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RACCONTI IN GIORNATE DI PIOGGIA

Copyright by Mara Alei, aprile 1996

Tutti i diritti riservati  

E’ vietata la traduzione e la riproduzione totale o parziale.

L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’articolo 171 L. 633/41

Questa è un’opera di fantasia. Pertanto, ogni riferimento a persone

o a fatti reali è puramente casuale.  

                                                             Indice

Ritorno a casa

Il cieco

Dalla notte all’alba

La governante

Il musicista delle mosche

Veleno

L’intervista

Rufus

Millenovecentonavantatré

Il sorpasso

C.C.C.C.C.

La lettera

Iter longissimum

Feronia

La caverna  

La figlia migliore

Moira

Scriptor

***

                                                              RITORNO A CASA

Quelle chiacchiere invadenti duravano ormai da più di venti minuti e Piera già non ne poteva più. Oh, insomma! Che si togliesse dai piedi questa seccatrice! Chi era? Chi l'aveva cercata? Figuriamoci! Piera era così insofferente quando qualcuno la disturbava durante il tragitto fino a casa!

Quelli in cui sedeva sulla vettura, accanto al finestrino, erano per lei momenti preziosi, dediti alla meditazione, alla riflessione, al pensare agli affari suoi, al fantasticare, e non voleva certo che qualcuno la disturbasse attaccando discorso. Ciò era tutt'al più sopportabile da parte di una persona conosciuta, da parte di qualche compaesano che talvolta incontrava durante il ritorno a casa, ma gli sconosciuti no! Proprio no! Non voleva neppure sentirli gli sconosciuti! Soprattutto quelli un po' matti.

E questa qui, poi? Questa... Come si chiamava?... Ah, sì, Roberta... Beh, questa Roberta le si era attaccata addosso non appena Piera aveva messo piede sulla vettura e si era seduta. La sconosciuta aveva preso posto in uno dei due sedili di fronte a lei e aveva cominciato a chiacchierare, ad emettere una straordinaria ed interminabile quantità di parole... Dapprima si era presentata con nome e cognome e poi,... poi aveva aperto bocca e non l'aveva più richiusa: una valanga di parole.

Raccontò a Piera tutta la sua vita, fatta soprattutto di stranezze e di fatti improbabili: che era nata di sei mesi, che da piccola aveva rischiato di morire ammazzata durante una rapina in banca, che all'età di tredici anni era stata spinta da una compagna di giochi giù da uno strapiombo alto più di quindici metri, ma che poi non si era fatta niente, ed altri avvenimenti balordi.

"Questa è proprio matta!", pensò Piera, "Sicuramente è una demente uscita fresca fresca dal manicomio. Ma proprio qui da me doveva capitare?"

Piera, di carattere introverso, taciturno e amante della solitudine, aveva cercato di seguire, finché aveva potuto, i discorsi farneticanti della passeggera, poi si era stancata e non se ne era curata più; tanto ormai il treno stava per partire e fra poche fermate sarebbe scesa, finalmente!

Poco prima che il treno chiudesse le porte, era salito un passeggero, un individuo dall'aspetto inquietante. Basso, tarchiato, calvo, sudaticcio, con un occhio mezzo chiuso, avanzò nella vettura con passo claudicante, aiutandosi con un bastone. Si venne a sedere vicino a Roberta, la seccatrice, così da trovarsi, per la disposizione dei sedili, proprio di fronte a Piera. Il nuovo venuto, appena si fu accomodato, piantò gli occhi su Piera e non accennò a distorglierli.

La ragazza si vide addosso quello sguardo torvo, reso ancora più torvo dall'occhio semichiuso e ne ebbe quasi paura. Quell'uomo inquietante non aprì bocca per tutto il viaggio, si limitò a fissare Piera con insistenza, con i suoi occhiacci maligni, asciugandosi con un grosso fazzoletto il copioso sudore che gli scorreva dalla fronte, resa ampia dalla calvizie, ed emettendo, di tanto in tanto, un riso bieco, una specie di ghigno che sembrava scuoterlo tutto.

"Oddio!", pensava Piera, "Che razza di compagni di viaggio mi dovevano capitare! Un maniaco e una pazza furiosa, che ormai parla da sola, perché io, certo, è da un pezzo che non la sto più a sentire".

Piera non vedeva l'ora di arrivare. Ormai mancava poco alla sua fermata... Eccola! Si alzò e con un sospiro di sollievo si avvicinò alla porta, pronta a scendere.

Il treno, dopo che Piera fu scesa, richiuse le porte e riprese il viaggio, portando con sé quegli strani passeggeri, che tanto l'avevano turbata. La ragazza, dopo aver respirato profondamente, si diede una rapida occhiata intorno e...Dio mio!... La stazione non era la sua, non era quella in cui sarebbe dovuta scendere! Era un'altra mai vista prima, era deserta, sembrava abbandonata! Un gelo l'assalì e l'angoscia le serrò il cuore. Che fare? Era ormai quasi buio fatto.

Provò a cercare un telefono da qualche parte e, mentre era intenta in questa ricerca, si accorse che la stazione non era del tutto deserta. Le era parso di vedere in lontananza una grossa automobile bianca, una specie di furgoncino, simile a quello dell'accalappiacani, con accanto due uomini in piedi, come nell'atto di attendere qualcuno. Piera a quella vista si rincuorò alquanto e si avviò in quella direzione. Appena si fu avvicinata, i due uomini le sorrisero e le si accostarono con familiarità.

"Ciao Piera", disse uno di loro, "Sei tornata finalmente! Dove pensavi di scappare? Credevi veramente di farla franca?"

Mentre l'uno parlava, l'altro tirava fuori dall'ambulanza la camicia di forza e invitava Piera ad indossarla. La ragazza ubbidì tranquillamente, quasi passivamente e, indossatala, salì senza indugiare sull'automobile. I due infermieri, in un quarto d'ora, la ricondussero alla casa di cura per malati di mente, da dove era scappata il giorno precedente.


***

                                                                       IL CIECO

Quando iniziai la professione di giornalista ero piuttosto giovane, mi ero laureata da poco e avevo molti sogni nel cassetto. Immaginavo con piacere che avrei girato il mondo, avrei conosciuto tanta gente, avrei vissuto situazioni che un altro lavoro non mi avrebbe consentito di vivere. Sarei entrata nella mente e nel cuore degli uomini e avrei carpito le loro emozioni, le avrei fatte mie per poi riproporle ai miei lettori.

Conservavo ancora molto di quel mio entusiasmo quando, una mattina del 13 febbraio di alcuni anni fa, il direttore del mio giornale mi chiamò e mi incaricò di fare un'intervista. Pochi giorni prima era accaduto uno spiacevole fatto di cronaca, come ce ne sono tanti, forse un po' più strano degli altri, più insolito.

In un piccolo paese della provincia di Roma, a ***, un giovane, a detta di tutti dal carattere molto introverso e scontroso, aveva fatto raccapricciare non pochi dei suoi concittadini, cavandosi gli occhi con un punteruolo nel bel mezzo della piazza del paese. Subito soccorso, il ragazzo fu portato al reparto oftalmico del più importante ospedale della capitale. I migliori specialisti si prodigarono per salvargli gli occhi: tutto fu tentato, ma inutilmente. Il ragazzo, con il suo gesto irrazionale, aveva compromesso del tutto la vista: era diventato cieco, completamente cieco. Un gesto inspiegabile, compiuto probabilmente in un momento di follia.
A me, per l'appunto, fu affidato il compito di indagare, di spiegare ciò che tutti gli altri organi d'informazione avevano definito come un fatto inspiegabile.

Per prima cosa mi recai a ***, per raccogliere informazioni su questo giovane disperato. Non ebbi molta fortuna: i vicini di casa, il parroco, il sindaco, non seppero darmi molte notizie. Sembrava che nessuno in paese fosse mai stato in confidenza con lui. Tuttavia, da quel poco che ero riuscita a sapere, potevo intuire che probabilmente l'incidente era stato provocato dalla solitudine della vittima.

Dalle testimonianze dei suoi compaesani, infatti, emergeva che questo disgraziato, di nome Pietro del Signore, era stato sempre un po' abbandonato a sé stesso. Senza genitori, era infatti un orfano vissuto fino alla maggiore età in un brefotrofio, non aveva mai conosciuto l'affetto di una vera famiglia. Mai nessuno aveva voluto adottarlo per questo suo caratteraccio. Era vissuto, dopo i diciotto anni, a casa dell'anziana sorella del direttore del brefotrofio, la quale lo aveva accolto con grande senso di carità, dimostrandosi sempre molto amorevole con lui.

La vecchia signora era morta l'anno prima di questo incidente, lasciando Pietro nella più desolata solitudine e nell'indigenza. Da tre anni la sua scontrosità era aumentata in modo notevole. Nessuno voleva prenderlo a lavorare, nemmeno come manovale o facchino. Camminava sempre ricurvo, a testa bassa, senza guardare in faccia nessuno, rispondendo al saluto dei passanti con una specie di grugnito. Tutti ormai lo definivano un pazzo.

Fatta questa breve ricerca, me ne tornai a casa un po' seccata per la scarsa quantità di notizie reperite. Decisi che per quel giorno il mio lavoro sarebbe finito lì. Telefonai all'ospedale dove era ricoverato il giovane e fissai, per il giorno dopo, un appuntamento per un'intervista. L'infermiera cercò di dissuadermi, ma io decisi ugualmente di provare a parlare con il paziente: sapevo che Pietro rifiutava categoricamente di parlare con chicchessia, soprattutto con i giornalisti, ma volevo tentare.

Me ne andai a letto presto quella sera, ero molto stanca e avevo anche un po' di mal di testa. Non riuscii subito a prendere sonno: pensavo a Pietro, alla vita grama che aveva condotto da quando era nato, al deserto di affetti che lo aveva accolto al suo primo vagito e che lo aveva accompagnato per tutta la strada dell'esistenza fino a quel momento. Mi interrogavo sul perché a volte la vita si accanisca così su alcuni di noi. Mi chiedevo con quali criteri il Caso scegliesse le sue vittime. Perché Pietro non si era ucciso, se la sua vita era insopportabile? Perché proprio cavarsi gli occhi?... Non trovai risposte e, a dire il vero, neppure le cercai.

Mi addormentai di un sonno pesante, quasi doloroso; me ne resi conto al mattino, al mio risveglio: mi sentivo più stanca della sera precedente. Tuttavia, mi preparai con calma all'incontro con Pietro. L'orario di visita ai malati era dalle dieci alle dodici, avevo quindi tutto il tempo di fare le cose senza fretta.

Arrivai in orario perfetto in ospedale. Mi feci guidare alla camera del degente da una gentilissima infermiera. Bussai leggermente. Una voce maschile, molto calma, mi disse di farmi avanti. Aprii la porta con un certo disagio: mai come in quel momento mi ero sentita così in imbarazzo; mi sentivo un'intrusa, un avvoltoio che si lancia sul cadavere.

"Mi perdoni", dissi, "Scusi se la disturbo. Sono una giornalista: mi chiamo F. L. e scrivo per il settimanale "S". Sarebbe così cortese da dedicarmi un po' di tempo per una breve intervista? Sa... questo purtroppo è il mio mestiere... io...!"

"Non deve giustificarsi, venga!", invitò lui con tono molto gentile, "Entri pure, non rimanga sulla porta".

Entrai come sollevata. Mi ero aspettata ostilità da parte sua, me l'ero immaginato come un orso ferito, pronto a ricacciarmi fuori con un colpo di artigli.

Forse mi ero lasciata troppo condizionare dalla descrizione che di lui mi avevano fatto i suoi conoscenti. Niente di tutto ciò era vero: di fronte a me non c'era affatto un misantropo, ma un uomo cordiale e disponibile.
Era un ragazzo dall'apparente età di 25 anni, magro, di colorito e di capelli bruni. Era seduto sul letto, con la testa e la schiena appoggiate a due enormi cuscini, sugli occhi portava due grosse bende.

"Prego, si avvicini. Si accomodi, da qualche parte deve esserci una sedia".
Io ero rimasta nel mezzo della piccola camera, un po' indecisa. Afferrai una sedia accanto alla porta, la avvicinai al letto e mi sedetti.

"Come le dicevo, sono venuta a disturbarla per un'intervista", dissi, "riguardo al suo incidente. Se lei permette...".

"Sì, lo immaginavo", interruppe lui con tono un po' ironico.

"Prima di tutto, come sta?", chiesi io con interesse.

"Bene, molto bene", rispose soddisfatto, "Mi sento come alleggerito di un peso, come liberato da una croce".

"Mi... Mi scusi, temo di non capire", dissi io perplessa, "Che cosa vuol dire liberato da un peso?"

"Ma sì, sì", riprese lui con decisione, "Gli occhi per me non erano altro che una tortura, un'indicibile sofferenza".

Queste parole assurde, senza senso, mi diedero la conferma di ciò che tutti dicevano e che io stessa, fino a qualche minuto prima, avevo temuto: mi trovavo al cospetto di un pazzo, stavo ascoltando, senza ormai alcun dubbio, le parole deliranti di un folle. Cercai di capire qualcosa di più di questa storia, lo invitai a parlare più esplicitamente.

"Prego, continui! Mi faccia capire bene quali sono i suoi sentimenti riguardo a ciò che le è accaduto".

"Ebbene, parlerò. Di lei mi fido, ha una voce che ispira fiducia. Vede, lei penserà che io sono un pazzo quando dico che accecandomi mi sono liberato da un peso. E avrebbe ragione a pensare ciò, dal momento che non conosce la mia storia. Agli occhi di tutti io sono un povero folle... Ma, affinché lei capisca e non cada nell'errore comune, le racconterò la mia vicenda".

Cominciò a parlare della sua vita sin dagli inizi, dall'anno della sua nascita. Raccontò degli anni amari trascorsi in brefotrofio, di quelli più sereni vissuti in casa della sua benefattrice, che era arrivato al punto da chiamare "mamma".

"Il mio dramma", disse, "ebbe inizio tre anni fa, quando la mia mamma adottiva era ancora in vita. Tutto accadde una mattina di maggio, il 29 maggio. Fu la luce a svegliarmi quel mattino. Non capivo perché ci fosse tutta quella luce nella mia camera: generalmente era il suono della sveglia a strapparmi dal sonno e io trovavo sempre la mia stanza al buio, con le tapparelle chiuse. Quella mattina, invece, stranamente, la mia camera da letto era in un bagno di sole.

All'inizio, quando ancora mi trovavo a letto con gli occhi feriti da questo intenso chiarore, pensai che forse era stata mia madre ad aprire la finestra, contrariamente alle sue abitudini. Fu subito dopo che, con immenso orrore, scoprii la verità. Mi misi a sedere sul letto e mi guardai intorno terrorizzato: le pareti della mia stanza non esistevano più, erano divenute ad un tratto trasparenti, come fatte di vetro. Impiegai alcuni minuti per convincermi che quello che mi stava accadendo non era un'illusione, un'allucinazione come speravo.

Mi vestii rapidamente e chiamai mia madre, che vedevo muoversi in cucina, attraverso le pareti trasparenti. Ella accorse subito, sentendo la mia voce turbata. Le spiegai quello che stava capitando intorno a me, e non capivo perché ai suoi occhi tutto fosse invece normale. La povera donna si preoccupò molto di questo mio malessere, così lo chiamava lei. Mi convinse ad andare dal medico.

Uscii di casa e il tragitto fino allo studio del dottore fu una vera tribolazione. Ogni volta che rivolgevo lo sguardo intorno a me, si presentava ai miei occhi l'interno di tutte le abitazioni e di tutti gli edifici: erano diventati trasparenti e non c'erano più le barriere dei muri a proteggere l'intimità degli uomini.
Non andai dal medico quel giorno e nemmeno nei giorni a venire. Ebbi paura, un'angosciosa paura di finire dritto dritto al manicomio. Mi resi subito conto, infatti, che questo dramma era solo mio. Tutta la gente si comportava normalmente, quello era un giorno come un altro per ogni uomo, ma non per me: per me era la fine di tutto.

A mia madre dissi che tutto era subito passato nel giro di qualche minuto e che non era stato neppure necessario andare dal medico. Da quel giorno fui costretto a convivere con questa mia tragica condizione: decisi di imparare a portare questa croce, cominciai ad apprendere giorno per giorno l'arte del dissimulare. Uno solo fu il mio obiettivo: vivere questo dramma senza dare nell'occhio.

Tutto ciò è durato fino a qualche giorno fa, come lei ben sa. Ora questa mia esperienza angosciosa è finita, e per sempre. Non mi giudichi male, la prego: cerchi di capire! Non potevo più continuare così. Ormai la vita per me era senza più segreti, senza più sorprese. Provi lei a mettersi nei miei panni, a dover assistere ogni giorno ad ogni sorta di fatti: odio, violenze e delitti di ogni genere, corruzione, inganni, tradimenti. Lei comprenderà certamente.

Non potevo continuare a guardare le brutture del mondo!", si interruppe per qualche secondo, come per riflettere, poi riprese, "Bene, ora conosce la mia storia. So che sembra una storia inverosimile, ma le assicuro che è la realtà. Può raccontarla a tutti se vuole, anche se non le crederanno mai, tuttavia può provare, è un suo diritto, il "sacro" diritto del cronista, cui tutto si sottomette... Sarò felice, però, se lei vorrà rinunciare al suo scoop. Io mi sentirei meno solo, se fosse così. Sarei felice di sapere che c'è chi mi ha compreso e ha voluto condividere con me questo segreto".

Tacque per un momento, come indeciso, poi continuò: "Ora devo pregarla di lasciarmi, sono molto affaticato e stanco e vorrei dormire un po'".

Mi alzai in piedi con la testa confusa e pesante e lo lasciai solo. Non lo rividi più. So che ancora oggi vive in un istituto per ciechi.

Non mi chiesi mai se quella storia fosse vera o frutto di follia. Non feci mai quell'articolo. Nella mia carriera di giornalista, quella fu l'unica volta in cui la realtà mi vinse ed io fui felice di arrendermi.


***

                                                        DALLA NOTTE ALL’ALBA

"Occupato", rispose Elena quando sentì bussare alla porta della toilette, "Un attimo, ho quasi fatto."

Mise con cura l'abito che si era appena tolto e il resto del suo abbigliamento nella grossa borsa da viaggio, dopo aver piegato ogni cosa facendo attenzione a non sgualcire nulla. Intanto si era rivestita rapidamente dei nuovi abiti: un paio di jeans e un maglione di lana verde, calzini bianchi e scarpe da ginnastica, anch'esse bianche. Si infilò per ultimo il cappotto nero e uscì dal bagno, lasciando il posto ad una signora che era in attesa.

Elena era contenta della sua scelta: quel bar del centro era sempre molto affollato e aveva, nonostante ciò, dei bagni assai puliti. Lo aveva scelto proprio perché la numerosa clientela le consentiva di entrare e di uscire indisturbata, senza farsi notare.

