi alla vittoria di Cesare), pur essendo pagano, suicida ed anti-cesariano, è assunto da Dante a guardiano del Purgatorio, è inteso come un modello insuperabile di virtù?

C’è tutta una tradizione classica (da Lucano nei Pharsalia[9], a Cicerone nel De Officiis[10], allo stesso Virgilio, che ne fa il custode dei “pii” nell’oltretomba[11]) che esalta la sua figura come quella di un eroe che rinuncia alla vita per la libertà. E Dante risente di tale tradizione, già nel Convivio  (IV, XXVIII, 15-19: “quale uomo terreno fu più degno di significare Iddio, che Catone?”) e nel Monarchia (II, V, 15: “illud inenarrabile sacrificium severissimi vere libertatis auctoris Marci Catonis”).

Allora, quanto al pagano: trascende tale condizione, è salvato per via misteriosa dalla Grazia (e quindi “estratto” dal Limbo insieme ai Patriarchi), perché ha trovato la luce pur essendo nelle tenebre del paganesimo. Quanto all’anti-cesariano: il fatto che la libertà sia perseguita contro Cesare, è occasionale, legato alla contingenza storica: la libertà cercata è allegoria (meglio: figura[12]) di quella interiore, dello spirito sulla materia, della virtù sulle passioni. Cesare e Catone sono quindi su piani diversi: l’uno rappresenta l’esplicitarsi della Provvidenza sul piano della storia, l’altro un valore metastorico (quello della libertà interiore).

In questo senso la morale stoica si congiunge con quella cristiana, e allora anche il suicidio, pur negato dall’etica cristiana (ma Agostino e Tommaso lo ammettono, quando è ispirato da Dio perché sia di esempio agli uomini; e comunque, noterei che i pagani vanno giudicati in rapporto alla loro morale), diventa simbolo di una vittoria. Del resto, come è vero che Didone e Cleopatra, pur suicide, sono punite per la lussuria, così è vero che Catone, pur suicida, può essere assunto a modello di virtù: quella virtù, la libertà interiore, che anche Dante cerca, attraverso il viaggio.

 

 

Il canto V del Purgatorio e Pia

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;

introduzione al canto V.

 

Il canto inizia con il rimprovero di Virgilio perché Dante si è lasciato distrarre dall’ammirazione delle anime: l’evidente sproporzione tra l’occasione (un semplice rallentamento) e l’ampiezza (e asprezza) del rimprovero si spiega pensando che si sono appena lasciati i pigri, e quindi il monito è generale contro la pigrizia e la mancanza di determinazione verso la meta.

Sapegno nota come la nuova schiera si caratterizzi già all’apparire (vedi il paragone coi vapori accesi) per una sorta di affanno o di agitazione, che certo non c’era nei pigri (e nemmeno negli scomunicati): segno di un desiderio più intenso di comunicare con Dante, e segno della loro “morte per forza” che li ha lasciati più timorosi di essere dimenticati dai vivi (e quindi più vogliosi di essere ricordati).

E poi la narrazione dettagliata, concreta (sembra una sceneggiatura cinematografica), punteggiata da riferimenti al sangue (di Jacopo e Bonconte) in un crescendo drammatico che ha il suo culmine nella descrizione della tempesta che travolge il corpo di Bonconte: quindi lo stacco, il mutamento di tono, appena quattro versi in cui la Pia non descrive, non dice chiaramente, ma allude.

Di lei niente sappiamo: uccisa perché infedele? Per una immotivata gelosia del marito? Perché questi voleva convolare a nuove nozze? Tutto può essere (e poeticamente può tornare). Ma quel che c’è nel testo è la pietà affettuosa con cui la figura è disegnata: anche le due anime precedenti erano state cortesi con Dante, ma quella di Pia è una cortesia tutta femminile, fatta di riferimenti alla fatica fisica, tutta umana, del viaggio (e non, una volta tanto, al suo valore salvifico); e il modo di riferirsi alla propria morte (dissolve la figura dell’assassino in quella dello sposo) fa contrasto con la maledizione di Francesca (Caina attende chi a vita ci spense”, Inf. V, 107) e si collega al tono non accusatorio, pudico, di Piccarda (“Uomini, poi, a mal più ch’a bene usi...”, Pd. III, 106).

 

 

Il canto VIII del Purgatorio

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio;

Introduzione  al canto.

