Rosa fresca aulentissima...

e l’equivoco di Dario Fo

 

I. Ogni volta che presento in classe il Contrasto di Cielo d’Alcamo, mi piace leggere ai ragazzi le battute iniziali di quello straordinario pezzo di teatro che è il Mistero buffo, laddove Dario Fo propone un commento anticonformista e provocatorio del testo in questione. Più precisamente, Fo intende dimostrare che il Contrasto di Cielo (o Ciullo, come lui preferisce) d’Alcamo (o dal Camo) appartiene a pieno titolo alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e parla al popolo, e solo a causa della mistificazione (più o meno intenzionale) messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto della cultura "alta".

Il risultato didattico è, nel complesso, positivo: i ragazzi si divertono, si interessano a quel testo letterario, lo guardano con occhi diversi. E d’altra parte, anche chi ha maggior cultura di loro resta affascinato dalla bravura con cui quel grande istrione sembra improvvisamente svelare una verità finora coperta da censure ideologiche e moralismi bigotti.

Ma io invito i ragazzi ad andarci piano, a non abbracciare una tesi per il solo fatto che ci è simpatica, perché ci piacerebbe che fosse così; li invito a valutare in modo scientifico, per quanto possibile, i termini della questione prima di concedere il proprio consenso.

II. Per sostenere il suo punto di vista, Dario Fo fa diverse considerazioni, tutte divertenti, ma non tutte convincenti. In particolare, mi pare che il suo ragionamento si incentri su due argomenti: quello relativo al nome dell’autore del Contrasto e quello relativo all’istituzione della defensa (o difemsa), evocata dall’amante alla quinta strofa.

Cominciamo dall’argomento del nome. Riporto qui il passo in questione (1):

Viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d’Alcamo, ma come Cielo d’Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine "ciullo": senza voler fare scurrilità, "ciullo" è il sesso maschile. E notate che anche in Sicilia m’è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato di "ciullo"... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato, medicato, portato via, e naturalmente il professore dice: "C’è un errore". Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un’altra lettura. Non potevano accettare un soprannome del genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci.... Dunque, non si può dire "ciullo". Non si può, in una scuola come la nostra, dove l’ipocrisia e la morbosità cominciano fin da quando vai all’asilo."

Come è noto, quella del nome è un’antica e tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta (2). Bisognerà brevemente rimetterci mano, se si vuole stabilire quale fondamento abbia l’argomentare di Fo.

Il testo di cui parliamo ci è pervenuto anonimo. Il nome Cielo (d’Alcamo o dal Camo che sia) è attribuito all’autore da un filologo del ’500, Angelo Colocci, il quale evidentemente disponeva di fonti a noi sconosciute; costui, oltre a chiamarlo Cielo nei codici vat. 3793 e vat. 4823, dice nel codice vat. 4817: "Io non trovo alcuno se non cielo dal camo che tanto avanti scrivesse, quale noi chiameremo Celio. Costui dunque fu celebre poeta dopo la ruina de gothi..." . Ora, a parte la sua personale idea che Cielo possa corrispondere a Celio (ed a parte anche il riferimento cronologico, per noi generico, alla "ruina de gothi"), è chiaro ed inoppugnabile che Colocci ha trovato (chissà dove), e ci ha tramandato, il nome Cielo. Era un nome che sembrava strano anche a lui, visto che ha sentito il bisogno di proporne, con Celio, una sorta di latinizzazione; si può presumere, invece, che si tratti della forma toscanizzata di un siciliano Celi, a sua volta derivato da Cheli, diminutivo di Michele.

La variante Ciulo nasce nel ’600 e non si giustifica se non con una svista, una cattiva lettura, di altri studiosi (Ubaldini prima ed Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo) che del resto non ebbero altre fonti che le carte del Colocci (3). Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo diminutivo Vincenzullo.