Uscì sul marciapiede gremito di folla. Tutta quella gente il sabato pomeriggio approfittava della giornata libera dal lavoro per fare spese nei numerosi negozi distribuiti sui due lati della via più famosa della città. La giovane si guardò intorno, indecisa sulla direzione da prendere, poi s'incamminò a caso.

Elena era una ragazza di circa 25 anni, alta, longilinea, bruna, dai capelli corti e dalla pelle olivastra, e con i lineamenti del viso abbastanza regolari: insomma, era una ragazza discreta, che non si notava certo per la sua bellezza fisica.

Camminava lungo il marciapiede con una certa fretta. Guardava le vetrine dei negozi con attenzione, cercando quello che facesse al caso suo. Entrò, infatti, in un negozio di abbigliamento, frequentato soprattutto da giovani:

"Buonasera!", disse con gentilezza una delle commesse, appena la vide entrare, "Posso esserle utile?"

"Sì", rispose Elena, "Vorrei un vestito per andare in discoteca. Sa, uno di quei vestiti molto corti e aderentissimi, che vanno di moda adesso".

"Certamente", disse la commessa, "Abbiamo una vasta gamma di modelli. Venga con me, le faccio vedere".

Alcuni minuti dopo Elena era di nuovo in strada con un pacco ben confezionato. Dopo aver camminato per un buon tratto, fece tappa dapprima in un negozio di calzature, poi in uno di cosmesi. Finiti i suoi acquisti, si rese conto che erano quasi le 20.30. Il brontolio del suo stomaco le fece capire che era ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Entrò in un ristorante, uno dei molti locali presenti nella zona, si diresse ad un tavolo a caso e si sedette, posando sulla sedia accanto a sé tutti i pacchi degli acquisti effettuati nel pomeriggio. Il locale era ancora vuoto, data l'ora. Si avvicinò il cameriere e prese l'ordinazione. Dopo una mezz'ora Elena aveva già finito di mangiare: chiese il conto e pagò.

"Scusi!", disse prima di alzarsi, "Potrei servirmi della vostra toilette? Dovrei cambiarmi d'abito".

"Certo", rispose il cameriere, "Mi segua".

Elena si alzò e seguì l'uomo dentro un corridoio laterale, fin davanti alla porta della toilette delle signore. Entrò e chiuse la porta a chiave.

Era passata più di mezz'ora ormai e il cameriere si era quasi dimenticato della cliente chiusa nel bagno, quando ad un tratto la vide sbucare dal corridoio e dirigersi verso la porta del locale. A stento poté riconoscere in quella ragazza la cliente di poco prima. Elena, infatti, si era letteralmente trasformata.

Aveva ai piedi un paio di scarpe da sera color d'oro, con altissimi tacchi a spillo. Dal lungo cappotto nero sgusciavano fuori in parte le sue gambe, avvolte in seducenti calze nere a rete. Il suo viso era notevolmente truccato e risultava contornato da una folta e lunga parrucca, dai capelli neri e lisci. Al suo passaggio lasciò nella sala una scia di profumo stordente.

"Buonasera e... Buon divertimento!", disse ammiccando il cameriere.

"Buonasera a lei!", fu la risposta secca di Elena, che aprì la porta e uscì subito, senza indugiare. Appena fuori dal locale si ricordò, con disappunto, che doveva chiamare il taxi dal telefono del ristorante. Fece quindi dietro-front ed entrò di nuovo.

Il cameriere, sorpreso di rivederla così presto, chiese se avesse dimenticato qualcosa.

"No", rispose lei, "Avrei solo bisogno del telefono".

"Sicuro! Venga con me", e il cameriere si avviò dalla parte della cucina, lasciando Elena davanti all'apparecchio telefonico.

Poco dopo la ragazza era in attesa del taxi all'uscita del ristorante.

Ad Elena, per indole, non piaceva aspettare, non aveva pazienza e provava disagio particolarmente in quella circostanza, dal momento che erano quasi le 22.00 e tutti gli uomini che passavano davanti a lei non facevano altro che infastidirla con apprezzamenti troppo spesso volgari.

"Eccolo, finalmente!", disse la ragazza sospirando, non appena vide il taxi avvicinarsi. La vettura si fermò con stridore di freni e lei salì, lasciandosi cadere di peso sul sedile posteriore.

"Alla discoteca "I Dioscuri", in via Seneca 21, per favore".

"Agli ordini, signorina", rispose spiritosamente il tassista, sbirciando furtivamente dallo specchietto retrovisore la sua vistosamente bella passeggera.

"E' affascinante la città di notte", pensava Elena, mentre il taxi si muoveva per le strade illuminate dai lampioni, dalle insegne dei negozi e dai fari delle auto,"E' affascinante, ma non per merito suo. E' la notte che la rende tale: ogni cosa è bella di notte perché è la notte stessa che è bella, bella e pietosa: non ha luce che illumini e che faccia vedere le brutture della vita. Dovrebbe essere sempre notte, così l'uomo sarebbe sempre felice...".

"Eccoci arrivati, signorina".

Il tassista accostò la vettura a poca distanza dall'ingresso della discoteca, davanti al quale erano già schierati in lunga fila numerosissimi giovani, ragazzi e ragazze, pazienti e speranzosi in una notte di divertimento e di evasione.

"Quanto le devo?"

"Quindicimilalire."

"Ecco a lei", disse Elena, porgendo all'uomo due banconote da diecimila.
Appena ricevuto il resto scese, portandosi dietro la sua grande borsa da viaggio, salutò il tassista e si diresse verso l'ingresso del locale. Sopra la porta della discoteca dominava una grossa insegna luminosa, lampeggiante, sulla quale era scritto "I Dioscuri".

"I Dioscuri?", si chiese mentalmente Elena, leggendo l'insegna, mentre si accingeva a fare la fila per entrare, "I Dioscuri... Sì, erano Castore e Polluce, i fratelli di Elena di Troia e di Clitemnestra, moglie di Agamennone, i quali, una volta morti, divennero una costellazione... Sì, quella dei Gemelli, almeno mi pare".

"Cento lire per i pensieri di questa bella e solitaria ragazza", disse una voce maschile alle sue spalle.

Elena si voltò e vide un ragazzo, non certo un bel ragazzo, ma dall'aspetto simpatico.

Era magrissimo e molto più alto di lei, aveva una bizzarra capigliatura rosso fuoco e la faccia cosparsa di numerose lentiggini. Stava in piedi proprio dietro a lei e aveva sfoderato la sua fila di denti in un interminabile sorriso. Guardava Elena con occhietti vivaci, in attesa di una risposta.

"Non ti sembra di pagare un po' poco per conoscere i miei pensieri?", disse la ragazza in tono scherzoso.

"Beh, che vuoi farci? Io sono piuttosto taccagno e cerco di risparmiare in ogni occasione", ribatté ridendo il ragazzo, guadagnandosi così la simpatia di Elena.

"Come ti chiami?"

"Elena"

"Io Marco, piacere di conoscerti", disse il ragazzo allungando la mano e stringendo quella che Elena gli porgeva.

"Come mai vieni in discoteca da sola?"

"Perché lo preferisco, mi diverto di più a fare nuove conoscenze, non mi va di fossilizzarmi con i soliti vecchi amici... E tu? Anche tu stai da solo, o sbaglio?"

"Sì, è vero. Anch'io sto da solo. Sai, io non ho amici, né vecchi, né nuovi. Non riesco a legare. Dopo un po' mi stufo di tutto e di tutti: che ne pensi? Sarà grave?", disse Marco ridendo.

"Beh, non saprei", rispose Elena scherzando, "Dai sintomi che mi hai descritto dovrebbe trattarsi di una forma acuta di misantropia, forse cronica. Ma non ti disperare: non morirai per questo". E risero entrambi.

Entrarono finalmente nella discoteca, ballarono e si divertirono per tutta la notte; conversarono a lungo, raccontandosi di sé stessi e delle proprie aspirazioni fino all'alba.

"E' ora di andare", disse Elena, "La discoteca si è praticamente svuotata, sono stanca e ho molto sonno".

"Sì, certo, anch'io devo andare. Permettimi di accompagnarti a casa".

"No, ti ringrazio, preferisco di no. Sai, la verità è che io non ti conosco ancora bene e non mi va che tu sappia dove abito o quale sia il mio numero di telefono. Scusami! Abbi pazienza, io sono una persona abbastanza strana, lo riconosco".

"Strana?... Strana è dir poco!... Comunque, sia fatto come tu desideri. Ma come dovrebbe fare un comune mortale se volesse rivederti?"

"Beh, potrebbe farsi trovare sabato prossimo in questa stessa discoteca".

"D'accordo, ci sarò. Ma tu non darmi buca, eh!".

Uscirono, si salutarono e ognuno prese la sua strada. Elena s'infilò nella prima cabina telefonica che trovò, inserì il gettone e chiamò il radio-taxi. Una mezz'ora dopo si trovava già nel suo bar preferito, affollato di giovani che, come lei, erano appena usciti dalle discoteche. Erano ormai le 6.00 ed Elena entrò frettolosamente nella prima toilette che trovò libera. Aprì la borsa e ne tirò fuori il vestito nero e gli altri accessori. Si tolse la parrucca e si pulì bene il viso, lavandosi accuratamente. Si vestì più in fretta che poté, facendo attenzione ad indossare tutto in modo ordinato e composto. Rimise gli abiti che si era appena tolti nella borsa insieme ai jeans, al maglione e alle scarpe da ginnastica che aveva indossato il pomeriggio precedente. Si infilò nuovamente il cappotto nero e uscì dal bar a testa bassa e in fretta, anche se non riuscì ad evitare lo sguardo curioso e perplesso di qualche avventore.

Camminò per un lungo tratto, stanchissima, trascinando con sé la borsa piena zeppa di indumenti. Arrivò finalmente davanti al grosso portone di legno di un enorme e vecchio edificio, suonò il campanello e dopo pochi secondi vennero ad aprire.

"Oh, suor Elena! Bentornata!", disse la suora che era venuta ad aprire, "Sua madre come sta?"

"Bene, grazie. La saluta tanto", rispose la ragazza frettolosamente, "Ed ora, suor Assunta, se non le dispiace, vorrei subito andare a dormire. Sono molto stanca".

"Si vede, povera suor Elena! E' molto pallida. Vegliare sua madre deve essere molto faticoso. Vada subito a riposarsi".

"Sì, infatti è proprio quello che farò", disse suor Elena, con un tono distratto e pensieroso.

"Andrà anche sabato prossimo ad assistere sua madre ammalata?"

"Sì, certamente, mia madre sta meglio e voglio assicurarmi che guarisca del tutto".

"Oh, sono proprio contenta!", esclamò suor Assunta, "Sono molto felice per lei!"

"Grazie, anch'io", interruppe la giovane suora, che se ne stava con lo sguardo fisso e assente, "Beh, a più tardi".

Detto questo si voltò e si incamminò con passo lento e stanco lungo il corridoio buio del convento, scomparendo nell'oscurità.


***

                                                                LA GOVERNANTE

Ettore Chiarini aveva trascorso quasi tutta la sua vita a scrivere storie singolari e straordinarie. Era stato uno degli scrittori più rappresentativi del suo secolo, aveva ricevuto molti consensi, sia dalla critica, sia dal pubblico.

Nessuno mai avrebbe potuto immaginare che una carriera tanto luminosa si sarebbe spenta così tristemente.

All'inizio nessuno fu in grado di comprendere la vera natura del dramma di Ettore Chiarini. Lo scrittore, infatti, in un primo momento aveva manifestato il suo disagio esistenziale isolandosi. Aveva cominciato a diradare le sue apparizioni in pubblico, soprattutto nei salotti televisivi, da lui di solito tanto frequentati. Nelle rare volte in cui aveva preso parte a programmi televisivi, aveva assunto una strana condotta: rimaneva misteriosamente silenzioso, parlava solo se direttamente chiamato in causa dal presentatore e rispondeva per lo più con monosillabi.

Tutti avevano ormai capito che in Chiarini c'era qualcosa che non andava. A conferma di questa ipotesi, una volta accadde un fatto davvero strano: durante una sua apparizione televisiva, che sarebbe stata poi l'ultima per lui, ad una precisa domanda del conduttore, Chiarini non rispose, ma sbarrò gli occhi in un atteggiamento di terrore. Con lo sguardo perso nel vuoto, si alzò con un moto repentino e fuggì via, gridando e picchiandosi dei pugni in testa.

Ormai erano parecchi anni che questo grande scrittore viveva in completa solitudine, abbandonato da parenti ed amici. Solo la sua fedele governante gli era rimasta accanto ed è proprio da lei che ho appreso quanto sto per raccontarvi.

Il suo lavoro di governante accanto a Chiarini era finito da qualche mese, in seguito al ricovero dello scrittore in una clinica psichiatrica, quando conobbi Eva, così si chiamava lei, ad una esposizione di lavori ad uncinetto, nella quale sia io che lei presentavamo alcune nostre creazioni.
Conversando con lei, venni a sapere del suo lavoro presso Chiarini e così ne approfittai per conoscere qualche notizia interessante sul malessere psichico dell'uomo. Ebbene, Eva mi raccontò con grande sincerità e con dovizia di particolari tutto lo strano comportamento del suo padrone negli ultimi tempi.

Il signor Chiarini aveva delle visioni, immaginava di conversare con dei personaggi, gli stessi che aveva reso protagonisti dei suoi romanzi. Egli riteneva, infatti, che fossero persone realmente esistenti e che lo tormentassero durante il regolare svolgimento della sua vita.

"Mi tormentano!", diceva, "Mi fanno i dispetti! Alcuni di loro sono arrivati al punto di minacciarmi di morte!"

La signora Eva era diventata ormai l'unica confidente del povero scrittore, era una donna semplice ed esperta dei malesseri dell'animo umano, si dimostrava sempre disponibile e pronta ad ascoltare chiunque, tanto più il signor Chiarini, di cui lei conosceva l'indole buona e gentile.

"Signor Ettore", gli diceva dolcemente, "Non se la prenda! Stia calmo, che tutto si risolverà presto!..."

"Ma cosa si risolverà mai?", sbottava lui, esasperato,"Questi disgraziati mi perseguitano, si vogliono vendicare perché ho dato loro la vita, perché li ho creati, perché li ho resi protagonisti di una vicenda, piuttosto che di un'altra a loro maggiormente gradita... Ma io che ci posso fare ormai? Essi vorrebbero che cambiassi la trama dei miei romanzi, per adattare le vicende alle loro egoistiche esigenze, ma questo è impensabile!"

La signora Eva mi raccontò con molta precisione e puntualità tutto quanto accadde fino al giorno in cui il signor Chiarini fu condotto via. La fedele governante rimase in casa dello scrittore ancora per una settimana dal giorno del ricovero e, cosa che mi fece stupire non poco, mi raccontò che proprio in quei giorni le capitò di fare incontri misteriosi, dei quali ancora non riusciva a darsi una spiegazione logica.

Durante quella settimana, infatti, le accadde di imbattersi in specie di sagome che camminavano per la casa, ma che sembravano non avere una reale consistenza corporea. L'effetto che esse producevano su di lei non era di paura o di preoccupazione, quanto piuttosto di curiosità.

La signora Eva aveva letto con passione tutte le opere del signor Chiarini e aveva apprezzato molto lo spessore spirituale e morale dei suoi personaggi, la forza d'animo dimostrata nelle situazioni tragiche di cui erano stati resi protagonisti. Aveva pensato, dunque, che il povero signor Chiarini avesse ragione, che non fosse affatto pazzo e che quelle apparizioni altro non erano che la manifestazione fisica dei suoi personaggi.

Ad ogni modo, la signora Eva, trascorsa quella settimana, se ne andò per sempre da quella casa, senza il desiderio di approfondire ulteriormente l'indagine sull'origine di quelle figure. Dopo qualche giorno la casa bruciò in un incendio, che i periti attribuirono a cause accidentali, probabilmente un corto circuito.

Questa è la storia che la signora Eva mi ha raccontato circa due mesi fa. Da allora non l'ho più rivista: in quell'occasione non pensai neppure di chiederle l'indirizzo, o comunque un recapito dove poterla rintracciare. A dire il vero, terminata la nostra conversazione, si dileguò senza che me ne accorgessi.

Certo, la sua è stata una condotta poco chiara e soltanto ora riesco a farmi una ragione di questo suo strano comportamento, soltanto adesso che ho finito di leggere l'ultimo romanzo di Ettore Chiarini, del quale è protagonista una governante di nome Eva, una signora molto brava nei lavori ad uncinetto e anche un po' piromane.


***

                                                 IL MUSICISTA DELLE MOSCHE

Finalmente la sera del tanto sospirato concerto era arrivata. Antonio Lorenzetti era straordinariamente emozionato: era la sua prima grande esibizione, il suo primo concerto Al Teatro alla Scala di Milano, evento trasmesso in diretta TV e diffuso nei principali paesi d'Europa. Per l'occasione, il musicista aveva indossato uno smoking nuovo di zecca, nero e lucido come i suoi capelli impomatati.

"Stasera farò colpo su tutta l'Europa", pensò, "Mi farò conoscere non solo per la mia bravura, ma anche per la mia bellezza. Le donne non potranno certo resistermi, poverine!"

Mentre rifletteva in questo modo, si mise a fischiettare allegramente un motivetto, guardando compiaciuto la sua immagine allo specchio e aggiustandosi con precisione il papillon. Dopo aver controllato che nella custodia del suo flauto tutto fosse in ordine, indossato il cappotto di lana nero con il collo di pelliccia, uscì, chiudendo dietro di sè la porta della camera d'albergo, nella quale aveva preso alloggio un paio di giorni prima.

Alla Scala i professori d'orchestra avevano già occupato i loro posti. Anche Antonio Lorenzetti si sedette ed insieme ai suoi colleghi cominciò ad eseguire alcuni accordi.

Il teatro, come in tutte le grandi occasioni, era gremito di folla, sia in platea, sia nei palchi: gli uomini, eleganti nei loro smoking, conversavano piacevolmente, a piccoli gruppi, di politica o di affari; le donne, bellissime, scintillanti nei loro abiti da sera e ricoperte di preziosi gioielli, si guardavano intorno compiaciute, cercando di cogliere lo sguardo ammirato di qualche bell'uomo o quello invidioso di qualche amica e conoscente.

L'inizio del concerto era imminente. Nel teatro cominciarono ad abbassarsi le luci e, a poco a poco, il brusio prodotto dalla fitta conversazione del pubblico si affievolì, fino ad arrivare ad un silenzio quasi assoluto.
Soltanto all'apparire del direttore d'orchestra quel silenzio fu rotto da un applauso scrosciante. Con un semplice e breve inchino il direttore ringraziò e, voltatosi verso l'orchestra, diede due colpetti di bacchetta sul leggio, segnale con il quale catturò l'attenzione di tutti i musicisti.