 

Se nel Purgatorio il sentimento dominante è quello della nostalgia, il canto VIII è quello dove tale sentimento si dispiega più pienamente: nostalgia dell’esule dalla patria terrena, come si avverte nelle famose terzine iniziali del canto (e il motivo dell’esilio ritorna in quelle conclusive, nell’incontro con Corrado Malaspina), e nostalgia delle anime dalla patria celeste, come si avverte nella loro preghiera e nella loro trepidante attesa dell’evento temuto.

Il canto, similmente ad If. X, ha una struttura particolare, fatta di intrecci e riprese successive: dopo l’incipit e la preghiera delle anime (e l’avvertimento al lettore di “aguzzare gli occhi”), inizia la “sacra rappresentazione” con l’arrivo degli angeli e la loro collocazione agli estremi della valletta; quindi c’è l’incontro con Nino Visconti; segue un intermezzo astronomico, quindi la ripresa e conclusione della “sacra rappresentazione” (arrivo del serpente  e sua cacciata); chiude il canto il dialogo con Corrado Malaspina.

L’incontro con Nino è l’incontro con un vecchio amico, legato a piacevoli ricordi di giovinezza, verso il quale Dante ha lo stesso slancio di nostalgico affetto che ha avuto per Casella, Belacqua, e avrà per Forese. Eppure quel capo guelfo era stato protagonista di quelle stesse lotte feroci che avevano dannato orribilmente il di lui nonno materno, conte Ugolino: ma qui il motivo politico è del tutto offuscato da un altro motivo, quello del marito dimenticato dalla vedova (Beatrice d’Este), risposatasi con un altro uomo (Galeazzo Visconti, signore di Milano), per di più ghibellino: il personaggio vive nella amarezza di questa dimenticanza, un sentimento che trascolora nella compassione (non ci può essere rancore) per la sorte della vedova, cui il nuovo matrimonio non ha portato fortuna (cacciato il Visconti da Milano, per lei e per la figlia ci sono stati solo dolore e povertà).

Quanto alla “sacra rappresentazione”, ciò che succede (ed in questo senso sarà da intendersi l’avvertimento ai lettori: sia che voglia dire che è facile vedere la verità, sia che è facile fraintenderla) non riguarda, evidentemente, anime già salve, ma tutti i vivi, sempre soggetti al rischio della tentazione (l’intermezzo astronomico significherà allora che in una tale lotta non bastano le forze umane - virtù cardinali - ma ci vuole la Grazia divina - virtù teologali); e le spade tronche degli angeli significheranno non tanto che servono per difesa quanto che basta solo mostrarle per ricordare all’avversaro”   l’antica sconfitta.

L’atteggiamento di Corrado (che fissa Dante, indifferente sia alle parole di Nino che alla “sacra rappresentazione”) ricorda quello di Cavalcante in If. X: con l’elogio della sua famiglia Dante non solo paga un debito di gratitudine (esule, sarà ospitato dai Malaspina), ma esprime un sincero sentimento di nostalgia per le virtù cavalleresche (“il pregio della borsa e de la spada”: cortesia e valore) che si vanno perdendo con l’affermarsi della società mercantile.

 

 

Stazio in Purgatorio XXI e XXII

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio,

introduzione ai canti XXI e XXII.

 

1) Dante lo dice “tolosano”, confondendolo con un altro Stazio (il retore, vissuto in età neroniana); dalle Silvae (cinque libri di poesie d’occasione) è chiaro invece che era napoletano (45-96 d. C.). Ma Dante non conosce le Silvae[13]; eppure sa che fu incoronato poeta: evidentemente, non dalle Silvae, ove risulta chiaro (III, 28-31), ma dall’Achilleide  (il suo secondo poema epico, rimasto interrotto alla metà del secondo libro per la morte del poeta: “caddi in via con la seconda soma”) ove Stazio invoca Apollo per essere incoronato una seconda volta.

2) Circa la questione della prodigalità, non basta, per giustificare l’“informazione” di Dante, la Satira VII di Giovenale dove si dice che Stazio era molto povero (e quindi prodigo, visto che era poeta di successo); infatti la gloria poetica (lo lamenta lo stesso Giovenale) non comportava ricchezza. E’ da supporre, come anche per l’“informazione” della conversione di Stazio, una fonte biografica a noi ignota.