L’idea di Fo che Ciullo sia invece un soprannome osceno affibbiato, come si usava, a un giullare, mi parrebbe acuta e convincente, se si trattasse, appunto, di stabilire etimologia e significato di quel nome; ma quel nome non esiste, almeno per quanto riguarda l’autore del Contrasto Rosa fresca aulentissima; nasce come un fraintendimento, abbiamo visto, e per quanto ci possa parere suggestiva l’ipotesi di una censura per oscenità perpetrata nei confronti di quel nome, essa è fondata sul niente.

Questo, naturalmente, non vuol dire negare che l’autore del Contrasto fosse un giullare (anzi, se - per restare alla questione del nome - invece della forma "d’Alcamo", che indicherebbe la città siciliana d’origine, si accetta la lettura "dal Camo", l’ipotesi torna a riproporsi: potrebbe essere un soprannome attribuito, appunto ad un giullare, con riferimento a un certo modo di vestire, essendo il camo un panno) (4); si nega soltanto che lo si possa sostenere con quell’argomentazione.

III. Ma senz’altro più rilevante, e rivelatrice, è la questione della defensa. Riporto la strofa del Contrasto che ne è all’origine e, a seguire, il monologo, tratto dal Mistero buffo, in cui Fo la spiega e commenta:

Se i tuoi parenti tròvanmi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèttoci di dumili’ agostari:

non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.

Viva lo ’mperadore, grazi’ a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo? (5)

E il ragazzo risponde sbruffone (non dobbiamo dimenticare che sta recitando il personaggio del ricco aristocratico): "Se i tuoi parenti trovanmi che ti ho appena violentata o che ti sto facendo violenza, e che mi posson fare? Una defensa mettoci di dumili’ agostari (duemila augustari)" Cosa vuol dire? L’augustario era la moneta di Augusto, inteso Federico II. Infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in cui in Sicilia governava Federico II di Svevia. Duemila augustari equivalevano, più o meno, a settantacinquemila lire odierne. E che cosa è questa defensa? Fa parte di un gruppo di leggi promulgate a vantaggio dei nobili, dei ricchi, dette "leggi melfitane", volute proprio da Federico II, per permettere un privilegio meraviglioso a difesa della persona degli altolocati. Così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: "Viva lo ’mperadore, grazi’ a Deo!" Questo era sufficiente a salvarlo. Era come avesse detto: "Arimorta! Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato". Infatti chi toccava l’altolocato che aveva pagato la defensa veniva immediatamente impiccato, sul posto, o un po’ più in là.

Ecco che la potete immaginare da voi tutta la scena. Grande vantaggio per il violentatore medievale era dato dal fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei pantaloni. Erano staccate: erano delle borse che si appendevano alla cintola, il che poteva permettere una condizione vantaggiosissima dell’amatore: nudo, ma però con la borsa. Perché, nel caso: "Ah, mio marito!" trac... defensa... op... "Arimorta! Ecco i quattrini!" Naturalmente bisognava avere i soldi contati, è logico, non si può: "Scusi, aspetti un attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per favore?" Subito, subito, lì, veloci! Le madri che s’interessavano della salute dei propri figlioli, una madre nobile naturalmente, e ricca, diceva sempre: "Esci? Hai preso la defensa?" "No, no, vado con gli amici..." "Non si sa mai, magari incontri..."

Ah, perché la defensa valeva anche per la violenza a base di coltello. Uno dava una coltellata a un contadino... zac... defensa! Che naturalmente era minore, centocinquanta massimo. Se poi ammazzava l’asino insieme al contadino, allora si faceva cifra tonda.

Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave della "legge" del padrone: la brutalità di una tassa che permetteva di uscire indenni da ogni violenza compiuta da quelli che detenevano il potere. Ecco perché non ce lo spiegano mai questo pezzo a scuola. Mi ricordo che sul mio libro di testo al liceo tutta questa strofa non esisteva, era stata censurata. Su latri testi c’era, ma non veniva mai spiegata. Perché? E’ logico! Per una ragione molto semplice: attraverso questo pezzo si scopre chi ha scritto il testo. Non poteva essere altro che il popolo. Il giullare che si presentava sulla piazza scopriva al popolo quale fosse la sua condizione, condizione di "cornuto e mazziato", come dicono ancora a Napoli: cioè bastonato, oltre che cornuto. Perché questa legge gli imponeva proprio lo sberleffo, oltre che il capestro.