Antonio Lorenzetti, con un po' di batticuore, aprì lo spartito alla prima pagina e attese che il direttore desse inizio al concerto.

Cominciarono, e una musica meravigliosa, allo stesso tempo soave e potente, riempì gli immensi spazi del teatro e si insinuò, attraverso le orecchie, negli animi degli ascoltatori. Antonio Lorenzetti, con il suo flauto, seguiva le note sullo spartito e suonava, suonava...

Ma,... Perché il direttore d'orchestra lo stava fissando con quello sguardo così indignato e minaccioso?... Perché i colleghi che gli sedevano accanto lo guardavano increduli e inorriditi?... Il pubblico, poi, stava fischiando e rumoreggiando!...

L'orchestra stava suonando male: o meglio, c'era un flautista che suonava orribilmente, che stava eseguendo una musica per conto suo, che non aveva nulla a che fare con la composizione in programma per quella serata. Il flautista Antonio Lorenzetti se ne stava andando lontano, chissà dove, percorrendo con il suo flauto una strada di note sconosciute.

L'orchestra ormai si era arrestata da un pezzo; il direttore urlava fuori di sé dalla rabbia contro quel pezzo di idiota di un musicista che continuava la sua solitaria esecuzione in mezzo al pandemonio scatenato dal pubblico.

La serata finì miseramente per questo imprevedibile musicista: fu portato di peso fuori dall'orchestra, afferrato mani e piedi dai corpulenti inservienti del teatro. Dunque, dopo avere faticosamente ricondotto alla calma il pubblico e dopo aver riordinato le idee, il direttore consentì ai musicisti di riprendere l'opera interrotta, sebbene con un flauto in meno.

Nei giorni successivi, giornali e televisioni di tutto il mondo diedero ampio spazio all'accaduto: ci si interrogò sul perché di questa vicenda così bizzarra, si intervistarono gli amici e i colleghi del flautista, ma nessuno seppe dare una motivazione convincente, che giustificasse la condotta di Antonio Lorenzetti.

Soltanto più tardi un collega, che aveva suonato in quell'occasione, divulgò una notizia stupefacente: da una approfondita analisi effettuata sullo spartito che Lorenzetti aveva con sé quella sera, si era potuta accertare la presenza, sul pentagramma, di innumerevoli escrementi di mosca, centinaia di piccoli mucchietti neri, perfettamente disposti sui righi e negli spazi, molto simili alle note e alle figure musicali. In seguito a questa straordinaria scoperta, Antonio Lorenzetti fu soprannominato il musicista delle mosche.


***

                                                                  VELENO

Il serpente se ne stava immobile sotto il torrido sole di agosto, pigramente aggrovigliato su una grossa scaglia di lava lucida e nera.

Da lassù, dagli scoscesi pendii dell'Etna, il serpente contemplava silenzioso le valli e le pianure che si stendevano ai piedi del vulcano. Spingeva lontano il suo occhio, laggiù verso l'irraggiungibile orizzonte, là dove la terra finiva, nel punto esatto in cui cielo e mare sembravano fondersi in un solo indefinibile colore.

Il suo sguardo attraversava gli spazi infiniti, andava lentamente dall'Etna maestoso, ai suoi piedi ricco di vegetazione, alle belle colline tutt'intorno, ricoperte di coltivazioni che l'uomo aveva faticosamente strappato alla terra avara, per poi arrivare al mare, a quella sconfinata distesa azzurra che sembrava preclusa agli esemplari della sua specie.

Giunto nel punto oltre il quale un occhio mortale non può andare, il serpente percorreva di nuovo quell'immensa distesa a ritroso, per tornare a guardare ancora una volta il sasso da cui il suo occhio era partito e tutti quelli ugualmente lucidi e neri che si stendevano tutt'intorno a lui, come uno squamoso e gigantesco tappeto.

Era stanco, era tanto stanco. Erano secoli ormai che viveva a quel modo, secoli interminabili di cui non ricordava nulla, nessun particolare, nessuna sensazione viva, se non una vaga percezione dello spaventoso oceano di tempo trascorso, senza una precisa e chiara consapevolezza di sé, come se fosse un essere senza passato, senza presente, senza futuro.

"A che cosa vale la mia vita?", pensò tristemente, "Un'esistenza inconcludente, senza obiettivi, senza sentimenti, del tutto piatta e uniforme, come questo sasso su cui sto disteso a riposare... Già, a riposare!... Ma da quali grandi fatiche? Da quali stancanti occupazioni dovrei riposare?"

Spesso il serpente meditava e rifletteva in questo modo. Avvertiva un'urgente necessità di trovare uno scopo, di dare finalmente un senso alla sua vita. Per secoli e secoli aveva pensato a come impiegare il suo tempo; aveva considerato vari piani, ma senza approdare ad alcuna conclusione.

Tuttavia, proprio in quell'assolato pomeriggio di agosto, il serpente riuscì a trovare finalmente un obiettivo verso cui indirizzare la sua vuota esistenza.

"Per vivere davvero e per sempre nel mondo, per regnare in eterno fra gli uomini, sarà necessario che io muoia", così pensò fra sé.

Ecco, dunque, che il serpente ad un tratto si distese su tutta la sua lunghezza e si aprì completamente, come se fosse stato sezionato dalla lama tagliente di un coltello. Dal suo corpo spaccato fuoriuscì una notevole quantità di liquido bianco, come una specie di latte funesto, che prese a scorrere lungo il fianco del vulcano, fra i massi di lava, come un piccolo ruscello di morte. Il veleno si distribuì per tutta la valle, permeò di sé i campi, contaminò le acque, soprattutto quelle destinate ad abbeverare gli animali o ad irrigare le coltivazioni. Anche alcuni uomini bevvero questo liquido mortifero, ma stranamente non morirono.

essi accolsero in sé l'essenza stessa del serpente, ospitarono il rettile nel loro corpo, lo resero padrone del loro pensiero, lo nominarono sovrano di ogni loro gesto, gli affidarono ogni loro volontà. Essi gli diedero anche una posterità attraverso i loro figli.

Ancora oggi, in alcune terre della Sicilia, il serpente, arrotolato su qualche grossa pietra, pigramente disteso sotto il sole cocente di agosto, guarda compiaciuto i suoi figli.       

***

                                                              L’INTERVISTA

Erano circa le dieci del mattino, quando Roberto Agorà ricevette quella straordinaria e inquietante telefonata. A distanza di qualche ora poteva ancora ricordare perfettamente la voce del suo misterioso interlocutore.

"Pronto?... Parlo con Roberto Agorà?", aveva detto una voce maschile con uno spiccato accento siciliano.

"Sì, chi è?"

"Chi sono non ha alcuna importanza. La chiamo per proporle un'intervista al boss ***. Se è interessato a questo scoop si presenti solo, ripeto: assolutamente solo, questa sera alle ventuno, vicino all'edicola all'angolo tra via Roma e Corso Federico II".

Detto questo, aveva riagganciato, impedendo al giornalista ogni possibilità di replica.

Roberto Agorà si trovava già da alcuni minuti sul luogo dell'appuntamento: erano passate da poco le ventuno e non si era ancora visto nessuno. Non aveva sospettato neppure per un momento che si potesse trattare di uno scherzo fatto da qualche buontempone. La voce dell'uomo misterioso era troppo sicura e convincente.

Le vie che si intersecavano in quel punto della città erano buie e silenziose, nonostante non fosse così tardi. D'altronde, la vita notturna era sconsigliata in una città con un così alto tasso di criminalità. Roberto Agorà non si sentiva tranquillo: fino all'ultimo momento era stato incerto se affrontare questa esperienza pericolosa o rinunciarvi, ma il desiderio di realizzare uno scoop così straordinario lo aveva conquistato ed aveva messo a tacere ogni timore riguardo alla propria incolumità.

In trent'anni di onorata carriera non gli si era mai presentata un'opportunità del genere: non si riteneva un uomo ambizioso, ma come si dice: "l'occasione fa l'uomo ladro". Figuriamoci! Fare l'intervista al boss dei boss, al vertice assoluto della cosiddetta "Cupola". Un individuo di cui nessuno conosceva la vera identità, che nessuno aveva mai visto realmente. Immaginava con soddisfazione che il suo nome sarebbe stato sulla bocca di tutti e si compiaceva anticipatamente dell'invidia che avrebbe suscitato nei colleghi.

Era assorto da qualche minuto in queste fantasiose riflessioni, quando la sua attenzione fu richiamata da un individuo che, con passo rapido, si stava avvicinando.
Era l'uomo che lo aveva contattato per telefono. Salirono entrambi su un'automobile ferma poco distante e si diressero verso la periferia nord della città. Arrivati ad una viuzza buia, lo sconosciuto fermò la macchina e bendò il giornalista, affinché non potesse vedere la strada che rimaneva da percorrere.

Dopo circa una decina di minuti giunsero a destinazione e a Roberto Agorà fu tolta la benda. Si trovava in una specie di garage sotterraneo, male illuminato. Sulla parete di destra si apriva una piccola porta: l'uomo che lo accompagnava invitò Roberto a seguirlo in quella direzione. Dopo avere disceso una stretta rampa di scale, arrivarono in un angusto corridoio sul quale si apriva una porta: l'individuo bussò.

"Vieni avanti", rispose una voce dall'interno.

"Puoi entrare", disse lo sconosciuto al giornalista, "Il boss ti sta aspettando".

Roberto Agorà, con fare incerto, come preso da un improvviso timore, spinse la porta ed entrò. Si trovò in una stanzetta quasi del tutto al buio: si trattava di una specie di cantina illuminata da una fioca luce rossastra proveniente dal soffitto.

Ciò che colpì maggiormente l'attenzione del giornalista, però, non fu tanto l'aspetto fatiscente dell'ambiente, quanto piuttosto l'odore nauseabondo e ributtante di cui il posto era impregnato, come se in quella stanza vi fosse una fogna a cielo aperto: un odore di escrementi e di liquami pestiferi. A sentire meglio, questo puzzo schifoso presentava talvolta una punta più acre, più pungente, come di zolfo.

Il giornalista si guardò intorno, per rendersi conto, alla poca luce che emanava il soffitto, di come fosse fatta quella stanzetta e soprattutto dove fosse il boss. Nell'oscurità, tuttavia, non riusciva a cogliere alcun particolare. La stanza sembrava vuota, o comunque arredata con pochissime cose: su una parete sembrava poggiare una specie d'armadio, su quella opposta c'erano due sedie sgangherate.

"Si sieda pure su una di quelle sedie", disse una voce proveniente dall'angolo a sinistra.

Roberto Agorà si voltò in quella direzione, ma quell'angolo era particolarmente buio, non riusciva ad intravedere niente, neanche i contorni vaghi dell'uomo che aveva parlato. Tuttavia, fece come gli era stato ordinato. Si avviò verso la parete contro la quale erano appoggiate le sedie, prese quella nelle migliori condizioni e si sedette, rivolto verso l'angolo da cui proveniva la voce.

A poco a poco, gli occhi del giornalista avevano cominciato ad assuefarsi alla poca luce e avevano cominciato a distinguere qualcosa in quell'angolo oscuro, una forma indistinta che di tanto in tanto si muoveva. Roberto Agorà aveva conficcato il suo sguardo in quel punto per cogliere meglio ogni elemento utile a svelare il suo interlocutore misterioso. Faceva attenzione ad ogni più piccolo rumore: infatti avvertiva spesso una specie di fruscio, come se in quell'angolo vi fosse un rettile che strisciava.

Improvvisamente la sua curiosità fu interamente appagata: ad un tratto il buio in quell'angolo cominciò a diradarsi, a diventare meno fitto, e il giornalista poté cogliere con tutto il suo orrore le fattezze di quell'essere. Ciò che strisciava sul pavimento non era un rettile, ma la coda di quell'individuo, e la nuova luce sopraggiunta bruscamente aveva scoperto completamente l'immagine terribile di Satana: le corna appuntite che sormontavano la testa, gli artigli della mano destra che stringevano il forcone, le ali di pipistrello inerti.

Roberto Agorà, dopo essere rimasto pietrificato dal terrore per alcuni secondi, cacciò un urlo selvaggio, quasi animalesco, che gli squinternò i polmoni e che lacerò il silenzio della notte: soltanto la vera paura poteva fargli esplodere dal petto un grido così spaventoso. Fuggì da quella stanza sotterranea come un fulmine, salì le scale così rapidamente come mai nessun uomo aveva fatto prima. Arrivato in strada, corse, corse, corse...

lo trovarono alle prime luci dell'alba in riva al fiume, in preda alla febbre: balbettava cose senza senso, parlava del diavolo o di non so cos'altro. I suoi capelli erano irti come le setole di una spazzola e il ciuffo che di solito ricopriva la sua fronte era diventato completamente bianco.

Nessuno seppe mai cosa gli fosse capitato. Dopo qualche giorno si riprese, ma non volle mai raccontare niente: da quella notte non fu più lo stesso.

***     

                                                                   RUFUS

Mi chiamo Rufus. Ho dormito in una tomba etrusca, nella campagna romana, per più di duemila anni. Per secoli e secoli ero riuscito a non svegliarmi, nonostante molti terremoti e rumori di guerre.

Tuttavia, una mattina di novembre del 1999, una macchina infernale fece crollare una parte del soffitto della mia tomba e il suo insopportabile rumore mi strappò dalla morte. Seppi più tardi che tale diavoleria si chiamava trattore e serviva ai contadini per lavorare la terra. Insomma, a causa di quel trabiccolo, mi ritrovai di colpo a vivere alla fine del XX secolo. Che buffa gente vive in quest'epoca! E come rimpiango la mia vita di tanti secoli fa! Qui vanno tutti di corsa e ciò che più conta per loro è l'apparire. Tutta la loro vita è dedicata al soddisfacimento dei loro bisogni materiali: lo spirito per questi uomini semplicemente non esiste.

Sono strani, nevrotici, non si mettono mai a pensare seriamente, a riflettere sui perché della vita. Si stordiscono con alcol, droghe e con un apparecchio che emana immagini e che si chiama televisore. Hanno perso completamente quell'armonia con le cose che invece avevamo noi, alla quale tenevamo tanto. Oh, se gli uomini antichi li vedessero, questi loro discendenti, che delusione proverebbero!

E' vero che essi hanno imparato a volare senza che le loro ali artificiali si sciolgano al sole; è pur vero che riescono a far ascoltare la propria voce a distanze inimmaginabili con un buffo apparecchio che chiamano telefono; è anche vero che per i loro spostamenti usano veicoli velocissimi, trainati da chissà quali forze invisibili e misteriose. Ma tutto ciò a che vale, se questi miei discendenti non riescono più a guardare un fiore, se non distrattamente?

per curiosità ho voluto aspettare l'inizio del nuovo anno, l'inizio del 2000, convinto che con l'arrivo del terzo millennio, come lo chiamano loro, sarebbe cambiato qualcosa nel loro atteggiamento... Ma neanche per sogno!... Per festeggiare il capodanno nel loro modo sfrenato ci sono state decine e decine di morti. Povero me illuso!

Non voglio più stare fra questa gente assurda. Ho deciso di tornarmene dentro la mia tomba e cercare di riprendere, se possibile, il mio sonno eterno. Lascio queste poche righe a testimonianza del mio breve passaggio sulla terra del 2000.

Rufus l'etrusco. 

***

                                          MILLENOVECENTONOVANTATRE’

Il 1993 era stato un gran brutto anno per la maggior parte degli italiani. La profonda crisi economica, con i suoi effetti drammatici sui mercati finanziari e sull'occupazione, si univa ad una generale e radicata sfiducia della popolazione verso la classe politica dirigente, corrotta e senza scrupoli, che, nel corso di decenni di potere, era stata protagonista indiscussa di ruberie, prepotenze, ricatti, scandali.

In molte famiglie, colpite dalla disoccupazione e da una davvero eccessiva pressione fiscale, era cominciata la lotta per la sopravvivenza, per la conquista del pane quotidiano. In un simile frangente, i poveri italiani cercavano di mantenere intatta, per quanto possibile, la propria dignità.

In tale situazione critica si trovava, per l'appunto, anche la famiglia Filippi, così costituita: il signor Franco, quarantenne, disoccupato ormai da più di cinque mesi; sua moglie Marta, di due anni più giovane di lui, casalinga; tre figli, ancora in età scolare, e poi l'anziano padre del signor Filippi, il nonno Valerio, di settantasette anni, pensionato al minimo.

Questa famiglia viveva in una casa popolare nella periferia di Roma e già da alcuni mesi conduceva la propria vita al risparmio. Il signor Filippi, infatti, in marzo era stato licenziato dal cantiere edile dove lavorava come manovale. In cinque mesi di disoccupazione aveva cercato di darsi da fare come meglio aveva potuto, con tre figli da sfamare! Nei mesi di luglio e agosto aveva trovato un lavoretto in una villa: aveva ricevuto l'incarico di annaffiare il prato e i fiori, durante l'assenza per ferie dei proprietari, che portavano con sé anche il maggiordomo. Avevano pattuito un compenso di ventimilalire al giorno e al signor Franco andava più che bene, in tempi di magra come quelli!

Ma a settembre, con il ritorno dei signori, che cosa avrebbe fatto?

In quei brutti mesi di disoccupazione, i pochi soldi che i signori Filippi erano riusciti a mettere da parte in anni di sacrifici, erano stati quasi interamente consumati. E per fortuna potevano contare anche sulla misera pensione di nonno Valerio, altrimenti chissà che cosa avrebbero fatto! Quelle seicentomilalire al mese, in verità, consentivano alla disgraziata famigliola di comperare almeno il latte, la pasta, il pane e un po' di companatico per tutti.

Tuttavia, l'indigenza crescente ogni giorno di più e l'assenza totale di prospettive per il futuro stavano cominciando ad avvelenare l'atmosfera, prima serena, di quella famiglia. Ora bastava un nonnulla per far scoppiare furibonde liti: la moglie accusava il marito di negligenza, il marito rimproverava alla moglie l'ingratitudine, i figli piangevano impauriti dalle urla dei genitori, nonno Valerio taceva e pensava.

Il povero vecchio si sentiva in colpa, avrebbe voluto fare qualche cosa di più per la sua famiglia, aiutare suo figlio in questo momento di necessità, ma come fare? Si sentiva tanto vecchio e stanco! Se almeno quella sua pensione non fosse stata così miserevole!

Il vecchietto la notte non dormiva più, si rigirava inquieto nel letto alla ricerca di una soluzione. Almeno fosse stato molto malato, avesse avuto se non altro una grave malattia cronica, che lo avesse reso invalido per sempre, certamente avrebbe ottenuto un'indennità d'accompagno, circa settecentomilalire in più al mese: mica male per l'attuale situazione! E invece no! Lui era vecchio, sì, ma sano come un pesce, godeva di ottima salute, purtroppo!