3) Il doppio peccato (avarizia-prodigalità) compare solo qui, e, checché ne dica ora Stazio[14], mal si concilia con il contrappasso e con i personaggi incontrati nelle altre cornici. Evidentemente a Dante preme stigmatizzare questo peccato (la prodigalità) che altrimenti dalla cultura cortese è ritenuto pregio, segno di gentilezza (allo stesso modo, in XXII, 11-12, viene contestato il grande pregiudizio cortese della irresistibilità dell’amore); e la denuncia della prodigalità è già in una delle Rime ed in una canzone del Convivio.

4) Il senso dei due versi virgiliani (Aen. III, 56-57: “Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames?”, cioè “a che cosa non spingi tu, esecranda fame dell’oro, gli animi umani?”) è evidentemente frainteso: in Virgilio è inequivocabile la denuncia dell’avarizia-avidità (Polinestore ha ucciso Polidoro per impadronirsi delle sue ricchezze); in Dante (che traduce: “perché non reggi tu, o sacra fame / dell’oro, l’appetito de’ mortali?”, e intende: “perché non governi tu – con giusta misura – i desideri umani, o santa – quando sentita con giusta misura – fame dell’oro?” ) è inteso come rivendicazione di un giusto desiderio di ricchezza e diventa monito contro la prodigalità[15]. Siccome è inaccettabile l’idea di una incomprensione di Dante, si deve pensare ad una interpretazione volontaria, secondo la convinzione medievale che dietro le parole poetiche si nascondano più sensi (e che quindi sia legittimo trovare quello che si cerca).

5) Circa il cristianesimo di Stazio, si cercano argomenti nella Tebaide[16] ; ma quella della conversione (e del restare “cristiano chiuso”) è un topos medievale, attribuito anche ad autori vissuti prima di Cristo (e, insieme alla questione della prodigalità, ci fa supporre una biografia medievale a noi sconosciuta).

 

 

Il recupero dello stilnovismo

nel XXIV del Purgatorio

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio;

introduzione al canto XXIV.

 

La dichiarazione di poetica stilnovistica, tutt’altro che essere fuori luogo, come è stato detto, ben s’inserisce nel contesto dell’incontro con Forese: alla rievocazione della dissipata vita giovanile (e del gusto letterario che ne era il riflesso) segue il ricordo della riconquista della moralità (ovvero, della celebrazione stilnovistica dell’amore-virtù).

La novità della poetica in questione non consiste (come si potrebbe pensare, ad una lettura superficiale dei famosi versi di risposta a Bonagiunta Orbicciani) in una sorta di realismo sentimentale svuotato di ornamenti letterari (giacché, anzi, il carattere colto e dottrinale è una caratteristica del gruppo).

Anzitutto, la “dolcezza”: ha a che fare con la lingua, che non presenta più le dissonanze e gli aggrovigliamenti sintattici di un Guittone, ma si fonda su vocaboli dal suono non “aspro e chioccio”: prevalentemente di misura trisillabica, piani, cioè non sdruccioli né tronchi; senza z o x, doppia liquida (l, r) o incontro di muta (o occlusiva: p, b, t, d) più liquida.

Quanto alla “novità”, essa è da ricercarsi in quel capitolo della Vita Nova ove Dante riconosce il valore dell’amore in sé, indipendentemente dalla corresponsione: ciò comporta che la sua rappresentazione cessa di essere quella di una vicenda sentimentale a due (come era stata per i poeti precedenti, ed anche per gli stilnovisti: Guinizzelli aveva, sì, estremamente spiritualizzato l’amore, ma lo stilnovismo non si era liberato dal peso della tradizione, che imponeva preghiere di corresponsione, lamenti per l’indifferenza della donna; ancor peggio, Cavalcanti vedeva l’amore come angoscia mortale, obnubilamento della ragione) per diventare pura introspezione (“noto” quel che amore “ditta dentro”), descrizione dei sentimenti esaltanti provocati dalla presenza della donna amata, slancio verso l’alto. E’ l’amore-passione (oltre il quale non sa sollevarsi Cavalcanti) che può recare dolore, non questo amore-virtù, che è aspirazione al bene.

Questo è, però, lo stilnovismo di Dante, che egli, qui, attribuisce a tutto il gruppo: evidentemente egli pensa che anche gli altri (escluso Cavalcanti?) tendevano, pur senza averne coscienza, a questo amore-virtù. Da questo punto di vista, gli sembra che la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore dia voce ad una esigenza collettiva, fin allora inespressa.

