di
ALESSANDRO MANZONI
M I L A N O
STABILIMENTO REDAELLI DEI FRATELLI RECHIEDEI
1870.
Carissimo Bonghi,
Dico a socera perchè nora intenda; cioè scrivo a voi in privato per giustificarmi del non aver fatta menzione del libro di Dante De Vulgari Eloquio, nella Relazione di cui anche voi avete accettata la responsabilità. Voi farete poi di questa lettera l'uso che vi suggerirà la vostra prudenza. M'avete capito.
È indispensabile un pochino di preambolo.
Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una
sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè,
d'esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben
piccola mole, e quantunque importante, non solo per l'altissima fama del suo
autore, ma perchè fu ed è citato come quello che sciolga un'imbarazzata e
imbarazzante questione, stabilendo e dimostrando quale sia la lingua italiana.
Prima che ne fosse pubblicato il testo originale, che fu nel 1577, in
Parigi, per cura di Jacopo Corbinelli, il Trissino l'aveva fatto conoscere con
una sua traduzione, lavorata sopra un manoscritto e stampata in Vicenza per
Tolomeo Janiculo, nel 1529. L'autorità di quel libro, sostenuta e combattuta
fino da quel primo momento, e poi a vari e lunghi intervalli, fu rimessa in
campo dal conte Giulio Perticari, nei due trattati: Degli scrittori del
Trecento e de' loro imitatori (1817), e Dell'amor patrio di Dante e del
suo libro intorno al Volgare Eloquio (1820).
Bolliva allora l'altra questione tra i romantici e i classicisti, che
rammento qui di passaggio, e solamente per la somiglianza del caso. Una parte
principale di quella questione era intorno alla poesia drammatica; e su questo
punto il libro allegato da molti come autorità irrefragabile, era la Poetica
d'Aristotele, piccola cosa anch'essa in quanto alla mole, e che non era letta
anch'essa, oserei quasi dire, da nessuno, se non forse da quelli, contro i quali
s'allegava.
Ora, per tornar subito al proposito, chi non dovrebbe credere che il
libro del Perticari, il quale produsse un effetto che dura ancora, avesse
eccitata nel pubblico una vivissima curiosità per quello di Dante, del quale era
dato come l'interprete? Chi, essendo ignaro del fatto, non dovrebbe immaginarsi
che un qualche editore, gente di buon naso, avesse profittato dell'occasione per
ristampare a migliaia di copie il libro del Volgare Eloquio, di cui non
esistevano che scarse e poco trovabili edizioni: la prima, tanto del testo,
quanto della traduzione, rarissime, e non più ristampate, nè l'una, nè l'altra,
fuorchè insieme con l'altre opere, sia del grande autore, sia del povero
traduttore? Ma un'edizioncina da sè, sciolta e leggiera, da correre per le mani
di molti, e che sarebbe venuta tanto a proposito, non ci fu chi pensasse, nè a
darla, nè a richiederla; forse perchè i miei contemporanei di mezzo secolo fa
non s'immaginavano che, per appoggiarsi all'autorità d'un libro, ci fosse
bisogno di conoscerlo.
Al giorno d'oggi una tale avvertenza sarebbe superflua, e fuor di luogo.
È bensì vero, che il libro De Vulgari Eloquio è citato ora, non meno
d'allora, a ogni opportunità; e si può aggiungere (giacchè l'edizioncina non è
ancora comparsa) che non è letto di più. Ma sarà probabilmente perchè le persone
del giorno d'oggi suppongono che i loro padri e i loro nonni, da cui hanno la
cosa per tradizione, l'abbiano letto loro. A ogni modo, l'opinione che Dante,
nel libro De Vulgari Eloquio, abbia inteso di definire, e abbia definito
quale sia la lingua italiana, è talmente radicata, che non si suppone
generalmente che possa neppure esser messa in dubbio.