Dunque per Fo non c’è dubbio che si tratti di una legge "promulgata a vantaggio dei nobili, dei ricchi", per cui "così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: "Viva lo ’mperadore, grazi’ a deo!". Questo era sufficiente a salvarlo."

C’è qui un errore di impostazione, frutto di una conoscenza storica approssimativa (e, direi anche, ideologicamente prevenuta).

IV. Le Constitutiones regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così chiamate perché promulgate a Melfi, da Federico II, nel 1231) (6) sono un insieme di leggi evidentemente intese a far valere il potere centrale del monarca e, di contro, a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza dello Stato; e questo è vero in particolare per quanto riguarda l’istituto della defensa, di cui si tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di dette Costituzioni (7).

Di che si tratta? L’imperatore, dopo aver notato che spesso la potenza dell’aggressore è talmente soverchiante (in tantum supereminere) che l’aggredito, per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è costretto a subire l’aggressione, conclude: "presentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti imperiali prohibeat ut ipsum offendere de cetero non presumat" (8); e cioè, a chiunque (anche Giudeo o Saraceno, dirà più oltre (9): si noti quindi la volontà di tutelare le categorie deboli) è data facoltà di difendersi invocando il nome dell’imperatore; quell’invocazione avrebbe avuto l’effetto di interrompere l’aggressione, giacché, altrimenti, sarebbe stata considerata un’aggressione contro la persona stessa dell’imperatore. Si aggiunge poi che, nell’eventualità di violazione della defensa, il caso sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato davanti ai tribunali del re ("de istis defensis... etiam per privatas personas indictis... magister justitiarius et justitiarii nostri cognoscant") (10).

Mi pare che questi elementi siano sufficienti a farci capire che, con l’istituto della defensa, Federico II, lungi dal voler rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del resto gli è ben chiaro che proprio su tale limitazione si può fondare l’autorità superiore dello Stato, secondo le linee di una politica da lui sempre perseguita); intende difendere il diritto di chi, altrimenti, dovrebbe subire il sopruso di un potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la prepotenza di colui la cui "potentia" "superminet"); e per meglio garantirsi dalla possibilità che il potente-prepotente si faccia dar ragione da giudici locali compiacenti, avoca a sé il potere di dirimere la controversia (11). Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai contemporanei, se Marino da Caramanico, un glossatore che opera attorno al 1275, così scrive commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: "Et per hanc constitutionem succurrit Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur" (12).

V. Ma c’è dell’altro. Seguendo la sua interpretazione (secondo cui la defensa sarebbe uno strumento di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve dell’esempio della violenza sessuale che il potente avrebbe potuto compiere, sicuro dell’impunità, semplicemente pagando la defensa (e cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei versi in questione l’amante, millantando la propria ricchezza, si dichiari disposto a pagare la defensa (ed indica la cifra che si può permettere: duemila augustali) pur di compiere violenza sulla ragazza (13). Al contrario, invece, dal testo mi pare inequivocabile che i duemila augustali costituiscano la cifra che, una volta che l’amante abbia "imposto" la defensa, i parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero (non si spiega, altrimenti, il verso "non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari", e cioè: non mi toccherebbe tuo padre per quante ricchezze egli abbia in Bari) (14). Ed infatti, il titolo XVIII delle Melfitane sembra proprio far riferimento a due tipi di defensa: uno "semplice" (licet ex parte nostra, nulla etiam quantitate adiecta, defensa simpliciter imponatur), che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il trasgressore la perdita di un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda che abbia commesso l’aggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro caso, con indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate) (15).