Dopo alcuni giorni di riflessioni e di progetti, prima presi in considerazione, poi scartati, nonno Valerio sembrava aver trovato una soluzione.

Da quel momento aveva cominciato a dare segni di squilibrio mentale: diceva delle cose senza senso e faceva delle considerazioni totalmente sconclusionate e illogiche. Ben presto dalle parole passò ai fatti: un giorno lo trovarono con in testa lo scolapasta, sostenendo che fosse un elmetto che gli era necessario per proteggersi, visto che c'era in corso una guerra; il giorno successivo lo sorpresero in cucina mentre stava mangiando una fetta di pane con bucce di patate condite con aceto, che lui riteneva acciughe. I famigliari erano preoccupatissimi.

"Ci mancava anche questo!", diceva esasperata la signora Marta, "Ora, oltre agli altri problemi, dovremo far fronte anche alla malattia del nonno. Tutto contro di noi! Tutto si accanisce contro la povera gente!

I vicini di casa compativano questa disgraziata famiglia e soprattutto il povero nonno Valerio, che era davvero un caro vecchietto. Erano stati consultati diversi medici, anche specialisti in geriatria, e tutti avevano fatto un'unica diagnosi: si trattava inequivocabilmente di demenza senile, ovvero del rimbambimento tipico della vecchiaia. A sentire gli esperti non era una cosa grave, anzi, era una malattia piuttosto frequente nelle persone anziane: forse, col tempo, sarebbe addirittura scomparsa da sola, chissà? I signori Filippi sembravano rassegnati a questa triste realtà: quel caro vecchietto sarebbe stato un problema in più per loro: come avere un altro figlio piccolo da accudire.

Il nonno Valerio era abbastanza soddisfatto di come stava procedendo il suo piano. Quella notte l'avrebbe portato a compimento. Nel suo cuore, tuttavia, cresceva sempre di più la paura per ciò che stava per fare, ma il timore e l'angoscia cessavano subito, non appena pensava al fine per cui avrebbe agito.

Quella sera si coricò presto. Prima di andare a dormire aveva posato lungamente lo sguardo sui volti dei suoi cari: era uno sguardo dolce, che esprimeva un profondo affetto. I famigliari si erano accorti di quel suo guardare così insistente, ma non vi avevano badato più di tanto: ormai si stavano abituando alle stranezze del nonno.

Nel cuore della notte, il vecchietto si alzò dal letto senza fare rumore e, dopo essersi accertato che tutti fossero profondamente immersi nel sonno, si diresse in cucina.
Dopo pochi minuti un urlo raccapricciante squarciò il silenzio della notte e svegliò di soprassalto tutta la famiglia e anche i vicini di casa. Il signor Franco e sua moglie si resero subito conto che era accaduta qualche disgrazia al nonno. Si precipitarono in cucina e si presentò loro una scena terrificante: l'infelice vecchietto stava seduto a terra con le palpebre chiuse e sanguinanti; aveva ancora stretta in mano la bottiglia di acido muriatico che aveva usato per accecarsi.
Fra orribili gemiti di dolore, riuscì a spiegare a suo figlio, disperato, le ragioni del suo gesto.

"Così... Così vi daranno l'indennità di accompagno", mormorò ansimando, "...Finché sarò vivo io, potrete vivere senza troppi problemi... Potrete avere almeno il necessario per tirare avanti i bambini... Certo, io sarò un peso per voi, dal momento che sono cieco, ma non..."
Non finì il discorso perché perse i sensi. I signori Filippi, fra il pianto disperato dei bambini, lo sollevarono e lo adagiarono sul letto e chiamarono subito un'ambulanza.

Alcuni mesi dopo, la famiglia Filippi ricevette la prima mensilità della pensione di indennità per ciechi, per il nonno Valerio. Tutti si stringevano intorno al caro vecchietto e cercavano di dimostrargli affetto in tutti i modi possibili. Come comunicargli tutta la loro gratitudine per un sacrificio così grande?

Nonno Valerio comprendeva benissimo i loro sentimenti, soprattutto quando talvolta udiva i singhiozzi sommessi della signora Marta: in quei momenti era così felice come non lo era mai stato in vita sua.


***

                                                              IL SORPASSO

Alberto uscì di casa felice quel giorno. La concessionaria di automobili lo aveva appena avvertito che la sua nuova autovettura era pronta e che poteva andare a ritirarla quando voleva. Il ragazzo, dopo avere stipulato l'assicurazione, si recò subito all'autosalone: non vedeva l'ora di trovarsi alla guida della sua prima automobile. L'aveva comperata a rate ed era la prima cosa che possedeva. Il suo modesto lavoro gli aveva consentito di realizzare un sogno: avere un'automobile nuova e tutta sua.

E così, con una certa emozione, salì a bordo e, salutato il funzionario della concessionaria, partì, pensando di fare un bel giro, tanto per prendere un po' di confidenza con la strumentazione a lui poco familiare. Così si avviò verso la statale X, ampia e con un fondo stradale nuovissimo, molto adatto per una corsa in velocità. Alberto dapprima guidò con un'andatura moderata, poi, a poco a poco, cominciò a premere di più sull'acceleratore, sempre di più. Voleva inserire la quinta marcia, per provarla, per vedere come l'automobile avrebbe reagito.

Ad un certo punto, dopo un lungo rettilineo, la strada curvava dolcemente e dietro questa piccola curva Alberto, improvvisamente, si trovò davanti un automobile che procedeva molto lentamente. Un'automobile in tutto uguale alla sua, sia nel tipo, sia nel colore. Il ragazzo fece una brusca frenata, si spaventò molto: per fortuna, la sua auto, nuovissima, aveva un sistema frenante perfetto! Maledì mentalmente quel lumacone di automobilista lì davanti: per poco non lo aveva tamponato!

Dopo quella curva, la strada presentava di nuovo un lungo rettilineo, che poteva consentire il sorpasso, poiché nessuno sopraggiungeva sull'altra corsia. Alberto cominciò la manovra di sorpasso, inserendo la freccia e spostandosi con calma sulla corsia opposta a quella del suo senso di marcia. Spinse il piede sull'acceleratore per poter superare l'automobilista che lo precedeva, lo affiancò, cercò di portarsi più avanti per poter rientrare nella sua corsia, ma quell'individuo sconosciuto accelerò a sua volta, impedendo ad Alberto la manovra di rientro. Il ragazzo provò di nuovo il sorpasso, accelerò, accelerò sempre di più, ma niente da fare! Anche l'altro accelerava, creando una situazione fastidiosa e di pericolo, dal momento che il rettilineo si andava riducendo sempre di più. Alberto, indispettito, suonò rabbiosamente il clacson. Provò allora un'altra manovra: cercò di rallentare e di far andare avanti il suo antagonista, rinunciando così al sorpasso. Quindi pose piede sul freno e premette con decisione, ma l'altro fece altrettanto.

Le due automobili procedevano appaiate, perfettamente parallele, fianco a fianco, uguali, identiche come due sorelle gemelle. Alberto, molto nervoso, gettò un'occhiata furiosa verso quell'automobilista pirata e... Oddio!... Poco mancò che avesse un malore! Alla guida della vettura che procedeva accanto alla sua c'era un ragazzo identico a lui, con gli stessi tratti del viso, con gli stessi capelli, con gli stessi vestiti: ma sì, era lui! Era proprio lui!

"Mio Dio!", pensò con orrore, "Possibile?... Quello sono io!... Sono proprio io!"

Questa terribile scoperta gli procurò una profonda angoscia. Alberto dapprima sospettò un'allucinazione, un'illusione dovuta forse alla troppa felicità che gli aveva dato quella sua auto nuova. Con un brivido lungo tutto il corpo guardò di nuovo, più attentamente, all'interno di quell'automobile... Sì, quell'automobilista era lui, era proprio lui! Non potevano esserci più dubbi, ormai, anche se ciò era semplicemente assurdo.

E poi, anche l'autovettura era identica alla sua. Era come se stesse guidando con di fianco uno specchio, un lungo specchio in cui si rifletteva la sua immagine e quella della sua auto in corsa.
Il panico incominciava ad impossessarsi di lui. Come risolvere questa penosa ed incredibile situazione?

"Proviamo ad accelerare di nuovo!", si disse.

Spinse allora l'acceleratore più che poté. La sua automobile quasi volò sull'asfalto liscio della strada. Il suo antagonista, però, era sempre là, al suo fianco, senza indietreggiare o avanzare neppure di un palmo rispetto a lui.

"Vattene via!", urlò Alberto disperato, "Vattene via!... Lontano da me, maledetto!... Chi diavolo sei tu?... Che vuoi da me? Vattene!"

Grandi erano la rabbia e il terrore che il giovane provava per quell'inquietante immagine di sé stesso. L'altro lo guardava con un'aria ironica e sprezzante, come per deriderlo.
Tuttavia, per Alberto, la paura e l'angoscia finirono ben presto e per sempre.

Un grosso autobus arrivò all'improvviso sulla corsia dove si trovava il povero ragazzo e lo travolse. Alberto era troppo preso nella lotta contro sé stesso per accorgersi del pericolo. Così, rotolò miseramente con la sua vettura nuova nella scarpata, rimanendo ucciso sul colpo.

Il conducente dell'autobus non si dette pace per parecchio tempo. Sapeva che non era stata colpa sua. La responsabilità dell'incidente era tutta di quel povero ragazzo, che aveva invaso la sua corsia, andando contromano. Ciò che non capiva era il perché quel giovane andasse a così forte velocità e non avesse tentato neppure una frenata, oppure il rientro nella sua corsia, visto che era libera e priva di autoveicoli. Ah, questi giovani d'oggi! Valli a capire!


***

                                                                  C.C.C.C.C.

Flavia De Rossi camminava sul marciapiede con passo lento e breve. Erano circa le ventidue di una mite serata di primavera e a quell'ora la strada era del tutto deserta. La giovane signora Flavia andava quasi ogni sera dai suoi genitori, due persone gentili e molto anziane. Li accudiva e preparava loro la cena, poi, dopo aver sistemato la cucina ed essersi assicurata che i suoi vecchi stessero bene, se ne tornava a casa sua a piedi, tanto erano solo poche centinaia di metri da percorrere. A casa l'attendeva il marito, un uomo comprensivo e disponibile, il quale accettava di buon grado che la moglie ogni tanto gli preferisse i genitori.

Quella sera la signora Flavia era molto pensierosa e preoccupata: aveva trovato sua madre più stanca e più debole del solito. Spesso aveva pensato alla possibilità di una morte imminente dei suoi genitori e aveva provato ad immaginare quanto dolore avrebbe sentito. Ma finché si trattava di un'ipotesi più o meno lontana, era difficile rendersi bene conto dell'angoscia che tale esperienza può provocare in una figlia. Ma quella sera Flavia sembrava avere scorto sul viso emaciato della madre i segni macabri della morte e ciò le aveva procurato un'improvvisa stretta al cuore.
Era assorta in queste profonde e dolorose considerazioni, quando un grido di donna la riportò bruscamente alla realtà.

"Aiuto! Aiuto!... lasciate subito la mia borsa, ladri!"

La signora Flavia si voltò e vide sull'altro lato della strada una giovane donna alle prese con due scippatori su un motorino: la ragazza e i due assalitori si stavano disputando una borsetta. La signora De Rossi, senza pensarci un attimo, attraversò di corsa la strada e andò in aiuto della derubata.
Dopo una breve colluttazione, le due donne, a suon di sberle, riuscirono ad avere la meglio sui malviventi e a metterli in fuga.

"Oh, gentile signora!", disse la giovane aggredita, ansimando per lo sforzo e per lo spavento, "La ringrazio infinitamente per ciò che ha fatto. Se al mondo ci fossero tutte persone solidali e generose come lei, saremmo in Paradiso!... Come si chiama?"

"Mi chiamo Flavia".

Si strinsero la mano e, dopo avere scambiato ancora qualche parola, si separarono.
Appena Flavia ebbe svoltato l'angolo, la giovane vittima dello scippo fece un rapido cenno agli occupanti di un'automobile parcheggiata a pochi passi da lei. A quel segnale, i due uomini a bordo partirono e, svoltato l'angolo, si accostarono alla signora De Rossi, che camminava tranquillamente sul marciapiede. Il giovane che sedeva accanto al conducente estrasse una pistola e fece fuoco, mirando alle gambe della signora Flavia, che, con un grido di dolore, cadde a terra sanguinante.

I due ragazzi, dopo avere gettato verso la vittima un foglio di carta dattiloscritto, ripartirono a tutta velocità e, fatto il giro dell'isolato, si riportarono al punto in cui attendeva la ragazza che poco prima stava per essere scippata. La giovane donna salì a bordo e la macchina partì velocemente.

"Ottimo lavoro!", esultò la ragazza, "La banda delle Cinque C. ha colpito ancora!"

L'indomani la ragazza, capo del movimento eversivo delle Cinque C., convocò i suoi complici a casa sua. Giunsero per primi i due ragazzi in motorino, che la sera precedente avevano simulato lo scippo, e si lamentarono con lei per gli schiaffoni che si erano buscati dalla signora Flavia.

"Sono gli inconvenienti del mestiere!", disse ridendo la ragazza.

"Speriamo che la nostra prossima vittima non sia così manesca!", ribatté uno dei due.

Arrivarono poi gli altri due giovani che a bordo dell'automobile avevano ferito la signora De Rossi. La banda di delinquenti si era riunita per la consueta lettura dei giornali, dopo ogni loro azione.

"La signora Flavia è all'ospedale e se la caverà in pochi giorni", disse la ragazza con soddisfazione, "Guardate come la stampa ha dato risalto al volantino che abbiamo lasciato sul luogo dell'attentato!"
Così dicendo, mostrò una pagina di giornale ai suoi compagni. In effetti, a caratteri ben visibili, era riportato il seguente messaggio:

"C.C.C.C.C. - Il Comitato Combattente Contro la Coscienza Civile rivendica quest'azione criminosa e ribadisce ciò che ha già espresso in occasione delle operazioni di "pulizia morale" messe in atto nei mesi scorsi. Il C.C.C.C.C. si pone l'obiettivo di colpire tutte le persone che dimostrano solidarietà verso il prossimo e profondo senso civile nel loro agire quotidiano. Inoltre il Comitato finalizza il suo impegno alla creazione di una società basata sulla violenza e sul sopruso, nella quale regni la regola Homo Homini Lupus, che è alla base dell'ideologia delle Cinque C. - Roma, 20 maggio 1993."

"Ed ora, ragazzi", disse la donna, "dobbiamo prepararci per il prossimo colpo... Da oggi in poi, con noi in circolazione, chi avrà più il coraggio di avere una coscienza civile?".


***

                                                                LA LETTERA

Luca era un affezionato frequentatore della biblioteca comunale della sua città. Amava molto la lettura, ma non fino al punto di spendere soldi per acquistare i libri: lui i libri preferiva chiederli in prestito agli amici o alle biblioteche pubbliche. Quel pomeriggio era andato alla biblioteca comunale e aveva preso in prestito "Guerra e pace", di Leone Tolstoj, in ben tre volumi.
Era un lettore piuttosto pigro e rifuggiva dalle opere di grande mole. Questa volta, però, aveva deciso di mettere alla prova la sua resistenza, cimentandosi nella lettura delle quasi milleduecento pagine di cui era costituita l'opera del grande autore russo.

Dunque, quello stesso giorno, tornato a casa, volle cominciare subito a leggere. Afferrato il primo tomo dell'opera, lo aprì, ma subito di tra le pagine ecco scivolare fuori un sottile foglio di carta bianca che, oscillando leggero come una piuma, si andò a depositare a terra, ai suoi piedi. Il ragazzo lo raccolse e vide che si trattava di una lettera scritta a mano. Molto incuriosito, si sedette sul divano e incominciò a leggere.

"Caro lettore,

Ti chiederai giustamente chi sia colui che scrive questa singolare lettera, che hai trovato fra le pagine di questo libro e che si rivolge a te,... Eh, sì, amico mio, proprio a te... Ebbene, io sono un lettore, come te e come tanti altri... A dire il vero, vorrei sperare che tu non sia precisamente come me... Perché?... Ma perché io sono un uomo molto inquieto e spero, dunque, per il tuo bene che non lo sia anche tu. Eh, già, sono un individuo pieno di mille angosciose inquietudini e di continue contraddizioni.
Pensa che l'ultima mia follia, frutto dell'incessante lavorio del mio cervello, è davvero incredibile.
Qualche tempo fa mi sono messo in testa di conoscere tutta la gente del mondo. Pensavo che solo così la mia vita poteva avere un senso. Dopo una profonda meditazione e dopo essermi posto le consuete domande che da sempre attanagliano il pensiero umano, "Chi è l'uomo?", "Che cos'è la vita ?", "A che cosa è volto l'agire umano?", e via dicendo, sono arrivato alla conclusione che solo conoscendo tutti i luoghi della terra e tutte le persone che li popolano, avrei compreso il vero significato della vita e solo così sarei stato appagato.

"Pensa che bello!", mi dicevo, "Conoscere tutte le persone che vivono su questo mondo. Tutte, ma proprio tutte... Una per una". Ero talmente esaltato che credevo veramente di poter realizzare questa utopia. Ben presto, però, dovetti ricredermi e fare i conti con la realtà: in poco meno di un anno ero riuscito a fare la conoscenza di appena un centinaio di persone e, peraltro, una conoscenza molto superficiale.
Compresi allora tutto l'orrore dei limiti umani, tutta la piccolezza che caratterizza gli esseri viventi. Uno sconforto e una prostrazione profondi si impossessarono del mio animo e mi fecero chiudere in un mutismo assoluto, che dura tuttora. Ancora oggi, infatti, a distanza di alcuni anni, non riesco a comunicare a nessuno questo mio dramma interiore, questa continua e bruciante urgenza di trovare risposte che non arrivano, che non possono arrivare perché non esistono... Allora ho pensato di scrivere questa lettera a te, a uno sconosciuto, forse perché gli estranei possono comprendere i dolori delle persone più degli amici.

Beh, ora ti saluto, augurandoti di tutto cuore di condurre un'esistenza serena, senza chiederti troppi perché.
Nella speranza di incontrarti presto, ti ringrazio di essermi stato a sentire.
Roma, 5 settembre 1988"

Dopo avere terminato di leggere la lettera, Luca stette immobile per un po', non sapendo né cosa fare, né cosa pensare. Rilesse daccapo lo scritto e cominciò a riflettere: cercò di immaginarsi questa persona sconosciuta, in preda a profondi tormenti, e a poco a poco si insinuò nella sua mente, sempre più forte, il desiderio di conoscere costui. Ma come fare? Sulla lettera non c'era nessuna indicazione utile per risalire al suo autore.