 

 

Il canto XXVI del Purgatorio

 

BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;

introduzione al canto XXVI

 

Il tono stilistico è sostenuto, sia per rime difficili (adre, arche, igio, ostri) o equivoche (legge, turba), sia per parole rare (s’ammusa, s’inurba, ecc.), sia per ricercatezza di immagini (la morte come una rete, Cristo abate del collegio): e sarà da attribuire al valore alto dei personaggi incontrati.

E’ il canto in cui si celebra, nella figura di due grandi maestri (Guinizzelli e Arnaut Daniel), la grandezza della poesia in volgare. E la commozione di Dante davanti a Guinizzelli è paragonabile a quella di Stazio davanti a Virgilio (Pg. XXI-XXII). Siamo all’interno di quel recupero dello stilnovismo, già iniziato in Pg. XXIV, in occasione dell’incontro con Bonagiunta: quella esperienza aveva raffinato la poesia (rispetto alla grossolanità di un Guittone), a prescindere dal fatto che l’amore cantato fosse ancora un amore-passione, e non ancora un amore-virtù (e sarà questa la ragione per cui, escludendo improbabili biografie a noi sconosciute, Guinizzelli ed Arnaut Daniel sono collocati fra i lussuriosi). Che Dante abbia in mente proprio questa loro qualità di artefici della lingua, lo si deduce dall’appellativo (fabbro del parlar materno) con cui indica Arnaut (preferito a Giraut de Borneihl, proprio perché, come autore del trobar clus, aveva operato un duro lavoro di raffinamento sul grezzo materiale della lingua volgare).

Nello stesso senso andrà intesa la polemica contro Guittone (anche se questo lascia qualche perplessità, perché Guittone non era certo poeta rozzo: ma bisognerà pensare che è proprio la volontà di marcare la superiorità dello stilnovismo che spinge Dante ad eccedere in un giudizio liquidatorio nei confronti del vecchio maestro).

 

   

Il Paradiso Terrestre: l’allegoria della processione e della trasformazione del carro

 

Dante, in compagnia di Virgilio e Stazio si inoltra nella selva del Paradiso Terrestre finché giunge ad un ruscello (è il Letè), oltre il quale scorge una donna che si aggira cantando e cogliendo fiori. E’ Matelda[17], la quale, su richiesta di Dante, risponde ad alcune domande: essendo il Purgatorio (dalla porta in su) libero da perturbazioni atmosferiche, l’agitarsi delle fronde non è dovuto al vento “naturale”, ma a un movimento dell’aria causato dal rotare del Primo Mobile; le piante, che qui si trovano, impregnano l’aria della loro virtù seminale, e l’aria, a sua volta, comunica tale virtù alla terra abitata dagli uomini, dove quindi possono nascere piante anche “senza seme palese”; ci sono due fiumi (Letè ed Eunoè), che non nascono da una sorgente naturale, ma dalla volontà divina; questo è quel luogo, conclude Matelda, di cui gli antichi favoleggiarono quando parlarono dell’età dell’oro.

Successivamente invita Dante ad osservare la processione che sta giungendo lungo la riva del fiume, accompagnata da un canto melodioso: è preceduta da sette candelabri (simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio), sovrastati e seguiti da sette liste luminose (i benefici effetti dei suddetti doni); vengono quindi, a due a due, ventiquattro seniori (i 24 libri del Vecchio Testamento) vestiti di bianco e coronati di gigli (a simboleggiare la purezza della loro dottrina); poi quattro animali (i 4 evangelisti), coronati di fronde  verdi (eterna giovinezza del vangelo), dotati di sei ali (rapidità della diffusione del vangelo) piene d’occhi (conoscenza del passato e del futuro); in mezzo a loro avanza un carro (la Chiesa), poggiato su due ruote (il Vecchio e il Nuovo Testamento), trainato da un grifone (animale con corpo di leone, testa e ali di aquila: indica Cristo, e la sua doppia natura); alla destra del carro ci sono tre donne (virtù teologali: fede, speranza e carità), alla sinistra quattro donne (virtù cardinali: prudenza, fortezza, giustizia e temperanza); seguono due vecchi (S. Luca, autore degli Atti degli apostoli; S. Paolo, autore delle Lettere); quindi quattro personaggi di umile aspetto (i 4 libri delle epistole di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, succinte e brevi); infine “un vecchio solo” (S. Giovanni, autore dell’Apocalisse) che procede dormendo (perché il libro è in forma di visione).