Dunque l’amante indica come multa la somma di duemila augustali. Che si tratti di una "sbruffonata" non c’è dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima (16); ma fa parte del "gioco": come lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che certamente non ha (si vedano i versi 27: "Donna mi so’ di perperi, d’auro massamotino"; 46: "se distinata fosseti, caderìa de l’altezze"; 86-87: "di quel frutto non abbero conti né cabalieri / molto lo disiarono marchesi e justizieri") così lui, con quella cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona, quasi a dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi. Del resto lo stesso appellarsi alla defensa, in questo contesto, non è una cosa seria, ma piuttosto la minaccia scherzosa di un innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo: mancano infatti i tre testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione, che la legge richiede perché la violazione della defensa sia provata e quindi punita (tres testes aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam) (17).

Ma malgrado il tono scherzoso, è evidente che l’innamorato fa riferimento alla defensa come ad una legge che lo tutela - grazie all’imperatore e "grazi’ a Deo" - da eventuali aggressioni (dei parenti di lei); non come ad una legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente, un atto di violenza sessuale. Anche perché - e questo mi pare un argomento decisivo, che toglie fondamento a tutta l’esemplificazione di Fo sul violentatore che andava in giro con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la defensa - le stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena capitale ai colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne oneste, ma anche delle meretrici: ut nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluntati) (18): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! C’era da rimetterci la pelle. Sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene subiaceant) (19); e i testimoni dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto (20).

VI. Si deve concludere che l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati dall’autore-attore del Mistero buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere popolare del nostro testo. Ed anche: il fatto che i due protagonisti del Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco "cortese": "A lo letto ne gimo a la bon’ora"), nulla dice sull’autore e sul pubblico destinatario del componimento: non è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e situazioni popolari.

La questione, piuttosto, andrà affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per l’altra.

E’ vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione (secundum quod prodit a terrigenis mediocribus) (21); ma cita non a caso il terzo verso ("tragemi d’este focora, se t’este a boluntate"), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due ("Rosa fresca aulentissima, c’apari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell’ e maritate") erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.

Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nell’intero componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi) si mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza realistica sia per i tratti marcatamente dialettali (22); e qualcosa di simile si può dire anche per il metro, sulla cui origine e natura - colta o popolare? - molto si è discusso. Sono dati incontestabili, confermati dagli studi più recenti e più accurati, ai quali rinvio (23).

A me piace far notare, a mo’ di esempio, come l’amante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5 "madonna mia", 65 "sovrana di meve te prese"), ad altre che contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 "l’omo... l’ha in sua podesta", 55 "besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino").

Tale dualismo, secondo alcuni, dimostrerebbe proprio la letterarietà del componimento, e quindi anche l’appartenenza del poeta ad ambienti culturalmente e socialmente elevati: costui conosce gli stilemi "cortesi", padroneggia sapientemente la materia poetica, e solo parodisticamente si compiace di usare volgarità di lingua e di pensiero (24).

A me pare invece che altrettanto fondatamente si possa sostenere il contrario: un "mestierante" di poesia, quale era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica, e servirsene, in un contesto tutt’altro che aulico quale quello del Contrasto, magari con intenzioni parodistiche.

O forse ha ragione Pagliaro che riconosce, sì, la matrice giullaresca del componimento (25), ma ne individua il tono dominante in una sorta di "medietas" linguistica (e così si recupererebbe anche il significato di quel riferimento di Dante ai "terrigenae mediocres") propria di un ceto socialmente e culturalmente intermedio fra l’aristocrazia della corte e il popolo della piazza (26).

Questi, all’incirca, i termini della questione. E prenderne atto con fatica e pazienza, dico ai ragazzi, invece di tentare avventurose scorciatoie, è sempre il modo migliore per avvicinarsi alla verità.