Ora, per giustificare la mia omissione, devo far di più e peggio, negare
il fatto addirittura e dire che, riguardo alla questione della lingua italiana,
quel libro è fuor de' concerti, perchè in esso non si tratta di lingua italiana
nè punto nè poco.
Ma qui, se voi, abusando del mio permesso, comunicaste questa lettera a
più che alcune persone discrete e prudenti, avrò stuzzicato un vespaio; e già mi
vedo a venire addosso più d'uno a richiedere delle prove, col tono di chi è
persuaso che non se ne possa trovare.
Eccone una, rispondo. Dante era tanto lontano dal pensare a una lingua
italiana nel comporre il libro in questione, che alla cosa proposta in quello,
non dà mai il nome di lingua. La chiama « Il Volgare che in ogni città dà
sentore di sè, e non s'annida in nessuna » Vulgare quod in qualibet redolet
civitate, neo cubat in ulla. E poco dopo « l'illustre, cardinale, aulico,
cortigiano volgare in Italia, che è d'ogni città italiana, e non par che sia di
nessuna. » Illustre, cardinale, aulicum et curiale Vulgare in Latio, quod
omnis latae civitatis est, et nullius esse videtur[1].
Lingua, mai.
Ma qui, non che accettare questa come una prova, me la buttano in dietro
come una meschina questione di parole, e mi dicono che, per chi bada alle cose,
è oramai passato in giudicato che Dante, dicendo Volgare Illustre, non ha
inteso, nè potuto intender altro che lingua comune all'Italia.
Allora vedete a che cimento m'avrà messo la poca vostra prudenza, allora
sarò costretto a dire che, se Dante non diede al Volgare Illustre il nome di
lingua, fu perchè, con le qualità che gli attribuisco, e con le condizioni che
gl'impone, nessun uomo d'un bon senso ordinario, non che un uomo come lui,
avrebbe voluto applicargli un tal nome.
Apriti cielo! pare una bestemmia contro Dante e contro l'Italia. Ma
parola detta e sasso tirato non fu più suo. Onde, non volendo affrontare un
lungo e aspro conflitto, non trovo altro ripiego se non di pregarli che mi
permettano di far loro una sola e breve domanda. E con questa spererei di potere
far dire la cosa da loro medesimi.
Dicano dunque se, per lingua, intendono una cosa che non deve servire
che a trattare d'alcune materie determinate, e ad essere adoperata in un solo
genere di componimenti.
Rispondono naturalmente di no, ma aggiungendo che non vedono cos'abbia a
fare con la questione una tale domanda.
Aprano dunque il libro De Vulgari Eloquio al capitolo secondo del
libro secondo, e troveranno, verso la metà, che « essendo questo Volgare
Illustre l'ottimo tra i volgari; ne segue che le sole cose ottime siano degne
d'esser trattate da esso. » Unde cum hoc quod dicimus Illustre sit optimum
aliorum vulgarium, consequens est ut sola optima digna sint ipso tractari.
Passa poi subito a dichiarare quali siano quelle cose ottime; ed ecco in
succinto la sua dottrina intorno a ciò.
L'uomo ha in certo modo tre vite (homo tripliciter spirituatus est):
la vita vegetale, l'animale e la razionale; e ha quindi tre tendenze. Secondo la
vita vegetale, cerca l'utile; secondo l'animale, il dilettevole; secondo la
razionale, l'onesto. E siccome in ciascheduno di questi tre oggetti ci sono e
delle cose più grandi, e delle grandissime; così queste ultime devono esser
grandissimamente trattate, e per conseguenza nel grandissimo volgare. Le tre
cose grandissime poi sono: nell'utile la salute; nel dilettevole la venere;
nell'onesto la virtù. In ciascheduna poi di queste tre cose stesse, ce n'è una
relativamente grandissima: cioè prima il valore nell'armi; nella seconda il più
alto grado dell'amore; nella terza la rettitudine della volontà. E queste sono
le materie da esser trattate col grandissimo volgare. Quare hoc trio, Salus
videlicet, Venus, Virtus apparent esse illa magnalia, quae sint maxime
pertractanda, hoc est ea quae maxima sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris
ascensio et directio voluntatis.