La processione si ferma e, quando i 24 seniori gridano rivolti al carro “Veni sponsa de Libano”, compaiono angeli che gettano fiori; in mezzo alla nuvola di fiori appare Beatrice. Dante sente in sé “i segni dell’antica fiamma”, si volge verso Virgilio, ma Virgilio non c’è più. Dante piange, sentendosi abbandonato. Beatrice lo chiama per nome e lo invita a piangere per ben altro dolore: lo accusa di averla tradita, di essersi abbandonato, dopo la sua morte, ai falsi allettamenti del piacere, di essere caduto tanto in basso da rendere necessario il suo intervento (discesa nel Limbo a pregare Virgilio di guidarlo nell’oltretomba) per evitargli la dannazione; prima che passi il Letè dovrà versare sincere lacrime di pentimento. Invita Dante a confessare apertamente le sue colpe, ma costui, confuso e umiliato non sa fare altro che piangere a testa bassa. “Alza la barba”, gli ordina lei, e guardami. Dante non regge alla sua vista e sviene. Rinviene nell’acqua del Letè, ove Matelda lo sta immergendo; quindi lo porta sull’altra riva del fiume e lo affida alle quattro donne, le quali a loro volta, dopo averlo invitato a fissare gli occhi di Beatrice, lo affidano alle tre donne: queste pregano Beatrice di svelare al suo fedele “la seconda bellezza” (si intende quella della bocca, essendo quella degli occhi la prima). Ella si rivela allora sorridente e tanto bella che nessuno scrittore saprebbe renderne una pallida immagine.

Quindi la processione, con una conversione simile a quella di un esercito, torna indietro e Dante la segue a fianco del carro, insieme a Stazio e a Matelda. Si fermano davanti ad un albero (enorme e “rovesciato”, come quello nella cornice dei golosi): è l’albero della sapienza del bene e del male e moralmente rappresenta la giustizia divina, violata dalla disobbedienza di Adamo ed Eva; da allora è “dispogliato”, e ora rinverdisce e rifiorisce (di fiori dal colore fra il rosa e il viola: forse simbolo del sangue di Cristo), nel momento in cui il Grifone attacca ad esso il carro (la redenzione, e quindi l’opera della Chiesa che reintegra la giustizia violata). Dante si addormenta al canto di “quella gente”, e quando si risveglia la processione se n’è andata, si ritrova solo con Matelda, Stazio, Beatrice e le sette donne. Beatrice è seduta a terra a guardia del carro e chiama vicino a sé Dante. Lo invita a guardare e a riferire ciò che vedrà. Un’aquila scende dal cielo, attacca la pianta e scuote il carro (sono le persecuzioni dell’impero nei confronti della Chiesa). Quindi si avvicina al carro una volpe affamata, ma Beatrice la mette in fuga accusandola di “laide colpe” (sono le eresie vinte dalla giusta dottrina). Poi torna l’aquila e lascia cadere alcune penne sul carro (è la donazione di Costantino). Ora si apre la terra sotto il carro, ne esce un drago che con la coda a mo’ di pungiglione porta via un asse dal fondo e se ne va (probabilmente la religione musulmana, che sottrae fedeli alla Chiesa). Le penne lasciate dall’aquila germogliano sul resto del carro, che rapidamente si trasforma in un mostro (degenerazione della Chiesa a seguito della donazione di Costantino, e quindi dell’acquisizione di potere temporale) con sette teste (tre sul timone, quattro negli angoli: saranno i sette peccati capitali). Sul carro si siede una puttana “sciolta” (sfrontata, senza ritegno: sarà la curia romana); di fianco a lei compare un gigante (il re di Francia, Filippo il Bello) che la bacia (sottomissione della curia alla volontà della Francia) e poi, siccome lei guarda Dante (il popolo cristiano), la batte (oltraggio di Anagni) e trascina il mostro nella selva (trasferimento della sede papale ad Avignone, voluta da Filippo il Bello e realizzata da Clemente V nel 1305)

 


 

  

 

Il canto VI del Paradiso

 

BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso;

introduzione al canto VI.

 

La simmetria dei “sesti” canti nelle tre cantiche si può accettare, con l’avvertenza che l’accento batte sempre (che ci si riferisca alle condizioni di Firenze, dell’Italia o dell’Impero) sul male della lotta tra fazioni.