 

Marcello Tartaglia

Articolo pubblicato su "Cultura e scuola"

Anno XXXIII, n. 129 (gennaio-marzo 1994)

 

NOTE

(1) Traggo le citazioni da Mistero buffo, in Le commedie di Dario FO, vol. V, Torino 1977, con l’avvertenza che si tratta piuttosto di un canovaccio, rinnovato e modificato sera per sera, con battute e digressioni sollecitate dall’attualità. Ma il senso del discorso, per quanto riguarda la nostra questione, resta fermo e ben definito.

(2) Si vedano soprattutto: A. D’Ancona, Il Contrasto di Cielo dal Camo, in Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Ancona 1884 (pp. 387 e segg.); F. D’OVIDIO, Il Contrasto di Cielo Dalcamo, in Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910 (pp. 627 e segg.)

(3) E’ vero che nel vat. 4817 sopra citato la grafia del Colocci è tale che un inesperto potrebbe scambiare la "e" di Cielo in "v" e quindi in "u"; ma un attento studio di quella grafia impone di leggere Cielo (e del resto in altri luoghi, sempre di mano del Colocci, è inequivocabile la scrittura Cielo).

(4) E’ una congettura di V. DE BARTHOLOMAEIS (v. Le origini della poesia drammatica italiana, Torino 1952 [Bologna 1924], pp. 53-69).

(5) Qui e altrove cito il testo nella edizione di G. CONTINI, Poeti del Duecento, I, Milano-Napoli 1960.

(6) Per inciso, noteremo che questa data (1231, anno delle Costituzioni melfitane, ma anche della coniazione degli augustali, cui si fa riferimento nella stessa strofa) è per noi significativa, perché ci consente di stabilire il termine dopo del quale il Contrasto è stato scritto; così come l’esclamazione "viva lo ’mperadore" ci consente di stabilire il termine prima del quale (1250, anno di morte di Federico II).

(7) Per le citazioni, mi riferisco all’edizione di Huillard-Bréhollés, Historia diplomatica Friderici II, t. IV, pars 1°, Parisiis 1854.

(8) Const. I, XVI, De defensis imponendis et quis eas imponere possit (p. 17).

(9) Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 22).

(10) Const. I, XVII, De defensis impositis ab officialibus, et pena defense (p. 20).

(11) Si è discusso a lungo sulle origini (romane, germaniche, normanne, ecc.) di tale istituto. E’ certo che esso preesiste (nella forma della protezione "privata" concessa da singoli feudatari) alla sistemazione legislativa di Federico II; anzi, proprio nei tit. XVI-XVIII delle Melfitane, si dovrà vedere l’intenzione dell’imperatore di affermare la legittimità di un’unica forma di defensa, ovvero quella "pubblica", di Stato, fatta "nostri nominis invocatione". Ed è altrettanto certo che a quest’ultimo tipo di defensa si riferisce il nostro componimento: l’esclamazione "viva lo ’mperadore", quand’anche non fosse l’invocatio prevista dalla legge, sarà senz’altro una forma di ringraziamento nei confronti di chi ha inteso proteggere i sudditi da ogni violenza privata. Per l’intera questione, in particolare con attinenza al Contrasto di C. d’A., si veda A. D’ANCONA, op. cit. (pp. 339 e segg.); L. SICILIANO-VILLANUEVA, Studi intorno alla defensa, in Circolo giuridico, Palermo, 1894; F. SCHUPFER, La defensa e l’asino di Apuleio, in Riv. Ital. Scienze Giur., 1896; C. A. GARUFI, La defensa ex parte domini imperatoris in un documento privato del 1227-28, in Riv. Ital. Scienze Giur., 1899; N. TAMASSIA, Nuovi studi sulla defensa e Ancora sulla defensa, in Atti R. Istituto Veneto, tomo LX, parte II, 1900-1901 (ora in Studi di storia giuridica meridionale, Bari 1957); E. KANTOROWICZ, Invocatio nominis imperatoris (on vv. 21-25 of Cielo d’Alcamo’s Contrasto), in Bollettino del Centro studi filologici e linguistici siciliani, III, 1955.