Se il síllogismo non è diventato una bugia; se quella che hanno
accettata, e per forza, è una maggiore; se le parole citate ora formano la sua
minore; anche gli oppositori hanno detto che, per Volgare Illustre, Dante non ha
intesa una lingua.
Cos'ha inteso dunque? mi si domanda.
È un'altra questione, e alla quale non son tenuto di rispondere; perchè
la mia tesi è puramente negativa, e credo d'averla dimostrata. Però, se il
sostituire il fatto vero all'immaginato non è necessario a una dimostrazione di
questo genere, può esser utile a render più compita la cognizione della cosa. E
del rimanente, il libro in questione ce ne dà il mezzo tanto pronto, quanto
sicuro. Perchè, subito dopo le parole citate in ultimo, vi leggiamo: « Delle
quali tre cose troviamo aver poetato in volgare gli uomini illustri, cioè
Bertrando de Born, le armi; Arnaldo Daniel, l'amore; Girardo de Borneil, la
rettitudine; Cino da Pistoja, l'amore; il suo amico (Dante medesimo) la
rettitudine. » E cita di ciascheduno il primo verso d'una canzone.
Qui, senza fermarci su quella mescolanza di tre trovatori perigordini
con due poeti italiani, cosa che esclude l'intenzione di parlare d'una lingua
speciale, troviamo anche un indizio della cosa, di cui Dante intende parlare,
cioè del linguaggio della poesia, anzi d'un genere particolare di poesia.
E l'indizio è tutt'altro che vano, poichè immediatamente dopo, viene il
terzo capitolo, in cui « si distinguono i modi del poetare in volgare, » e sono
« canzoni, ballate, sonetti e diversi altri modi legittimi e irregolari, come si
mostrerà in appresso. »
Si passa poi a dichiarare che, essendo la canzone l'eccellentissimo di
que' modi, si deve in essa usare l'eccellentissimo volgare. E di quella
preminenza si assegnano più ragioni; perchè, quantunque ogni cosa scritta in
versi sia canzone, pure a quella sola si dà per eccellenza un tal nome; perchè
non ha bisogno d'aiuti estrinsechi, a differenza della ballata, che è bensì più
nobile del sonetto, ma richiede l'accompagnamento della musica; perché apporta
più onore a' suoi autori, che la ballata; perchè è conservata più caramente che
gli altri componimenti in versi, come consta a quelli che visitano i libri;
perchè, finalmente, nelle sole canzoni si comprende l'arte intera. Ma, per non
dilungarmi in altri particolari che non importano al mio argomento, mi restringo
a dire che, in tutto il rimanente di quel libro secondo e ultimo di quelli che
abbiamo, non si tratta d'altro che della canzone, fino e incluso l'ultimo
capitolo, intitolato: « Della varietà de' ritmi, e come devono essere disposti
nella canzone. »
Ma se quel libro è l'ultimo per noi, non era tale per Dante, il quale si
proponeva in vece di aggiungerne due altri a compimento dell'opera. Però,
riguardo alla nostra questione, è come se ci fossero anche questi. E n'abbiamo
il miglior mallevadore che si possa desiderare: Dante medesimo. « Omettiamo, »
scrive egli nel quarto capitolo del libro secondo, « di parlare ora del modo
delle ballate e de' sonetti, perchè intendiamo dichiararlo nel quarto libro di
quest'opera, dove tratteremo del Volgare Mediocre. » Più sotto poi, divide in
tre i generi delle cose che possono esser cantate, canenda videntur; e
sono Tragedia, Commedia, Elegia. Per la Tragedia, dice doversi prendere il
Volgare Illustre, quello della canzone; per la Commedia, ora il mediocre, ora
l'umile; e della distinzione di questi si riserva di parlare nel quarto libro;
per l'Elegia l'umile.