Qui il discorso si amplia con l’esaltazione della funzione provvidenziale dell’Impero: la storia tende verso quel punto (la plenitudo temporis di cui parla S. Paolo) in cui si attua la redenzione (il peccato universale è punito da un potere universale); dopodiché l’Impero mantiene quella funzione di guida del mondo (in concordia con la Chiesa) ereditata, senza soluzione di continuità, dal Sacro Romano Impero.

Ma perché a celebrare l’aquila è scelto Giustiniano, la cui sede non era stata Roma? Senz’altro perché autore di quel Corpus Iuris che fa sì che sopravviva l’unità giuridica, quando si spezza l’unità politica: e del resto l’aquila è simbolo non solo dell’Impero, ma anche della giustizia (e il valore del diritto romano è affermato anche in Pg. VI, quando si dice: “che val che Giustinian ti racconciasse il freno se la sella è vota?”).

Altra questione è se nel dire che l’aquila fu portata “contro al corso del ciel ” sia implicito un giudizio negativo (“contro natura”) verso Costantino. Certo, negativo fu l’andare a Bisanzio lasciando Roma al Pontefice (la “donazione” è ritenuta autentica); ma Costantino è fra i giusti che formano l’occhio dell’aquila nel cielo di Giove, e qui il ritorno nella Troade (da dove l’aquila era partita) sembra visto piuttosto come il compimento di un ciclo, come segno dell’universalità dell’Impero che spazia da est a ovest.

Con stacco narrativo (dal tono esaltato a quello dolente) viene poi evocata la figura di Romeo[18]: un piccolo personaggio (e una piccola storia) accanto a uno grande (la giustizia di Dio uguaglia tutti). Ammenda di Giustiniano per il suo atteggiamento nei confronti di Belisario[19], analogo a quello che, secondo la leggenda, Raimondo di Provenza avrebbe avuto nei confronti di Romeo? O, semplicemente, altro personaggio in cui Dante commisera il suo stesso destino di esule? Destino simile, peraltro, a quello di Pier della Vigna, che, come Romeo e come Dante, non aveva accettato l’umiliazione di dover rendere conto del suo operato. I provenzali sono stati puniti; e così lo saranno i fiorentini.

 

 

 

Francesco e Domenico nel Paradiso

 

BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso,

introduzione ai canti XI e XII.

 

Due canti concepiti unitariamente, con l’intento di celebrare i due campioni (proprio mentre i rispettivi ordini sono separati da un’accesa rivalità) che hanno combattuto contro i nemici della Chiesa: Francesco contro quelli interni (il clero avido di ricchezze), Domenico contro quelli esterni (gli eretici). E Dante ha senz’altro in mente la profezia di Gioacchino da Fiore, che aveva parlato di duo viri che avrebbero sostenuto la Chiesa pericolante. Di qui l’accurato parallelismo simmetrico della costruzione: un domenicano (Tommaso) fa l’elogio di Francesco (e denuncia il traviamento del proprio ordine), un francescano (Bonaventura) fa l’elogio di Domenico (e denuncia il traviamento del proprio ordine); per entrambi, dodici versi ad indicare, con ampia perifrasi letteraria, il luogo di nascita (Assisi-Oriente per Francesco, l’occidentale Calaroga per Domenico: a sottolineare che il loro campo di battaglia è il mondo intero); per entrambi, nomina sunt consequentia rerum (Assisi, Domenico, Felice, Giovanna).

Ma la biografia di Domenico è meno articolata di quella di Francesco: perché la vita di quest’ultimo era già in un alone di leggenda (e Dante segue, molto da vicino, la Legenda maior di Bonaventura). I due sono visti soprattutto come combattenti (parole e perifrasi che alludono alla guerra sono ricorrenti).