(12) La glossa si può leggere in Liber augustalis (Constitutionum Regni Siciliarum libri III, Naples 1773) I, 16.

(13) Devo dire che, nella storia della critica del Contrasto, Fo non è il solo a fraintendere in questo modo: lo aveva già fatto L. VIGO (Ciullo d’Alcamo e la sua tenzone. Commento, in Il Propugnatore, 1870, III), che ne deduceva - senza nemmeno rendersi conto che, comunque, la cifra indicata è una millanteria - la grande ricchezza e l’alto rango sociale del protagonista del Contrasto; e più recentemente lo ha fatto E. KANTOROWICZ (Invocatio nominis imperatoris..., op. cit.), il quale crede (non si capisce perché) che siano i parenti di lei a imporre la defensa contro l’amante.

(14) Bisognerà ricordare che il riferimento a Bari implica un’altra questione molto controversa: alcuni se ne servono per sostenere la collocazione pugliese del Contrasto, altri invece (e sono i più) lo intendono come un riferimento generico ad una città nota per la sua opulenza (e quindi il passo significherebbe: per quante ricchezze ci siano in Bari). Del resto, dato che nei codici si legge un incomprensibile "ambari", sono state formulate anche altre congetture.

(15) Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 20).

(16) La corrispondenza indicata da Fo (settantacinquemila lire), per quanto rapportata al valore della lira alla fine degli anni ’60, è assolutamente inadeguata. Ma anche questo minimizzare è comprensibile: Fo intende dimostrare che il potente, che intendesse commettere un sopruso, se la poteva cavare, tutto sommato, a buon mercato.

(17) Const. I, XVIII (p. 21).

(18) Const. I, XXI, De violentia meretricibus illata (p. 23).

(19) Const. I, XXII, De raptoribus virginum vel viduarum (p. 25).

(20) Const. I, XXIII, Si quis mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit (pp. 25-26).

(21) De vulgari eloquentia, I, xii, 6.

(22) Anche se resta problematica l’individuazione precisa dell’area, sicuramente meridionale, cui tale dialetto appartiene: si è pensato al pugliese (Vigo e Caix), al campano (D’Ovidio) e, soprattutto, al siciliano (per Ugolini sarebbe il dialetto di Scicli, in provincia di Ragusa; per Pagliaro, quello della Sicilia nord-orientale).

(23) Per gli aspetti linguistici mi riferisco, oltre alle opere già citate di A. D’Ancona, F. D’Ovidio e V. De Bartholomaeis, a A. Monteverdi, Rosa fresca aulentissimma... tragemi d’este focora, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954; A. Pagliaro, Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1953; id., Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958. Per le questioni relative al metro si possono vedere A. Jeanroy, La lirica francese in Italia nel periodo delle origini, trad. it. Firenze, 1897; De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica italiana, op. cit.; Ph. A. Becker, Rosa fresca aulentissima, in Volkstum und Kultur der Romanen, VIII, 1935; W. Th. ELWERT, Appunti sul Contrasto di Cielo D’Alcamo, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXV, 1948.

(24) Così intende, ad esempio, Monteverdi (Rosa fresca aulentissima... tragemi d’este focora, op. cit.), il quale proprio nella difficoltà di localizzare l’ambito geografico del dialetto in questione riconosce il carattere, per così dire, letterario di tale dialetto, che l’autore userebbe intenzionalmente e non perché fondo ineliminabile del suo abituale modo di esprimersi.

(25) A tale matrice rimanda, come già aveva notato De Bartholomaeis (Le origini della poesia drammatica italiana, op. cit.), l’evidente carattere teatrale del testo (recitato o cantato che fosse, secondo le diverse opinioni in merito di De Bartholomaeis e Pagliaro)

(26) A. PAGLIARO, Poesia giullaresca e poesia popolare, op. cit., pp. 202-207.