Nei giorni successivi impiegò tutto il suo tempo libero a fare indagini in biblioteca. Il libro "Guerra e pace", incredibile a udirsi, era rimasto fermo negli scaffali per ben cinque anni. Prima di Luca a prenderlo in prestito, nel mese di settembre del 1988, come risultava dalla data di restituzione sulla scheda, era stato probabilmente proprio l'anonimo autore della lettera. Per quanto Luca si desse da fare attivamente, non riusciva a rintracciarlo. Fu, però, proprio lo sconosciuto a trovare lui qualche giorno dopo.

Una mattina, infatti, Luca si trovava per l'ennesima volta a fare ricerche in biblioteca, quando all'improvviso fu avvicinato da un giovane.

"Ciao, tu hai preso in prestito "Guerra e pace", vero?", disse con gentilezza.

"Sì, e tu chi sei?", rispose Luca, avendo come un presentimento.

"Io sono... E' difficile per me definirmi. Sono uno che ama molto leggere Tolstoj e... scrivere lettere."

Come descrivere la gioia che Luca provò nel trovare finalmente quella persona, che aveva occupato la sua mente per tanti giorni, una gioia che sorprese lui stesso. Non riusciva a spiegarsi il perché di tanta felicità: fatto sta che quella lettera aveva avvicinato due persone, prima sconosciute fra loro, in modo ormai indissolubile ed entrambi ne erano consapevoli.

"Caro amico", disse Luca, "Sono davvero felice di conoscerti... E dimmi, come vanno i tuoi affanni?"

"Bene, grazie, abbastanza bene", mormorò il giovane con un certo imbarazzo,

"Ho aspettato per cinque interminabili anni che qualcuno ne dividesse con me il peso. Ora che tu, attraverso la lettera, hai conosciuto il mio animo, mi sento veramente in pace con me stesso e con gli altri. Forse il mio vero male era la solitudine e il silenzio, e ora, grazie a te, sono riuscito a rompere l'involucro che mi separava dal mondo".

"Allora possiamo diventare amici!", disse Luca con entusiasmo.

"Lo siamo già", rispose l'altro.

Da quel giorno i due ragazzi vissero davvero un sentimento di autentica amicizia, fatto di fratellanza profonda, di comunione di idee, di solidarietà; un sentimento quasi sacro, come agli albori della civiltà, ai confini fra storia e leggenda, era stata l'amicizia fra Achille e Patroclo, Ulisse e Diomede, Eurialo e Niso.


***

                                                        ITER LONGISSIMUM

Certo, non posso raccontarvi tutta la mia vita in poche righe. Come potrei farvi partecipi in così poco tempo delle innumerevoli vicissitudini che ho passato? Non basterebbe un'intera giornata di parole. La mia lunga esistenza si risolve in un altrettanto lungo viaggio. Quando partii, piena di grandi speranze e di tanta buona volontà, era un bel giorno di primavera, una meravigliosa giornata di sole. Intrapresi questo mio peregrinare perfettamente consapevole delle difficoltà che avrei incontrato lungo la strada. Molte mie colleghe, che avevano percorso questo pericoloso cammino prima di me, mi avevano messa in guardia, con voce accorata: "Sii coraggiosa e fai molta attenzione!... Cerca di non spaventarti e ricorda che siamo nate per sopportare questo supplizio!... Poche di noi arrivano a destinazione sane e salve. Alcune giungono, dopo anni di vagabondaggio, con soltanto qualche osso rotto e possono considerarsi fortunate. Ma la maggior parte di noi non fa più ritorno e si perde per sempre, chissà dove...". Dunque, ero pronta a tutto..., ma non avrei mai potuto immaginare che gli esseri umani fossero capaci di tanta cattiveria e brutalità. Ho subìto aggressioni di inaudita violenza: sono stata malmenata senza pietà e pestata a sangue. Il mio corpo: tutta un'escoriazione e quasi completamente tumefatto. Nel mio pensiero riaffiorano ancora oggi, a distanza di anni, quelle terribili immagini: una selva di mani rabbiose levate contro di me... schiaffi e pugni!... Un esercito di piedi pronti a sferrare calci e pedate... Eppure ci sono riuscita: dopo molto tempo sono arrivata. Non mi sono persa e il mio destino si è compiuto. Questo è, in breve, il racconto del mio viaggio... Ah!... Quasi dimenticavo di presentarmi!... Io ero una proposta di legge del Parlamento Italiano, che poi finalmente è diventata Legge!

***                                                                   

                                                                      FERONIA

In una bella mattina di marzo, quando la natura sembra festeggiare la fine dell'inverno, Fabio si incamminava sullo stradone fangoso che divideva in due le floride colline della località "Le macchie", uno dei più bei luoghi della campagna di Capena, un piccolo paese a nord di Roma.

Il giovane, figlio di contadini e contadino egli stesso, aveva una corporatura gigantesca e robusta, che si inseriva bene nel paesaggio, come se ne facesse parte, come se fosse un albero o una roccia. Esprimeva forza in ogni gesto, talvolta appariva anche grossolano e goffo, ma, come per contrasto, aveva invece un animo buono, gentile e generoso.

Fabio passava gran parte del suo tempo in campagna: ovvio, direte voi, trattandosi di un contadino! Il ragazzo, però, trascorreva tra i campi non solo le ore del suo lavoro, ma quasi interamente anche il suo poco tempo libero. Non voleva stare in paese, a casa tornava solo a dormire.
La campagna lo assorbiva completamente: spendeva tutte le sue forze nel lavoro dei campi, ma i frutti che riusciva a raccogliere erano sempre molto scarsi, cosicché le sue condizioni economiche erano piuttosto critiche. Il suo tenore di vita era uno dei più bassi del paese, ma Fabio non si scoraggiava e si accontentava di quel poco che aveva.

In quella bella mattina di sole, Fabio aveva deciso di fare una pausa nel suo lavoro di potatura degli ulivi e di approfittarne per raccogliere un po' di cicoria da portare a sua madre. Si era così incamminato per la strada di campagna che passava proprio davanti al suo terreno e che si allungava per alcuni chilometri, discendendo in valli piene di rovi e risalendo su colline erbose, adibite a pascolo o coltivate con uliveti e vigneti, le colture più diffuse in quest'area della campagna romana.

Aveva già percorso circa un chilometro, quando, ormai stanco, aveva deciso di riposarsi, mettendosi a sedere sull'erba. Stette un po' immobile, respirando profondamente l'aria fresca e profumata di vegetazione, poi spinse lo sguardo in lontananza, verso l'orizzonte, che divideva così nettamente cielo e terra. Nell'infinito mare di vegetazione si ergeva una collinetta dalle forme aspre e dalle pendici scoscese e dirupate, sulla cui sommità si stagliava, ancora maestoso e pieno di un arcano fascino, il Castellaccio, ormai ridotto ad un rudere, invaso dai rovi e popolato da animali selvatici, veri padroni dei luoghi in cui un tempo era nata l'antica Capena.

In questa zona, infatti, sorgeva in tempi remoti, prima ancora della civiltà romana, la città di Capena, capitale dei Capenati, una popolazione etrusca. Questo popolo, stanziato sulla riva destra del Tevere, al confine con i Falisci e con i Veienti, occupava un vasto territorio che si estendeva per molti chilometri sotto il Soratte, la cui sagoma gigantesca si poteva scorgere perfettamente dal luogo in cui sedeva Fabio.

"Mi piacerebbe proprio andare a vedere il Castellaccio da vicino", pensò il giovane, "Chissà che bel panorama si vede da lassù!"

Dopo poco la decisione era presa. Alcuni minuti più tardi era giunto ai piedi di Civitucola, la collina sulla quale sorgeva il Castellaccio. Non sarebbe stato facile raggiungere la sommità del colle: i suoi fianchi, infatti, erano fortemente scoscesi e resi ancor più aspri ed impervi da una vegetazione fittissima ed intricata.

Fabio, dopo essersi armato di un robusto ramo, cominciò la scalata aiutandosi con quel legno, talvolta usandolo come bastone su cui appoggiarsi, talaltra come arnese per abbattere rovi e sterpaglie, che rendevano il cammino faticosissimo. La natura del terreno era delle più varie: a tratti di roccia e tufo si alternavano zone molli e fangose, nelle quali i piedi di Fabio affondavano inevitabilmente. Tuttavia il ragazzo, arrancando e aiutandosi con il bastone o afferrando i rami sporgenti di qualche albero, riusciva a fatica a venirne fuori, già cominciando a pentirsi dell'impresa.

"Ma chi me l'ha fatto fare?", borbottava fra sé, "Tutta questa scarpinata per vedere quattro sassi diroccati!"

Dopo circa un quarto d'ora, tutto ansimante e graffiato in più parti dai rovi, giunse a destinazione. Dopo aver conquistato la vetta, per prima cosa, per riprendere fiato, si sedette su un tratto di muro del famoso Castellaccio. In effetti, questo reperto archeologico consisteva in qualche brandello di muro ricavato nel tufo, che originariamente doveva aver fatto parte di una costruzione di forma rettangolare.

Mentre il giovane stava osservando distrattamente la struttura di questa costruzione, si sentì picchiettare su una spalla. Il suo cuore ebbe un tremito di paura e il ragazzo, con un fare istintivo, strinse il bastone e si voltò di scatto, pronto a colpire, ma, con sua grande sorpresa, vide in piedi accanto a sé una ragazza.

Era una donna giovane e di bell'aspetto, ma vestita assai poveramente: aveva un abito molto largo e stretto in vita da una corda sottile, era lungo fino alle caviglie, aveva un taglio piuttosto grossolano e il tessuto era molto spesso e ruvido. Ai piedi calzava dei sandali molto semplici e soprattutto, secondo Fabio, non adatti alla stagione, non ancora primaverile. Una cosa piuttosto singolare che colpì l'attenzione del giovane era la ghirlanda di foglie che la donna aveva intorno alla testa, sistemata come una corona.

"Vieni con me, Fabio!", disse con dolcezza.

"E... E tu chi sei?... E dove dovrei venire?", replicò Fabio stupefatto.

"Fidati di me. Andremo non lontano da qui", e dopo una breve pausa aggiunse, addolcendo ancora di più il tono, "E' molto tempo che ti attendo. Sono stata io ad ispirarti questo viaggio alla Civitucola... Sei felice, forse, nella tua vita?"

"Beh,... E' difficile rispondere", ribatté a mezza voce il ragazzo, sorpreso da questa domanda, "Forse no... Anzi, sicuramente no".

"Allora hai un motivo in più per seguirmi". Così concludendo, la donna prese per mano il giovane, il quale, senza opporre la minima resistenza, si lasciò senz'altro condurre.

A prima vista quella ragazza gli era sembrata una sconosciuta, ma poi, a guardarla bene, gli pareva di averla già vista da qualche parte, ma non ricordava dove. I tratti del viso gli erano familiari. Doveva sicuramente averla già incontrata, ma dove?

Dopo aver scavalcato un pezzo di muro che costituiva un lato del Castellaccio, la ragazza si avvicinò, discendendo, ai piedi dello spuntone di tufo della Civitucola. Alla base della protuberanza rocciosa si innalzava una fitta siepe di rovi assai aggrovigliati. La donna vi si fermò davanti.

"Sento che la tua mano trema", disse, "non devi avere paura di me. Tu sei figlio di questa terra ed è come se mi appartenessi... Vedi... Io sono la protettrice del territorio di Capena. Sono la dea Feronia, dea etrusca, ma di origine sabina."

Fabio, a queste parole, non riuscì a rispondere neppure una sillaba, tanto lo stupore si era impadronito di lui. Rimaneva lì, immobile, con sul viso un'espressione di infinita meraviglia. Il fatto incredibile era che lui credeva fermamente e ciecamente a quanto affermava quella donna, senza porsi dubbi o interrogativi.

"Tanti secoli fa", riprese a dire Feronia, "io ero molto venerata dalle popolazioni di questi luoghi. Ancora oggi rimane qualche testimonianza del bel santuario a me dedicato presso la via Tiberina. Conoscerai certo il Lucus Feroniae?"

Fabio annuì.

"Io sono la protettrice degli schiavi liberati e di tutto quello che nasce dalla terra; ho potere sulla vegetazione e sui prodotti dei campi, il mio dominio si estende anche sulle acque sorgive, poiché anch'esse scaturiscono dalla terra".

"Ma come fai ad essere la protettrice degli schiavi liberati, se la schiavitù non esiste più da secoli?", ribatté Fabio con curiosità.

"Questo lo credi tu!", concluse la dea con un sorriso amaro, "Ci sono molte forme di schiavitù... Forse ti ritieni un uomo veramente libero?"

Il ragazzo rimase perplesso: non riuscì a trovare una risposta. In realtà non sapeva nemmeno lui che razza di vita fosse la sua, e tanto meno poteva dire qualcosa su quella degli altri.

Quando ebbe finito di parlare, Feronia, con gesti rapidi ed esperti, cominciò a togliere via quell'intrico di rami contorti e di foglie, di sotto al quale, a poco a poco, si andava scoprendo una grossa fenditura, come un passaggio naturale nella roccia. Quando l'apertura fu del tutto libera, Feronia vi si introdusse carponi e invitò Fabio a fare lo stesso.

I due si ritrovarono in un'ampia sala sotterranea, rischiarata qua e là da fiaccole, che riflettevano la loro luce guizzante sulle pareti rocciose. Da quella specie di grotta passarono in un corridoio stretto e umido, che si apriva sulla parete di fronte: prima di procedere, Feronia staccò dal muro una torcia e la usò per illuminare l'oscuro passaggio. Alla fine di questo breve corridoio, i due scesero numerose scale ricavate nel tufo e arrivarono, quindi, in un enorme salone dalla volta molto alta. Qui la luce era più intensa, molte erano le torce accese alle pareti e numerose quelle contenute in vasi di terracotta, deposti a terra.

Ma ciò che colpì l'attenzione di Fabio non fu tanto l'ambiente, che era molto freddo, umido e spoglio, e il forte odore di muffa che emanava faceva pensare facilmente ad una gigantesca tomba, quanto piuttosto la moltitudine di persone che vi si riuniva: in quella stanza sotterranea c'erano infatti decine di uomini e di donne, abbigliate più o meno come lo era Feronia.

All'apparire del giovane contadino, questi individui emisero una corale espressione di stupore. Due di questi, un uomo e una donna, sedevano su grandi sedili di pietra, tutti gli altri stavano in piedi alle loro spalle, oppure erano distribuiti lungo le pareti laterali. I due seduti sembravano essere delle personalità importanti, anche perché il loro abbigliamento era più ricco e curato di quello degli altri: la donna, in particolare, era ornata di preziosi monili. Feronia, appena entrata, si diresse verso i due e si inginocchiò ai loro piedi, facendo fare altrettanto a Fabio.

"Graziosa regina, potente re", disse la dea, "Questo che ho condotto al vostro cospetto è un mortale, a me molto caro. Non so bene che cosa mi abbia spinto a farlo venire qui, ma io vorrei essergli sempre vicina e aiutarlo nelle vicende della sua vita. Ciò, però, non è consentito a una dea: non è lecito per una divinità, avere troppo caro un mortale e vivergli accanto. Allora ho pensato di chiedere il vostro divino consiglio."

"Cara e generosa Feronia", intervenne amabilmente la donna seduta sul rustico trono, "Prediletta tra i nostri dei e mille volte saggia. Se hai qui condotto un mortale dopo secoli e secoli di solitudine è sicuramente per un motivo lodevole. Pertanto, affidiamo a te il compito di istruire costui su quanto riterrai necessario. Sappiamo infatti che ti è molto caro e che gli hai insinuato nell'animo il desiderio di venire alla Civitucola. Perciò non devi giustificarti... Così è stabilito dalla regina degli dei etruschi Uni e dal suo sposo Tinia".

Detto ciò, le due regali divinità si alzarono e, seguite da alcuni giovani di ambo i sessi, che probabilmente avevano la funzione di paggi e ancelle, uscirono per un corridoio laterale. Le altre divinità rimaste nella sala del trono si fecero subito intorno a Feronia e al suo ospite mortale, curiose di vedere questo essere umano e soprattutto divertite dall'aspetto rincitrullito e spaventato del povero giovane. Feronia tranquillizzò il ragazzo e Fabio a poco a poco si rinfrancò, poiché aveva molta fiducia in quella dea così buona e gentile.

Feronia allora procedette alla presentazione del pantheon etrusco, limitandosi tuttavia alle divinità principali. Così Fabio poté conoscere Tin, un dio-guerriero, armato di una folgore che emanava continue scariche elettriche; venne anche a sapere che il fulmine è l'arma preferita da quasi tutte le divinità etrusche, ma in particolare da Tinia, il re, che ha a sua disposizione ben tre folgori.

Dopo Tin, gli fu presentata una dea, Minerva, una donna-guerriero, anch'essa armata di una folgore. Fu la volta, poi, di Vertumno, il dio che presiedeva alle forze creatrici del mondo ed era il protettore della vegetazione. Poi si presentò Flufluus, il più bizzarro e allegro di tutti: era il dio del vino.
Venne poi Maris, dio della guerra e dell'agricoltura, seguito da Setlans, dio del fuoco. Dopo di lui, gli furono presentate due bellissime donne: Tiv, dea della Luna, e Turan, dea-madre, protettrice degli amori, della donna, degli animali e, più in generale, della vita: la accompagnavano altre due divinità minori, Letha e Laran.

Con il passare del tempo, Fabio si sentiva sempre più tranquillo in quell'ambiente: le divinità erano molto semplici e cordiali e lo avevano messo davvero a suo agio; era come se provassero dell'affetto per lui, e poi c'era sempre Feronia lì accanto, che non lo lasciava neppure per un attimo. Ad un certo punto, anzi, gli si fece più vicina e con una mano sulla spalla lo strinse a sé.

"Ed ora, mio caro", gli sussurrò nell'orecchio, "Fatti coraggio! Ora conoscerai un dio, che per la sua natura, fa provare turbamento anche a noi, che siamo suoi fratelli immortali. Devi tuttavia avere comprensione per lui. Ha un compito ingrato ed è stato il più sfortunato di noi..."

A queste parole, una certa inquietudine si insinuò nell'animo di Fabio e un tremito gli serpeggiò lungo la schiena.

"Charun!", gridò Feronia, "Signore del regno dei morti, per ordine di Tinia e Uni, ti dico di venir fuori!"

Dopo pochi secondi, con uno scricchiolio e un pesante tonfo, una grossa pietra rotolò lontano dalla parete di sinistra e, da un'oscura apertura che questa aveva rivelato, avanzò una gigantesca ombra nera, come un grosso macigno che camminava: ad ogni suo passo la sala veniva scossa da vibrazioni.
Feronia afferrò una torcia che stava lì accanto e la avvicinò a quella sagoma inquietante: un fascio di luce ne illuminò il volto.