Di Francesco, Dante sottolinea il matrimonio con la povertà (per questo è alter Christus); ma nella Legenda maior c’era altro (c’erano visioni, miracoli, estasi); vuol dire che Dante vuole polemizzare, implicitamente, con i conventuali e la curia romana; è vero che, per bocca di Bonaventura, prende una posizione intermedia (contro l’eccessivo rigorismo degli spirituali e contro il lassismo dei conventuali); ma, sul possesso di beni da parte della Chiesa, già conosciamo (dal Monarchia) la posizione di Dante: la Chiesa può ricevere, come in deposito, beni di proprietà dell’Impero (che restano sempre tali), ma solo per distribuirne i frutti ai poveri di Cristo (le decime sunt pauperum dei); è altresì evidente la simpatia di Dante per la posizione degli spirituali: in Pd. XXI presenta Pietro e Paolo come francescani ante litteram (e non c’è dubbio che abbia in mente quel passo del vangelo di Matteo in cui Cristo prescrive agli apostoli di seguirlo seminudi e scalzi). E questo ha vieppiù valore se si pensa che ci sono due condanne (la prima del 1318, la seconda, definitiva, del 1323) da parte del papa Giovanni XXII nei confronti degli spirituali.

 

 

La visione di Dio nel XXXIII del Paradiso

 

BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso;

introduzione al canto XXXIII.

 

Giunto nell’Empireo, Dante vede una fiumana di luce fra due rive di fiori; dalla fiumana escono scintille che si posano sui fiori e poi ritornano nel gorgo. Quindi la luce assume forma circolare (più grande del sole), i fiori appaiono come beati e le scintille come angeli; i beati li vede disposti nella Candida Rosa (in più di mille ordini di seggi, digradanti come petali), la quale si specchia nel cerchio di luce come un colle in un lago; gli angeli sembrano api che volano da un fiore all’altro.

Beatrice conduce Dante al centro dell’“anfiteatro”, poi scompare tornando al suo seggio. Dante si trova al fianco S. Bernardo[20], il quale gli indica che la Rosa è divisa in due settori (credenti in Cristo venturo e venuto)[21] e in due parti (inferiore per i bambini, superiore per gli adulti).

Perché Dante possa contemplare Dio, è necessaria la mediazione della Vergine (che risiede in un seggio nel giro più alto della Rosa), alla quale Bernardo rivolge la sua “orazione”[22]. Mentre tutti i beati congiungono le mani verso di lei in una “figurazione giottesca ” (Croce), la Vergine, immobile, consente, senza parlare, con gli occhi (che, quindi, rivolge a Dio).

Ora comincia il dramma di Dante che vuole raccontare l’esperienza della visione: ed è, anzitutto, un problema teologico, perché non si può vedere ciò che si può solamente pensare (Tommaso: “non est possibile quod per aliquam similitudinem creatam divina substantia intelligatur”). Ma Dante vuole dare una conclusione “visibile” ad un racconto che è stato tutto “visibile”: e ha l’idea dei tre cerchi e dell’immagine umana “adattata” al cerchio (per rendere sensibilmente i due misteri fondamentali della Trinità e dell’Incarnazione). Tutto lo sforzo è inteso a dimostrare la difficoltà di (1) capire (intelligere) ciò che si vede (non c’è il mistico che si abbandona, ma il razionalista che vuole comprendere con la ragione); e poi di (2) ricordare quel che si è capito; e infine di (3) trovare parole adeguate per esprimere quel barlume che si ricorda.

Suggestivo il momento in cui dice di “vedere” l’ordine dell’universo[23] (le relazioni fra sostanze e accidenti: ciò che ha sempre cercato di capire e dimostrare: in tutta la Commedia, ma in particolare in Pd . I e II).

 

 

 


[1]"...quia per unam creaturam sufficienter repraesentari non potest, produxit multas creaturas et diversas, ut quod deest uni ad repraesentandam divinam bonitatem, suppleatur ex alia." (Summa theologica I, 47, 1) (p. 76).

 

[2]per appetitus naturalis (piante), appetitus sensitivus (animali), voluntas (uomini). Vedi anche Paradiso  a cura di Sapegno, canto I, nota 109.

 

[3]Sic. Il concetto mi pare poco chiaro. A me pare che la differenza stia nel pentimento, e quindi nella necessità di espiare nell'oltretomba per coloro che non riuscirono a farlo in vita (per sopraggiunta morte).

 

[4]Non a caso il redentore appare quando Roma -l'Impero - ha pacificato il mondo; e nelle fauci di Lucifero, accanto a Giuda, traditore del redentore, stanno Bruto e Cassio, traditori dell'Impero.

 

[5]In occasione dell’incontro con Stazio, Virgilio dice che, quando nel Limbo ha saputo da Giovenale quanto amore Stazio gli portasse, non ha potuto non contraccambiare quell’amore.