L'orrore si disegnò sul viso di Fabio: mai occhi di mortale avevano visto niente di più mostruoso e repellente. Charun era la degna immagine della morte: aveva le sembianze di un uomo, ma la sua pelle era di un cupo colore bluastro, aveva uno spaventoso naso adunco, orecchie lunghissime ed appuntite, capelli e barba irsuti, una bocca talmente larga e deforme da non poter nascondere i lunghi denti aguzzi, sempre digrignati. Ma ciò che terrorizzò di più il povero giovane furono gli occhi: due punti rotondi e luminosi, incastonati su quella faccia come fuochi che bruciano, eternamente vivi.

"Bene, Charun!", gridò Feronia con sollecitudine, "Ora puoi tornare nel tuo regno!"

Con lo stesso rumore che aveva prodotto al suo arrivo, quell'essere mostruoso indietreggiò e fu inghiottito ancora una volta da quella specie di tana oscura.

"Hai avuto paura?", chiese la dea, premurosamente.

"Non... Non molta", mormorò con un filo di voce il contadino.

"Devi avere pietà di lui. Conduce una vita non certo da divinità e neppure da essere umano, che sarebbe sicuramente migliore... Vive tra i dannati, trascorre l'eternità a massacrare le loro anime, aiutato da sfingi, grifoni, mostri marini e altre orribili creature infernali... Ma ora basta, non parliamone più!"

Presolo nuovamente per mano, Feronia lo condusse per uno stretto corridoio che si apriva dietro al trono. Dopo pochi metri, entrarono in un'apertura che si affacciava sulla destra e penetrarono in una piccola stanza, ingombra di grosse carte arrotolate, di asticelle usate come penne e di altri strani strumenti.
Seduti ad un tavolo, su sgabelli di legno, c'erano due individui, un uomo e una donna, che all'ingresso di Feronia e del suo accompagnatore si alzarono in piedi.

"Salute a voi, Tagete e Vegoia, divini profeti del pantheon etrusco!", disse solennemente Feronia, inchinandosi, imitata da Fabio, "Ho qui con me un mortale, che mi è particolarmente caro: vorrei che la sua vita fosse sempre felice. Pertanto, vi chiedo umilmente di avere considerazione di lui e di aiutarlo come solo voi potete e sapete fare. Anche i nostri divini genitori lo hanno accolto benignamente e perciò, in loro nome, vi chiedo di fare altrettanto".

La giovane Vegoia, dopo avere scambiato uno sguardo d'intesa con suo fratello Tagete, così si espresse: "Cara sorella Feronia, come tu sai, non è nostra abitudine svelare alcunché dei nostri segreti a nessuno, tantomeno ai mortali. Gli dei solitamente non si occupano degli affari degli uomini e meno che mai concedono loro ricette sulla felicità. Tuttavia, poiché anche i nostri divini genitori e sovrani lo permettono, noi ci dimostreremo benigni verso questa creatura umana."

Detto ciò, si appartò in un angolo con Tagete e i due si accordarono a bassa voce sul da farsi. Dopo aver confabulato, tornarono al centro della stanza: Tagete si sedette al tavolo e preparò un rotolo di carta e uno stilo, pronto a scrivere.

Vegoia si avvicinò a Fabio e lo scrutò lungamente negli occhi.

"Qual è il tuo nome?"

"Fabio"

"E qual è il tuo lavoro?"

"Faccio il contadino".

"Io ti confiderò alcuni dei miei segreti: sono i segreti degli dei etruschi e non sono mai stati svelati, dunque, fai attenzione a non lasciarteli carpire da nessuno. Non rivelarli mai, a nessun costo, pena la morte!"

A queste parole, un brivido percorse la schiena di Fabio. Vegoia afferrò da uno scaffale polveroso un grosso volume, rozzamente rilegato, lo appoggiò sul tavolo e lo aprì, sfogliandone lentamente le pagine.

"Ora io ti insegnerò ad interpretare i lampi", disse Vegoia, "Questo che vedi è uno dei Libri Fulgurales: Tagete scriverà su quel foglio quanto io dirò e poi te lo consegneremo e tu dovrai custodirlo gelosamente".

Fabio annuì.

"Allora, cominciamo!... Premessa: le folgori sono prodotte dagli dei per dare messaggi agli uomini; è quindi importante da parte degli esseri umani saper interpretare bene questi simboli..."

La dettatura durò a lungo. Quando Tagete ebbe terminato di scrivere, la donna prese il foglio, lo controllò e lo consegnò a Feronia, che a sua volta lo diede a Fabio.

"Dunque, mortale!", esclamò Vegoia, "Leggi quanto è scritto in quel foglio e assicurati di avere compreso tutto per il meglio".

Fabio, allora, svolse il rotolo e cominciò la lettura di quelle sacre istruzioni:

"L'interpretazione dei fulmini - Per prima cosa si sappia che esistono fulmini favorevoli e fulmini sfavorevoli. Ponendosi con le spalle a Nord, i fulmini che nascono alla sinistra del cielo sono favorevoli, quelli che nascono alla destra sono sfavorevoli. I fulmini detti sinistri sono favorevoli perché la parte sinistra del cielo è quella dell'alba, della vita e della speranza. I fulmini destri sono invece nefasti, poiché la parte destra del cielo è quella del tramonto e quindi della morte. Per la classificazione e l'interpretazione delle folgori, il cielo viene suddiviso in sedici settori...(ecc.)"

"Hai compreso tutto chiaramente?" chiese Vegoia alla fine della lettura.

"Sì, ho compreso", rispose Fabio, "E vi ringrazio di cuore".

"Queste preziose informazioni", aggiunse Feronia, "serviranno a Fabio per cavarsela meglio nella vita... Ed ora ti lasciamo e ci scusiamo per averti disturbata. Saluti anche a te Tagete".

Feronia e Fabio, con un profondo inchino, uscirono dalla stanza e ritornarono nella sala del trono, dove erano ancora presenti gli dei che il ragazzo aveva conosciuto al suo arrivo.

"Cari divini fratelli!", disse Feronia con un sospiro, richiamando l'attenzione di tutti, "Il nostro amico mortale se ne va e vi saluta!"

Così dicendo, invitò Fabio ad inchinarsi ancora una volta. La divina folla salutò con affetto il giovane che se ne andava e Fabio ne rimase quasi turbato: erano stati tutti molto amorevoli con lui! Era dispiaciuto di andarsene, sarebbe rimasto volentieri ancora un po'. Feronia si avviò verso l'uscita e lui la seguì.

Uscito da quel mondo sotterraneo e riemerso alla luce, Fabio rimase abbagliato: i suoi occhi si erano disabituati allo splendore del sole.

Quando tornò a mettere a fuoco le immagini, vide accanto a sé Feronia sorridente.

"Mio caro!", disse la dea, "E' ora che tu vada. Spero che serberai di me un buon ricordo, come io di te... Ti auguro di avere nella vita tutto ciò che desideri, ma soprattutto pace e serenità!"

"Dunque, non ci rivedremo più?", esclamò Fabio, con la voce incrinata dal dispiacere per la separazione. Ormai si era affezionato alla dea: nella sua vita quella creatura era stata l'unica a dimostrargli attenzione.

"Forse, chissà, un giorno da qualche parte ci rivedremo!", concluse la dea, "Ma non qui. Tu non dovrai più tornare qui. E adesso vai!"

Fabio lasciò la mano di Feronia quasi con dolore e, voltandosi spesso indietro per guardare un'ultima volta la donna, cominciò a discendere giù per gli intricati e scoscesi fianchi di Civitucola, lasciandosi alle spalle i solenni ruderi del Castellaccio, sui quali si stagliava, sempre più in lontananza, la figura della dea. Appena raggiunto lo stradone che portava al suo terreno, Fabio si voltò ancora una volta a guardare il Castellaccio, ormai deserto. Tirò un sospiro carico di rimpianto: un rimpianto e una tristezza che non aveva mai provato prima.

I giorni seguenti trascorsero lenti e noiosi e il giovane era più silenzioso del solito: ogni volta che si recava in campagna, trascorreva tutto il suo tempo libero in osservazione del Castellaccio e in fantasticherie. Spesso, quando pensava che il suo incontro con Feronia e con le altre divinità etrusche poteva essere stato frutto della sua immaginazione, il manoscritto di Tagete serviva a testimoniare la realtà di quell'incredibile esperienza. Quei misteriosi insegnamenti, poi, cominciavano a rivelarsi davvero utili. Fabio li applicava soprattutto all'agricoltura e otteneva sempre i migliori raccolti della zona, suscitando la meraviglia dei suoi compaesani. Tuttavia, nonostante i suoi successi, i giorni si consumavano pigri e monotoni, sempre pieni di un'indicibile malinconia.

Ma un sabato di due anni dopo accadde un fatto inaspettato e insperato.
Il sabato mattina, nella piazza di Capena, si svolge l'abituale mercato paesano: tutta la gente della contrada vi si reca per fare compere. Quella mattina vi andò anche Fabio: aveva acquistato un servizio di piatti, necessario per la casa. Mentre circolava tra una bancarella e l'altra, nell'andirivieni della folla, si imbatté all'improvviso in Feronia. La dea era vestita come una donna comune e non con i suoi abiti arcaici e la corona di foglie. Fabio, nonostante ciò, la riconobbe subito con un tuffo al cuore. Per la sorpresa che l'inatteso incontro gli aveva procurato, fece cadere il pacco con i piatti, facendone ovviamente mille pezzi e suscitando le risate di coloro che si trovavano nei dintorni.
Feronia si chinò e aiutò il ragazzo a controllare se fra i cocci si fosse salvato qualche piatto.

"Come stai?", chiese sommessamente la donna.

"Bene", mormorò Fabio con voce tremante e con aria incredula, "Dunque, sei proprio tu?"

"Sì, sono proprio io. Non sorprenderti! Vengo spesso in paese".

"Allora, potrò vederti ancora!", gridò con gioia il giovane contadino.

"Sì, sì, ma non urlare così!", sussurrò la dea con tono di rimprovero, "Attirerai l'attenzione di tutti".
La donna raccolse velocemente i tre piatti rimasti intatti e, consegnatili al ragazzo, se ne andò rapidamente, mescolandosi e confondendosi tra la folla di massaie.

Nel corso della sua lunga vita, Fabio rivide spesso Feronia per le vie del paese.
Per anni e anni la contemplò in silenzio, constatando che era sempre bella allo stesso modo, senza cedere neppure un po' del suo fascino immortale alla vecchiaia. La sua espressione era sempre dolce e amorevole e, ogni volta che si incontravano, gli riservava sguardi di affetto profondo, di amore. Il ragazzo se ne accorgeva e ne era felice.

Con il passare del tempo, se Feronia era sempre una bellissima immortale, Fabio invece andava invecchiando ogni giorno di più: il suo fisico, una volta forte e giovane, si rivelava ormai intaccato dagli anni e dai malanni, i suoi capelli imbiancavano e si sentiva sempre più stanco e affaticato.

Dopo la morte di Fabio, avvenuta all'età di circa ottant'anni, nel paese cominciò a correre una strana voce. Qualche contadino dichiarò di avere visto Fabio aggirarsi nella zona di Civitucola, o addirittura sul Castellaccio, e, cosa assai incredibile, non era il Fabio ottantenne degli ultimi giorni di vita, ma aveva invece un aspetto giovanile: era come se dopo la morte fosse tornato ad avere trent'anni.
Alcuni di questi contadini asserivano di averlo visto da solo, altri invece, ed erano i più numerosi, sostenevano di averlo notato spesso in compagnia di una bella donna, rozzamente vestita.


***

                                                             LA CAVERNA

Marco era pastore da dieci anni; beninteso, un pastore di pecore, non di anime. Aveva cominciato questo mestiere molto giovane, appena conseguito il diploma di maturità classica. Per lui fu quasi un miracolo ottenere questo titolo di studio: i suoi genitori, infatti, erano molto poveri e ritenevano un lusso avere un figlio diplomato. Secondo loro, solo i figli di gente danarosa potevano permettersi di studiare, altro che Marco! Il loro figliolo doveva badare alle pecore e non ai libri.

Ma il ragazzo prometteva bene come studente; alle scuole medie era stato il più bravo della classe e gli insegnanti fecero molte pressioni sui genitori, affinché permettessero al figlio di continuare gli studi. Così, con tanti sacrifici da parte sua e della sua famiglia, il ragazzo poté studiare.

Dopo il diploma, però, Marco non poté iscriversi all’università, poiché il padre era morto e lui doveva provvedere alla necessità della famiglia e portare avanti l’attività di pastore. Ora, all’età di circa trent’anni, ancora portava le sue pecore a pascolare.

Conduceva una vita tranquilla e riservata, abitava in casa con sua madre e sua sorella. Non aveva ancora una fidanzata, anche se gli sarebbe piaciuto molto averne una, con la quale sposarsi e costruirsi una famiglia tutta sua. Per il momento spendeva tutto il suo tempo nella cura del gregge e, cosa che amava particolarmente, nella lettura.

Marco, infatti, finita la scuola, non aveva perso il contatto con la cultura. Non solo aveva continuato a studiare per conto suo, ma anzi aveva intensificato notevolmente la lettura, rispetto a quando era uno studente. Ogni suo piccolo risparmi personale era destinato all’acquisto di libri; spesso trascurava l’abbigliamento e l’aspetto della sua persona a tutto vantaggio della cura del suo spirito.

Gran parte delle lunghe ore della giornata, trascorse in campagna accanto al suo gregge, venivano spese nella lettura di opere di narrativa, in particolare di classici. Leggere le straordinarie vicende di personaggi meravigliosi era, per Marco, come compiere un viaggio intorno al mondo, un viaggio con la fantasia, annullando il tempo, lo spazio e ogni umano limite.

In una serena e calda mattina di primavera, Marco decise di condurre il suo gregge in un pascolo diverso dai soliti, un prato piuttosto esteso sulle dolci pendici di una collinetta, che dall’ovile si scorgeva in lontananza. Erano mesi che il ragazzo aveva notato quella collina: aveva un’erba così verde! Era, però, troppo distante dall’ovile. Spesso aveva pensato di andarci con le sue pecore, ma alla fine, per un motivo o per l’altro, vi aveva sempre rinunciato.

Quella mattina sembrava deciso. Si era alzato dal letto che era ancora notte e aveva raggiunto l’ovile che il cielo appena schiariva. Dopo aver radunato con cura le sue pecore, alle primissime luci dell’albe, si mosse attraverso la polverosa strada di campagna, alla volta della collinetta. Il cammino era davvero lungo, a fatica riusciva ad impedire alle pecore di distrarsi strada facendo.

Quando il giovane pastore e il suo gregge giunsero a destinazione era ormai giorno fatto, un sole potente rendeva molto calda quella giornata primaverile. Subito le pecore si sparsero per tutto il prato, felici di quel soffice pascolo. Marco, stanco per la lunga camminata, si lasciò cadere sull’erba morbida, sotto la fitta ombra di un boschetto di querce, ai margini della radura. Chiuse gli occhi per meglio sentire il fresco di quel suo rifugio e, senza rendersene conto, si addormentò profondamente.

Si risvegliò che era passato da poco mezzogiorno, aveva dormito quasi tre ore; provò disappunto verso sé stesso per avere ceduto così facilmente alla stanchezza. Per prima cosa si preoccupò di verificare che le sue pecore ci fossero tutte e che stessero bene: tutto era a posto. Si riaccomodò sotto la quercia e tirò fuori dallo zaino una piccola pagnotta di pane, un grosso pezzo di formaggio, una mela e una bottiglia d’acqua e cominciò a mangiare.

Dopo aver terminato il suo pranzo e dopo aver dato ancora una rapida occhiata al suo gregge, rovistò di nuovo nel suo zaino e ne tirò fuori un libro, un volume molto grosso, “I Miserabili” di Victor Hugo. Era molto entusiasta di quell’opera, riteneva il protagonista, Jean Valjean, un personaggio davvero straordinario e non vedeva l’ora di arrivare alla conclusione delle sue drammatiche vicende.

Aprì il volume e cominciò la lettura; lesse per circa mezz’ora e poi richiuse il libro. Era abituato a leggere per ore ed ore senza stancarsi, ma quel giorno non riusciva a concentrarsi. La novità del luogo in cui si trovava lo spingeva a distrarsi, a guardarsi intorno continuamente, a scrutare il grande cerchio dell’orizzonte. Pensò dunque di muoversi e di fare un giro di perlustrazione intorno alla collina.

Si avviò lungo uno stretto sentiero che si apriva fra la grande estensione del prato e la piccola selva di querce. Si trattava di un angusto viottolo che era quasi interamente chiuso da rovi e arbusti. Dopo aver percorso alcune decine di metri, stava quasi per tornare indietro, quando la sua attenzione fu attratta da un piccolo rumore, come di acqua che scorre, come se non molto lontano da lì ci fosse un ruscello o comunque un piccolo corso d’acqua:

“Forse è una sorgente”, pensò, “A giudicare dal rumore non dovrebbe essere molto lontana”.

Da quel punto in poi, il sentiero cominciava ad essere sempre più ostruito dai rovi e Marco faceva una notevole fatica a farsi spazio per passare; molti rami gli graffiavano la pelle e gli strappavano il tessuto degli abiti. Tuttavia, man mano che il ragazzo si avvicinava, il mormorio prodotto dallo scorrere delle acque si ingigantiva.

“Eccolo, finalmente!”, esclamò il giovane, scorgendo fra i rami di una folta siepe un piccolo ruscello che si allargava poco più in basso in forma di laghetto: era una specie di stagno circondato da una radura verde e rigogliosa di fiori e di vegetazione.

Raggiungendo le sponde di questo ristagno d’acqua, il pastore si rese conto di avere scoperto un piccolo paradiso. C’erano ovunque fiori meravigliosi, di una varietà di specie e di colori incredibile, fiori e piante in gran parte sconosciuti a Marco. Sul laghetto affioravano ninfee grandi e variopinte; tutt’intorno c’era un’aria fresca e carica di profumi diversi. Il giovane rimase estasiato di fronte a questo paesaggio così ameno, così rigoglioso, quasi irreale. Si distese sull’erba, cresciuta in abbondanza lungo le sponde dello specchio d’acqua, e si mise a riflettere: immaginava la grande felicità che avrebbe provato nell’abitare questo posto magnifico.

Erano trascorsi pochi minuti dacché era lì, quando all’improvviso avvertì accanto a sé una presenza, come l’alitare di un respiro. Si scosse, mettendosi a sedere pieno di paura; si guardò dietro le spalle e vide una piccola e graziosa capretta, che lo guardava con i suoi occhietti rotondi.

"Ehi, capra! Vieni qui!", disse all'animaletto, accarezzandolo, "Che paura mi hai fatto! Questo luogo è così solitario e misterioso!"

La piccola capra sembrava mostrare simpatia per Marco, gli si avvicinava docilmente e si lasciava accarezzare; poi, con un grazioso belato, si scostava e si muoveva, come per far intendere al ragazzo di seguirla.

"Vuoi dirmi, forse, che dovrei venire con te?"

La bestiolina rispose con un belato, come per annuire.

"E va bene, ti seguirò."

Marco si avviò senza indugio dietro a quel curioso animaletto. La piccola capra attraversò il ruscello, passando su una fila di grosse pietre squadrate, che sembravano collocate nell'acqua proprio per permetterne l'attraversamento. Il ragazzo seguì il percorso della capretta e insieme si addentrarono in un piccolo bosco dalla vegetazione non molto fitta, ma varia. Al margine opposto di questa selva era visibile una radura poco ampia, alla fine della quale si scorgeva una scoscesa parte di roccia tufacea, ricoperta qua e là da cespugli di ginestra. Proprio nella parte centrale questa roccia presentava una grossa apertura naturale, una specie di caverna, la cui profondità era difficile da definire da quella distanza.

La capretta, sicura ed esperta dei luoghi, con un rapido balzo cominciò a correre in direzione di quella grotta. Marco la seguiva con lo sguardo, curioso, e la vide scomparire all'interno di quella apertura. Cominciò ad avvicinarsi anche lui con una certa cautela e, mentre si stava movendo con passo lento, un rumore colpì il suo orecchio. Si trattava di una specie di cigolio, proveniente proprio dalla caverna. Riprese ad avvicinarsi facendo maggiore attenzione: il rumore cresceva.

"Saranno dei pastori", si disse.

Era ormai giunto all'ingresso della grotta. Vi si sporse e... Incredibile! All'interno della spelonca c'erano tre anziane donne sedute su sgabelli di legno, intente a filare la lana; la capretta, tranquilla, era distesa ai loro piedi e, appena vide Marco, emise un grazioso belato.

prima di farsi avanti, il ragazzo attese ancora qualche secondo. C'era qualche cosa di strano in quelle creature. Erano tre donne piuttosto stravaganti: il loro abbigliamento, per esempio, era fuori dal tempo: era costituito da bianche tuniche, ampie e lunghe fino ai piedi, strette in vita da una cintura d'oro; d'oro sembravano essere anche le loro calzature, specie di sandali con laccioli legati tutt'intorno alle caviglie. Il loro capelli, bianchissimi e opachi, erano fasciati con sottili bende di lino roseo.

Tutto il loro aspetto riportava Marco indietro nel tempo, agli anni dei suoi studi classici, nel meraviglioso mondo greco e latino, fra divinità ed eroi.

"Buon... buongiorno!", disse il ragazzo con una certa insicurezza.

"Non dire buongiorno!", disse seccamente la prima delle tre donne, senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro, "Non è un buon giorno: nessun giorno lo è".

" Il tuo nome è Marco, vero?", continuò la seconda, volgendo gli occhi in basso.

"Sì", rispose il ragazzo con sorpresa, "Il mio nome è proprio Marco. E voi come lo sapete?"

"Non fare domande cui è inutile rispondere", intervenne la terza, anch'essa senza alzare lo sguardo su di lui.

"Chi siete?", riprese Marco.

"Guardati intorno e lo capirai", ribatté la prima, e tutte e tre continuarono il loro lavoro di filatura.

Marco diede un'occhiata tutt'intorno alla spelonca e, tranne qualche primitivo utensile da lavoro, non trovò nulla di utile per la comprensione di questo mistero. Notò, tuttavia, una specie di incisione sulla parete di destra; si avvicinò. Era un componimento in latino. Lesse.

"His corpus tremulum complectens undique vestis

candida purpurea talos incinxerat ora,

at roseae niveo residebant vertice vitae,

aeternumque manus carpebant rite laborem.

Laeva colum molli lana retinebat amictum,

dextera tum leviter deducens filia supinis

formabat digitis, tum prono in pollice torquens

libratum tereti versabat turbine fusum,

atque ita decerpens aequabat semper opus dens,

lineaque aridulis haerebant morsa labellis

quae prius in levi fuerant extantia filo

ante pedem autem candentis mollia lanae

vellera virgati custodibant calathisci.

Catullus

[Bianchissima veste avvolgeva i corpi tremanti/ ma cinta di un orlo di porpora sulle caviglie/ rosee bende si posavano sul candido capo/ e le mani operavano esatte l'eterna fatica/ La sinistra teneva la conocchia di morbida lana/ la destra calava leggera le fila, le dita/ levate la formavano, il pollice obliquo torceva/ perpetuamente il fuso librato in un vortice esatto/ il dente mordeva spuntando, eguagliando il lavoro,/ e i filamenti lanosi uscenti dal netto filato/ aderivano morsi alle tenui aride labbra/ ai loro piedi la lana filata, morbida e bianca/ s'avvolgeva protetta negli esili cesti di vimini. (trad di E. Mandruzzato, Catullo, "Canti", BUR, 1989)].

"Sono versi di Catullo", pensò Marco, e poi rivolto alle donne, "Questi versi descrivono forse il vostro lavoro?"

Le tre figure misteriose non risposero.

"Un'eterna fatica", mormorò il ragazzo, guardando di nuovo l'incisione, "Sì, un'eterna fatica... Le Parche! Mio Dio! Sì, voi siete le Parche. Come non mi è venuto in mente prima!... Ma sì, certo, le Parche!... Mio Dio, ma... allora voi..."

"Sì, siamo le Parche", intervenne la prima, "Siamo le parche, figlie della Notte, e il nostro è il più triste dei compiti... Io sono Cloto e filo la vita".

"Io sono Lachesi", continuò la seconda, "e la misuro".

"Io sono Atropo", concluse la terza, "e la recido!", Così dicendo, mise in bocca il filo che teneva in mano e, con un colpo netto e deciso dei denti, lo spezzò.

Marco non ebbe neppure il tempo di rendersi conto. Stramazzò a terra: era morto.             

 ***

                                                   LA FIGLIA MIGLIORE (tradizione popolare)

                                     Questa storia è dedicata a mia nonna, Rosa, che me l'ha raccontata.

In un tempo lontano e in un luogo imprecisato del mondo, pare fosse esistita una famiglia, una numerosa famiglia: padre, madre, e cinque figlie, tutte ragazze  buone e ben educate, e tutte molto legate ai loro genitori. Il rispetto per le persone che avevano fatto loro il dono della vita era sommo e l'aiuto e la disponibilità che esse dimostravano loro erano senza risparmio.

Nella vita affettiva di questa famiglia, l'appuntamento più importante e più emozionante era il giorno del compleanno della mamma. Per questa occasione, infatti, ognuna delle figlie doveva fare un regalo a sua madre, , ma non un regalo consueto, come generalmente si fa, non un oggetto personale o un utensile per la casa, piuttosto un regalo particolare, simbolico, bizzarro se si vuole, ma comunque significativo.

Ogni figlia doveva paragonare il suo sentimento nei confronti della mamma a qualcosa di bello, di prezioso nella natura, di necessario e di indispensabile per la vita di un uomo. Ogni anno, nel giorno della festa, dopo un ricco pranzo che si distingueva da quelli degli altri giorni, per il numero e la varietà delle pietanze, aveva luogo la dichiarazione d'affetto, un vero e proprio rito.

Le ragazze, già dal mattino, erano in subbuglio, prese da forte emozione. Per loro, infatti, l'importanza dell'evento non era legata solo alla volontà di fare felice la mamma; c'era in questa usanza un forte spirito di competizione e di emulazione, che le vedeva lottare accanitamente l'una contro l'altra, per assicurarsi il titolo di preferita e per fare uno smacco alle altre. Quindi, l'impegno di trovare un degno paragone per l'affetto verso la loro mamma le teneva occupate per molto tempo. Esse cominciavano addirittura mesi prima la loro ricerca. Erano sempre attente e vigili nelle letture a scuola o nelle conversazioni, sempre pronte a cogliere qualche spunto originale per la loro dichiarazione.

Per queste cinque figlie, dunque, arrivò anche quell'anno il giorno del compleanno della mamma. Al mattino si alzarono tutte di buon'ora , avevano dormito poco e male, prese com'erano dall'agitazione. Per le più piccole questa tradizione era quasi un gioco, erano divertite ed incuriosite, più che emozionate. Per le più grandi, invece, era tutto molto più importante, perché tra loro c'era la probabile candidata al successo, avendo esse una maggiore esperienza rispetto alle sorelle minori. Una particolare attenzione era rivolta alla sorella maggiore, Miriam. Essa era infatti la detentrice del titolo di figlia migliore, era molto brava a trovare delle comparazioni significative per sua madre, e questa, da parte sua, non esitava un attimo ad attribuirle la palma della vittoria. Anche quell'anno la favorita era lei e le sorelle disperavano di poterla battere.

Tutta la mattinata trascorse tranquillamente in mille faccende e a mezzogiorno la tavola era, come di consueto, perfettamente apparecchiata con i sette coperti. Tutti i componenti della famiglia presero i rispettivi posti a tavola: la festeggiata a capotavola, il marito di fronte a lei, all'altra estremità del tavolo, le figlie maggiori sistemate alla sua destra, le minori alla sua sinistra: Miriam, la primogenita, era gomito a gomito con sua madre.

Il pranzo si svolse con calma e con allegria, proprio come si deve svolgere una festa di compleanno. Miriam aveva il compito di servire a tavola e lo faceva con grande competenza e con garbo. Mangiarono tutti di buon appetito, facendo i complimenti più sentiti alla cuoca, Miriam, la quale aveva dato prova, ancora una volta, di una grande abilità culinaria.

"Dunque", disse il padre con aria solenne, guardando la moglie visibilmente emozionata, "è arrivato il grande momento, il momento della dichiarazione d'affetto. Io disporrò l'ordine in cui, care figlie, dovrete parlare. Si comincerà, come tutti gli anni, da te Severina, che sei la più piccola, e poi si proseguirà in ordine crescente fino a Miriam... Dunque, Severina, sei pronta?"

"Sì, papà. Sono pronta", disse Severina con la sua vocina infantile, "Cara mamma", proseguì poi sorridendo verso la madre, "io ti voglio bene come al sole".

"Bene, cara", disse con un sorriso benevolo la madre, "apprezzo molto il tuo affetto, il sole è un paragone eccellente. Brava!"

"Ora tocca a te Aurora", disse il padre.

"Sì. Cara mamma", disse Aurora, tirando un profondo sospiro prima di proseguire, "Io ti voglio bene tanto quanto se ne può volere alla luna".

"Brava anche tu, Aurora, sono fiera di te", ribatté la madre, commossa per la soddisfazione che le piccine provavano nel farle gli auguri.

Le due figlie minori erano molto felici e soddisfatte della loro prova: la loro mamma si mostrava contenta, comprendeva bene che l'ingenuità e la poca originalità di quelle dichiarazioni erano dovute alla tenera età delle bambine. Essa, in realtà, teneva particolarmente in conto la prova delle figlie maggiori e soprattutto quella di Miriam, la figlia che più le stava a cuore e l'affetto della quale più le era caro e prezioso.

"Dunque, proseguiamo!", esortò il padre, "A te la parola, Simona".

"Cara mamma," cominciò Simona, "Il mio amore per te è paragonabile a quello che un'ape ha per un fiore".

"Una bellissima scelta, cara Simona, davvero una bella immagine, grazie!"

"Io, invece, mamma," intervenne Carla, "Io ti voglio bene tanto quanto se ne può volere alla pioggia in un periodo di siccità, alla pioggia che tutto rende fertile e vitale. Ti è gradito questo paragone, mamma?", aggiunse Carla con ansia.

La mamma annuì, veramente felice e commossa. "E tu, Miriam," rivolgendosi amorevolmente alla primogenita, "Tu a che cosa hai pensato per rendermi omaggio?"

"Io, mamma," disse tranquillamente Miriam, "ho pensato che il mio amore per te è uguale a quello che una persona ha per il sale".     

Così parlò Miriam, molto calma e sicura. Alle sue parole, tanto attese, i volti dei suoi famigliari subito si rabbuiarono in un misto di sorpresa e di indignazione. Tutte le sorelle si guardarono reciprocamente con aria interrogativa. Solo la madre rimase immobile, impassibile, impietrita dal dolore, trafiggendo con i suoi occhi vitrei quelli di Miriam, che a poco a poco cominciava a rendersi conto della spiacevole reazione della madre alla sua dichiarazione d'affetto.

"Hai tempo fino a domani a mezzogiorno", disse sua madre a denti stretti, tanto grande era l'ira repressa, "per uscire per sempre da questa casa".

Non una parola uscì dalla bocca dei presenti, nella stanza si creò un'atmosfera gelida, neppure il padre prese le difese della sfortunata figlia, neppure lui, un uomo in tutto sottomesso ai voleri della moglie. La madre si alzò senza aggiungere niente alla sentenza pronunciata, ordinò solamente alle altre figlie di provvedere alla pulizia della cucina e della stanza da pranzo. Appena la madre ebbe terminato di dire questo e prima che uscisse dalla stanza, Miriam riuscì a balbettare poche parole a testa bassa, all'indirizzo di tutta la famiglia.

"Prima che io me ne vada", disse con un sospiro e con la voce tremante per i singhiozzi repressi, "... prima che io me ne vada, permettetemi di fare un pranzo di addio e di invitare i parenti e i vicini di casa".

"Ebbene," rispose la madre,"ti sarà concesso quanto chiedi, a dimostrazione del mio affetto per te, un affetto che tu oggi hai disprezzato".

Detto questo, la madre, con la sua figura alta e sottile e con il volto scavato dalla collera, uscì dalla stanza per chiudersi nella sua camera da letto e non uscirne più fino all'indomani.

Il resto della giornata, per Miriam, trascorse lento e tutto si svolse in modo molto amaro. Con sua grande delusione constatò che le sue sorelle, in un momento così grave, non solo non la sostenevano con la loro solidarietà e con il loro affetto, ma anzi le erano quasi ostili.

Miriam, nonostante l'amarezza che le attanagliava il cuore, riuscì a poco a poco a ristabilire un ordine alle sue idee tanto confuse. per prima cosa, si rifugiò nella rimessa in fondo all'orto, dove era solita trascorrere indisturbata il suo tempo libero in meditazioni sui perché della vita, che in un luogo così bucolico e ameno sembravano trovare più facilmente delle risposte.

Qui cominciò a pensare a che cosa avrebbe potuto fare una volta fuori di casa. Passò rapidamente in rassegna i parenti e gli amici che avrebbero potuto ospitarla, ma abbandonò ben presto questi pensieri, rendendosi conto che nessuno l'avrebbe presa in casa, rischiando di inimicarsi la sua famiglia al completo. Allora provò a pensare pessimisticamente al domani: si vide sola, sporca e affamata ad un angolo di strada, a chiedere inascoltata l'elemosina. Questa immagine di sé in un ipotetico futuro bastò a spaventarla e a spingerla a guardare in faccia la situazione più realisticamente.

"Oh, Miriam, che brutte idee ti fai venire in mente!", disse a se stessa in tono di rimprovero e, insieme, di incoraggiamento.

Stette per un po' con lo sguardo perso ad osservare, fuori dalla piccola finestra, l'intensa vita del suo orto: le quattro gallinelle spennacchiate, che andavano razzolando alla ricerca di qualche verme in mezzo alla terra e i conigli sparsi tra le coltivazioni, che muovevano freneticamente il loro muso nell'atto di ruminare l'erba. Poi stette per un attimo in silenzio e, dopo aver riflettuto, con sul viso l'aria di chi ha appena avuto una brillante idea, si disse: "Sì... farò proprio così. Il sale mi ha messo nei guai e ora dovrà aiutarmi a venire fuori da questo pasticcio."

La notte di Miriam trascorse tranquillamente; nonostante le inquietudini della giornata, riuscì a dormire un sufficiente numero di ore, così da risvegliarsi al mattino serena e riposata. La sera precedente aveva provveduto ad invitare i parenti e i vicini di casa per il pranzo, e al mattino, appena alzata, si dedicò subito alla preparazione delle pietanze. Le sorelle la evitarono per tutta la mattinata, suo padre e sua madre non si fecero vivi fino all'arrivo degli ospiti e questo consentì a Miriam di agire indisturbata per alcune ore. La sua capacità in cucina era tale da permetterle di preparare un pranzo succulento per molte persone senza un eccessivo impegno e senza troppa fatica. Verso mezzogiorno apparecchiò una lunga tavola e ricevette gli ospiti con cordialità, i quali si accomodarono e conversarono allegramente, ignari di quanto era accaduto il giorno precedente.

Miriam cominciò dunque a servire le vivande a tutti i commensali, sia agli ospiti, sia ai suoi famigliari. per sua madre aveva cucinato tutto separatamente, e Miriam fu così abile a portare a tavola contemporaneamente le due cucine, che nessuno si avvide di questa particolarità. Tutti cominciarono a mangiare di buon gusto, facendo i complimenti più sentiti a Miriam per la squisitezza dei piatti; soltanto sua madre sembrava non gradire il cibo. la donna, infatti, aveva inghiottito a fatica appena due o tre cucchiai di minestra, lasciando il resto nel piatto. La stessa cosa accadde per la seconda portata: tutti ne mangiarono tranne la padrona di casa. All'ennesima pietanza immangiabile la madre di Miriam non resistette più, irritata per l'incalzare delle domande degli ospiti sul perché del suo rifiuto del cibo.

"Ora basta!", disse esasperata, alzandosi in piedi, "Questo è il colmo! Non so a voi, ma a me il cibo di questo pranzo non va giù, è immangiabile, è scipito e disgustoso. Credo pure di capire che cosa sia successo, vero Miriam?", disse rivolgendosi con stizza alla ragazza.

"Sì, mamma, penso anch'io che tu sappia il perché di questo pranzo per te insipido", disse Miriam con un tono di sfida, fra la sorpresa dei convitati, "Tu non ami il sale e ho cucinato il tuo cibo senza mettercene neppure un pizzico, per dimostrarti il mio affetto e la mia attenzione. Ho forse sbagliato di nuovo? Se è così, deciditi! Non  posso infatti avere sbagliato in due situazioni opposte. Il mio comportamento o è stato negativo ieri, oppure lo è stato oggi. Ieri hai dimostrato di odiare il sale e ti sei arrabbiata per la mia dichiarazione d'affetto; oggi io ho avuto rispetto per te, eliminando ogni minima presenza di sale nei tuoi piatti, e dunque tu ti arrabbi di nuovo?"

La madre, con aria affranta e imbarazzata per la lezione avuta dalla figlia, svestì i panni dell'orgoglio e indossò quelli dell'umiltà: "Grazie, Miriam", sussurrò prima di uscire a testa bassa dalla stanza, "Anche quest'anno sei tu la mia figlia migliore".   