 

[6]Peraltro, resta il problema del perché Dante abbia usato quel perfetto “ebbe”, che poi genera l’equivoco, visto che Guido è vivo. Sarà da intendersi, come ha osservato il Pagliaro, non in senso assoluto (e duraturo: era solito avere a disdegno), ma in senso relativo (e momentaneo: si rifiutò -sottinteso- di farsi condurre: a Beatrice, ovvero alla scienza divina; quando invece io accettai): così lo si può usare riferendosi al tempo in cui si colloca la partenza per il viaggio.

 

[7]Valga, per tutti, il “temo che la venuta non sia folle ” di If. II 35, dove appare altresì chiaro come il viaggio di Dante sia compimento di quello di Ulisse; a Dante, sorretto dalla Grazia, è concesso di vedere (la “montagna bruna”, l’altro regno) ciò che al pagano è vietato.

 

[8]E’ stato M. Fubini, in uno studio del 1941, a chiarire in questi termini la questione.

 

[9]In IX, 601-2, è detto “parens verus patriae, dignissimus aris, Roma, tuis ”; ma anche altrove.

 

[10]I, 31: “Per tutti gli altri, che vivono superficialmente,  il suicidio potrà essere una colpa; non per Catone, che ebbe per natura, e mantenne per tutta la vita, una straordinaria intransigenza morale; cosicché per lui fu più giusto morire che vedere il volto della tirannide.”

 

[11]Eneide, VIII, 670: nello scudo divino di Enea, in cui sono rappresentati episodi della storia romana, si vede Catone “iura dantem ” ai pii nell’Averno.

 

[12]Sulla interpretazione “figurale” di Catone, v. E. AUERBACH, Studi su Dante, Feltrinelli 1974, pp. 213-15; E. RAIMONDI, Metafora e storia, Einaudi 1970, pp. 75-83.

 

[13]Saranno scoperte in epoca umanistica da Poggio Bracciolini.

 

[14]in Pg. XXII, 49-51. In medio stat virtus, secondo un principio aristotelico, prima che d’Orazio.

 

[15]Sapegno cerca di salvare capra e cavoli; leggendo “per che” e forzando il senso sia di “sacra” che di “reggi”, intende: “a quali opere non conduci  tu, o esecranda  fame ecc.”.

 

[16]Nella descrizione dell’ara della Clemenza si allude ad una divinità superiore che non ha bisogno di sacrifici; Teseo che si presenta come pacificatore è figura Christi; Tiresia minaccia di evocare una divinità superiore e sconosciuta (così aveva interpretato lo stesso Poliziano).

 

[17] Difficile individuarne l’identità storica: si è pensato a Matilde di Canossa, ma anche alla monaca benedettina Matilde di Hachenborn (morta nel 1298 e autrice di libri spirituali) o alla “donna gentile” della Vita Nova. Altrettanto difficile è comprenderne il significato allegorico: probabilmente significa la felicità terrena, quella di cui godettero Adamo ed Eva e che è raggiungibile praticando le virtù morali e intellettive. La sua funzione sembra essere solo quella di condurre le anime (o il solo Dante?) a completare la purificazione, facendole bere alle acque dei due ruscelli.

 

[18]Il personaggio era storico (ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, fino alla sua morte, nel 1250); ma Dante dà credito alla leggenda di un umile pellegrino (“romeo”), accolto nella corte, divenuto ministro, calunniato dai cortigiani, ripartito com’era arrivato.

 

[19]A un certo punto era stato emarginato dall’imperatore, perché troppo potente, e poi riabilitato; ma non si sa se Dante fosse a conoscenza della leggenda secondo cui sarebbe stato fatto accecare e ridotto a morire in completa miseria.

 

[20]di Chiaravalle (1091-1153), mistico, restauratore del culto mariano, forse scelto per questo come ultima guida.

 

[21]la divisione è segnata da una linea di donne ebree (che parte da Maria e comprende Eva, Rachele - con a fianco Beatrice - Sara, Rebecca, ecc.) e da una corrispondente linea “maschile” (che presenta Giovanni battista, Francesco d’Assisi, Benedetto, Agostino, ecc.).

 

[22]E’ divisa in due parti: elogio di Maria (notevole l’incipit, articolato in tre fortissime antitesi) e richiesta di intercessione. In essa c’è “l’eloquenza di un’iscrizione in un monumento della vittoria e la dolcezza di un poema d’amore” (Auerbach).

 

[23]Ricorda l’Aleph  di Borges.