             

                                                                    MOIRA

Il suono della sveglia pose fine bruscamente al sonno di Michele. Il giovane, nel buio della stanza, cercò a tentoni l'ordigno infernale che produceva quel fracasso e, afferratolo, lo spense. Quando accese la lampada, la luce ferì i suoi occhi assonnati come una freccia conficcatavi dentro all'improvviso. Poi guardò la sveglia, ma passarono alcuni secondi prima che riuscisse a mettere a fuoco l'immagine del quadrante.

"Le cinque e trenta!... E già!", si disse, "Che ora mi aspettavo che fosse?"
Sbuffando, a malincuore sgusciò fuori dal suo caldo letto, rabbrividendo al contatto con l'aria fredda della stanza. Si stiracchiò abbondantemente, riattivando così la circolazione pigra del suo sangue addormentato. Aveva poco tempo per prepararsi: si lavò e si vestì rapidamente; la prima colazione non esisteva nel suo menù quotidiano.

Uscì, chiudendo accuratamente la porta della sua casa maleodorante e fatiscente della borgata di periferia in cui viveva da quando era nato. L'aveva avuta in eredità dopo la tragica morte dei genitori, a causa di un incidente stradale due anni prima. Era una casa squallida e povera, ma era sua, tutta sua.

Ogni mattina Michele Pettinari raggiungeva, alla solita ora, il cantiere edile presso il quale svolgeva la professione di carpentiere. Il lavoro iniziava alle sette e alle diciassette terminava. Dalle dodici alle tredici si osservava un'ora di pausa per permettere agli operai di consumare il loro pasto. Quello di Michele, in verità, era assai frugale: quasi sempre una frittata schiacciata fra due untuose e spesse fette di pane duro, che ogni sera il ragazzo si preparava da sé.

Michele faceva questo lavoro da circa due anni, da quando, finito il servizio di leva e rimasto orfano, si era trovato nella necessità di guadagnarsi da vivere. Certo, lui sognava di poter svolgere la professione per cui aveva studiato. Grazie ai sacrifici dei suoi genitori, aveva potuto diplomarsi come ragioniere e questa era la professione che sognava per il futuro. Era, dunque, un ragazzo come tanti, costretto dall'indigenza a fare un lavoro qualsiasi, senza troppe pretese.

Il lavoro di carpentiere era piuttosto duro. Stare arrampicato come una scimmia tutto il giorno ad inchiodar tavole sugli edifici in costruzione, lasciarsi congelare nelle fredde giornate d'inverno o farsi abbrustolire la pelle dal sole cocente dell'estate non era sicuramente piacevole, ma tuttavia, i pochi soldi che Michele percepiva alla fine del mese bastavano a far dimenticare al ragazzo la stanchezza del corpo e la mortificazione dello spirito. Ma quando il suo sguardo si posava talvolta sulle sue mani martoriate dalle schegge delle tavole, che spesso si conficcavano dolorosamente nelle sue carni, oppure quando con disappunto vedeva qualcuna delle sue unghie annerita per l'effetto di qualche martellata non andata a segno sulla testa dei chiodi, la malinconia lo rendeva pensieroso e lo portava a desiderare più di quel che aveva, a pretendere, ma solo nella sua mente, qualcosa di diverso.

La strada era silenziosa e deserta, completamente immersa nell'oscurità e nel freddo. I passi del ragazzo risuonavano cupi sull'asfalto male illuminato dalla luce fioca dei lampioni. Percorrendo il breve tratto di strada che separava la sua abitazione dal capolinea dell'autobus, Michele poteva scorgere, nella semioscurità, figure femminili e maschili, infagottate in pesanti cappotti, che si affrettavano a raggiungere la grande vettura, desiderato riparo, anche se temporaneo, ai rigori di quella gelida mattina di gennaio.

Michele salì sull'autobus, ancora quasi del tutto vuoto, e si accomodò a caso su uno dei sedili sgangherati e scomodi. Guardava, come ogni mattina, fuori dal finestrino gli enormi edifici, tutti uguali, alti e fitti, della borgata, stagliati nell'oscurità, simili ad alveari.
I minuti passavano veloci e i pendolari si affrettavano a prendere posto sull'autobus, già col motore acceso, pronto a partire. C'erano ancora alcuni posti vuoti e Michele sperava vivamente che nessuno dei passeggeri ancora in piedi sarebbe venuto a sedersi vicino a lui. Si sentiva nervoso e indispettito e certamente non a suo agio quando qualcuno andava ad occupare il posto accanto al suo. Spesso, infatti, i suoi vicini di posto erano corpulenti signori, simili a montagne di carne che, loro malgrado, sovrastavano con la loro mole l'esile figura di Michele e costringevano il ragazzo ad appiccicarsi al finestrino. Per di più, alcuni di questi ingombranti viaggiatori sonnecchiavano, strada facendo, cadendo con la testa ciondoloni ora di qua, ora di là: molti passeggeri, infatti, abituati da anni al pendolarismo, riuscivano ormai a schiacciare formidabili pisolini durante il viaggio.

Quella mattina, tuttavia, Michele non sembrò troppo dispiaciuto di vedere il posto accanto al suo occupato. A sedersi vicino a lui, infatti, era stata una ragazza, una splendida ragazza. Michele, per la sua timidezza, non aveva un grande successo presso le donne. Quando si trovava per caso a parlare con qualche ragazza, si emozionava a tal punto che il rossore invadeva la sua faccia in maniera assai evidente e quasi ridicola; i pensieri si confondevano nella mente e la lingua gli si attorcigliava.
Il disappunto per queste sue difficoltà lo faceva dapprima arrabbiare con sé stesso e con la sua goffaggine, poi lo gettava in uno stato di prostrazione profonda, da cui, però, riemergeva quasi subito.

"Sono un vero ebete", si diceva, "E' mai possibile che io debba essere così timido da non riuscire a spiccicar parola quando ho davanti una ragazza? Un giorno o l'altro, a furia di arrossire, mi diventeranno rossi pure i denti!... Oh, ma poi, al diavolo le donne!... In fondo si può sopravvivere benissimo anche senza frequentarle, no?... Io ne sono un esempio vivente."
E così metteva a tacere tutti i rimproveri della sua coscienza.

Certo, ignorare che quella seduta lì accanto fosse una donna non era cosa facile. La giovane era, infatti, un esemplare di donna davvero raro. Avvolta in un lungo cappotto nero, alta, imponente, addirittura statuaria, faceva mostra di una lunghissima e fluente capigliatura bionda, che scendeva lungo le spalle, inanellandosi morbidamente. Il viso, di un ovale perfetto, accoglieva una bocca dalle labbra spesse e ben disegnate e un naso greco. Gli occhi, le cui iridi enormi e azzurre più del mare invadevano quasi tutta la cornea, erano incorniciati da due sopracciglia ben arcuate; il tutto messo in risalto da una bianchezza della pelle straordinaria.

Al colmo dell'imbarazzo e dell'emozione, Michele, come prima reazione istintiva, si spostò, con un moto repentino, verso il finestrino, per lasciare più spazio possibile tra sé e la ragazza e per non avere con lei il benché minimo, seppur accidentale, contatto fisico.

Intanto l'autobus, scricchiolando e sobbalzando, cominciò a muoversi. Definirlo autobus significava insultare la categoria. Si trattava in realtà di una vecchia carcassa, ridotta ormai ad un rottame. La carrozzeria presentava la vernice quasi completamente scrostata, tant'è che soltanto con un buon intuito si poteva riuscire a vederne il colore originario. Le numerose ammaccature e striature, testimoni di anni ed anni di incidenti, erano state facile preda della ruggine. All'interno lo spettacolo non era migliore: pezzi di lamiera, staccati in parte dal soffitto, sbatacchiavano, producendo un rumore davvero fastidioso: i sedili, poi, risultavano male assicurati al pavimento, poiché erano saltate in più parti le viti di sostegno, e inoltre l'imbottitura in gommapiuma, là dove era rimasta, era stata sbocconcellata da qualche viaggiatore maleducato, che in anni di viaggi si era divertito a rendere quei sedili dei veri ruderi.

Insomma, nell'insieme quell'autobus poteva solo essere destinato ai ferri vecchi, ma continuava a servire gli utenti come meglio poteva e non mancava di dare loro sonori scossoni, quando passava su strade dissestate, a causa della quasi totale mancanza delle sospensioni, e riusciva, nonostante tutto, a portarli quasi sempre a destinazione.

Proprio a causa di questi violenti scossoni, Michele faceva ancor più fatica a tenersi vicino al finestrino. La ragazza, dal canto suo, sembrava ignorare gli evidenti sforzi fatti dal giovane e si abbandonava con noncuranza all'ondeggiare dell'autobus e talvolta cadeva mollemente addosso al ragazzo.

"Non vedo l'ora di arrivare alla mia fermata", pensava con impazienza Michele, "Questo viaggio è il più lungo e penoso che io abbia mai fatto su questo maledetto autobus!".

In realtà il tragitto da compiere tra il capolinea e la fermata in cui scendeva Michele, in prossimità della stazione del metrò, era relativamente breve: qualche chilometro percorso in una quindicina di minuti circa.

"Ecco! Finalmente la fermata! Ora dovrò farmi animo e chiederle garbatamente di alzarsi per farmi scendere", si disse, incoraggiandosi.

"Scusi, mi fa passare? Dovrei scendere alla prossima fermata", disse Michele con voce malferma.

"Scendo anch'io alla prossima", fu la risposta che la ragazza diede a Michele, con un sorriso e uno sguardo profondo. Il ragazzo fu molto imbarazzato per quello sguardo. Distolse gli occhi da lei e sfuggì alla sua volontà indagatrice.

"Come ti chiami?", continuò la ragazza, che sembrava volesse attaccare discorso.

"Michele", rispose intimidito, "E tu?".

"Moira".

"E' un bel nome Moira, poco comune", aggiunse con uno sforzo, aspettandosi che lei parlasse di nuovo, ma non fu così.

La ragazza troncò lì la conversazione, non disse altro. Si alzò e trafisse Michele con un'occhiata fulminea. il ragazzo, sorpreso e quasi impaurito, si alzò subito dopo di lei, non comprendendo il perché di un così strano comportamento.

"Bah, forse non voleva attaccare discorso!", pensò, "Forse voleva solo sapere come mi chiamassi. Anzi, sono stato io uno sciocco a fare quel banale apprezzamento sul suo nome. Sono stato proprio uno stupido a farle credere di voler attaccare bottone. Mi sono comportato come quei galletti che rompono le scatole alle ragazze carine... Huff! ma poi che m'importa? Chi la conosce quella?"

L'autobus si fermò, aprì le sue porte con stridore e lasciò che la sua pancia si svuotasse di molti passeggeri, le richiuse e sobbalzando ripartì.

Michele, in piedi sul selciato, sentì di nuovo il freddo pungente di gennaio: l'autobus era, sì, vecchio e malandato, ma aveva ancora il riscaldamento ben funzionante e si faceva rimpiangere per il bel caldo che offriva; la differenza di temperatura tra l'interno della vettura e l'esterno era davvero notevole. Si infagottò come meglio poté nel suo cappotto e si avviò verso l'entrata della stazione del metrò, mescolandosi e confondendosi fra gli altri passeggeri.

Camminava velocemente nel corridoio sotterraneo, cercando così di riscaldarsi. Aveva dimenticato quasi del tutto l'episodio di poco prima sull'autobus tra lui e la ragazza bionda. Appena scesa dall'autobus lei si era dileguata e quindi il giovane l'aveva persa di vista. Ma non voleva interessarsi a lei, non gli importava se fosse entrata nel metrò o se fosse andata altrove.
Ad un tratto, però, la voce di lei, proveniente dalle sue spalle e che sembrava si rivolgesse proprio a lui, lo fece trasalire.

"Ehi, Michele, fermati! Aspettami! Come cammini velocemente! Non riesco a starti dietro."

Lui si voltò e la vide camminare con passo sostenuto e sorridergli amabilmente mentre gli si avvicinava. Michele aspettò che lei lo avesse raggiunto senza dire una parola, imbarazzato.

"Beh, hai fretta?", disse lei volutamente gentile, "O vuoi sfuggirmi?", aggiunse poi, con un fare tra il malizioso e il minaccioso.

"No, non voglio sfuggirti", disse Michele con un sorriso poco spontaneo, "Perché dovrei? Cammino velocemente perché ho un po' di freddo e poi perché debbo affrettarmi per arrivare in orario al lavoro".

"Che lavoro fai?", chiese Moira apparentemente interessata.

"Il carpentiere".

Ci fu un attimo di silenzio fra i due e poi lei riprese, "Non è il lavoro che vorresti fare, vero?"

"No, infatti, e tu come lo sai?"

"Me l'immagino... E poi, si vede dall'espressione della tua faccia".

"E tu, Moira, che lavoro fai?"

A questa domanda la ragazza trasalì, si fermò e puntò gli occhi in faccia a Michele, guardandolo con odio. Il giovane, sconcertato da questa nuova e inspiegabile dimostrazione di ostilità nei suoi confronti, rimase senza parole; continuò a camminare incerto se provare a dire qualcosa o se rimanere in silenzio. La ragazza camminava al suo fianco e anche questa volta fu lei a rompere il clima di difficoltà che lei stessa aveva creato.

"Da quanto tempo fai questo lavoro?"

"Da circa due anni".

"E non ti è venuto a noia?".

"Sì, ma non posso lasciarlo finché non ne avrò trovato un altro migliore... E di questi tempi non è certo una cosa facile!...Chi ha un lavoro se lo tiene ben stretto, anche se non risponde alle proprie aspirazioni".

Intanto erano arrivati in prossimità della scala mobile. Tacquero entrambi. Salirono sui gradini che, scivolando, li depositarono sulla piattaforma.

"Quale direzione prendi?", disse la ragazza.

"Questa", rispose Michele, indicando l'apertura sul corridoio alla sua sinistra.

"Anch'io", ribatté Moira.

S'incamminarono lentamente lungo la piattaforma. A pochi passi da loro si apriva il grande solco in fondo al quale si allungavano i binari. Il semaforo all'imbocco della nera galleria emanava una luce gialla lampeggiante. I viaggiatori continuavano ad affluire, disponendosi per tutta la lunghezza della piattaforma.

"Tra quanto passa il treno?", chiese la ragazza con una punta di ansietà nella voce.

"Non lo so. Non c'è un orario preciso. Quando arriva si sente, fa un rumore notevole all'uscita dalla galleria, è impossibile non accorgersene".

Stettero in silenzio in attesa del treno. Tutti i viaggiatori avevano la faccia rivolta verso la galleria, tutti avevano gli occhi confitti nel buio, nel punto da cui sarebbe dovuta arrivare la vettura, tutti avevano le orecchie tese a udire il più piccolo rumore, indizio dell'imminente arrivo del treno.
Moira era lì, che guardava ed ascoltava più di tutti e un leggero sudore le imperlava la fronte.

"Eccolo!", gridò ad un tratto concitatamente, quasi ansimando, "Eccolo, arriva!"

Dapprima si avvertì un tramestio sommesso e lontano, poi un rumore più cupo, che cresceva, che si ingigantiva.

"Eccolo!", riprese lei, "Senti, sembra un urlo!..."

Michele, con un'espressione di incredulità e di inquietudine, guardava il pallore diffondersi sul viso della ragazza.

"Senti?", continuò lei come in un delirio, Sembra un drago che esce fuori dalla sua tana, fulmineo, che corre, che viene ad inghiottirti!"

Il treno, infatti, sbucò all'improvviso dalla galleria.

"Ti porto la morte!", urlò Moira con voce strozzata, "Ecco qual è il mio lavoro! Ecco perché mi chiamo Moira! Il mio lavoro è portare la morte e oggi è il tuo turno".

Detto questo, con una spinta repentina, precipitò Michele giù fra i binari, sotto le rotaie del treno... I fari della locomotiva, rotondi e luminosi come due occhi vivi, puntavano dritto in avanti. Michele se li vide improvvisamente addosso, non capì, non ebbe il tempo di capire...

Il macchinista inorridì alla vista di quel ragazzo, là in mezzo, ormai inghiottito dal treno in corsa. I freni stridettero, ma inutilmente. Molti fra i viaggiatori in attesa sulla piattaforma furono colti da malore, soprattutto le donne e i più anziani. Più tardi, alcuni fra i più coraggiosi riuscirono anche a parlare dell'accaduto, a raccontare il fatto alla polizia, sopraggiunta poco dopo.

"Povero ragazzo!", dicevano, " Perché l'avrà fatto? Era così giovane!... Darsi la morte in un modo tanto atroce!"

L'indomani mattina, una bellissima ragazza bionda comprò un quotidiano nell'edicola all'angolo, vicino all'entrata della stazione della metropolitana, lo aprì alla pagina della cronaca nera e lesse la notizia che più la interessava.

"Ieri mattina, verso le sei e trenta, è accaduto un incidente a dir poco raccapricciante. Un giovane ragazzo di ventitré anni, Michele Pettinari, di professione carpentiere, si è tolto la vita gettandosi sotto un treno della metropolitana, alla stazione di ***. Numerosi testimoni hanno raccontato alla polizia che si è trattato di un fatto fulmineo, inevitabile. Il suicida non ha avuto un attimo di esitazione a lanciarsi. Il macchinista, all'ospedale, dopo essersi ripreso dallo shock, ha rilasciato una deposizione, in cui conferma quanto dichiarato dalle testimonianze dei viaggiatori."

La bella ragazza bionda ripiegò accuratamente il giornale e lo gettò nel primo cestino dei rifiuti che incontrò.


***

                                                               SCRIPTOR

Dunque lui, proprio lui, un dannato... Un'anima persa, destinata a stare all'Inferno per l'Eternità... Possibile?... Lui, uno scrittore famoso, che aveva inseguito e ottenuto la celebrità durante tutta la vita, ora, da morto, non era più nessuno? O meglio, era ancora qualcosa, l'unica cosa possibile nell'acre odore di zolfo dell'Inferno: un dannato, era un dannato!

Ma il suo vero tormento, più che quello originato dal supplizio infernale, era determinato dal fatto che, per quanto si sforzasse, non riusciva a comprendere e ad accettare una situazione così tragica: che tutti gli scrittori, meritevoli o no, dopo la morte, fossero destinati necessariamente a finire all'Inferno.

Perché tanta crudeltà? Quali le ragioni di una simile condizione? Famosi in terra fra gli uomini, dannati all'Inferno fra i diavoli: questa la loro condanna, questo il loro destino.

Chissà perché?... Forse perché, attraverso la letteratura, avevano voluto distruggere il tempo, eternandosi nelle loro opere... Forse!

Non riusciva neppure a rendersi conto delle modalità di applicazione della pena: quanto più le sue opere venivano lette ed apprezzate in terra, tanto più le fiamme infernali divoravano le sue carni, come per una crudele legge del contrappasso.

Oh, quanto avrebbe voluto dire agli uomini di non leggere e, soprattutto, di non scrivere più!

 

FINE

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