Sicchè e in ciò che è venuto fino a noi; e in ciò che ci manca, tutto
s'aggira intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose
da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia.
E così l'aveva intesa Giovanni Boccaccio, più d'un secolo e mezzo prima
che comparisse la traduzione del libro di Dante, e con essa l'interpretazione
del Trissino. Ecco le parole del Boccaccio nella Vita di Dante, comparsa in
stampa la prima volta in fronte all'edizione, ora rarissima, della Divina
Commedia, pubblicata nel 1477 da Vindelin da Spira, insieme col commento
attribuito a Benvenuto da Imola.
« Appresso, già vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò De Vulgari Eloquentia, dove intendeva di
dare dottrina a chi imprender la volesse, del dire in rima. E comechè per lo
stesso libretto apparisca lui avere in animo in ciò comporre quattro libri; o
che più non ne facesse, dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri,
più non appariscono che due solamente. »
Il Trissino messe questo squarcio nel frontispizio della sua traduzione,
come un argomento in favore della autenticità del libro; ma volendo mettere in
mostra solamente ciò che faceva per lui, usò la magra furberia di lasciare
indietro le parole « dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse,
di dire in rima, » che avrebbero disturbato il suo disegno di tirare il libro di
Dante alla questione della lingua, come fece nel suo dialogo « Il Castellano. »
Ma, o Messer Gian Giorgio, se vedevate che quelle parole avrebbero potuto dar da
pensare agli altri, perché non principiare dal pensarci voi? Quella era la vera
furberia.
Se poi, tra gli oppositori, ce ne fossero alcuni (che non vorrei
credere) ancora restii ad accettare le conseguenze del loro concedo maiorem,
rivolgo a questi una seconda e ultima domanda. Credono che, tra le condizioni
d'una lingua, ci sia quella, che i suoi vocaboli abbiano a esser composti d'un
numero di sillabe, piuttosto che d'un altro? E, sentito rispondermi un no ancor
più risoluto e più stupefatto del primo, cavo fuori, da quei capitoli del
secondo libro, che avevo messi da parte, il settimo, dove Dante specifica i
vocaboli convenienti al Volgare illustre. Principia dal distinguere i vocaboli
in puerili, muliebri e virili (puerilia, muliebria, virilia); e questi in
silvestri e in cittadini (silvestria et urbana); e de' cittadini, altri
pettinati e scorrenti , altri irsuti e ruvidi (quaedam hirsuta et reburra).
Scartate quindi le specie di vocaboli che non convengono al Volgare
Illustre, « rimangono solamente » dice « i pettinati e i cittadini irsuti,
che sono nobilissimi e membri del Volgare Illustre. » Sola etenim pexa,
hirsutaque urbana tibi restare videbis, quae nobilissima sunt, et membra
Vulgaris Illustris. Pettinati poi chiama i trisillabi, o vicinissimi alla
trisibilità, con altre condizioni che non occorre di riferire. Pexa vocamus
illa quae trisyllaba, vel vicinissima trisyllabitati. Gl'irsuti li divide in
necessari e ornativi: necessari, e da non potersi scansare, certi monosillabi,
come si, vo, me, te, se, a, e, i, o, u; ornativi quelli che, misti ai pettinati,
formano un costrutto di bella armonia.
Non vi par egli che ce ne sia più che abbastanza per far confessare
anche ai più recalcitranti, che nel libro De Vulgari Eloquio non si
tratta d'una lingua, nè italiana, nè altra qualunque? Vi dirò, ma questo,
proprio in confidenza, che, maravigliato io medesimo d'un così pronto e intero
successo, ebbi, un momento, il prurito di finire con un grido di trionfo. Ma
riflettendo che tutto il talento e lo studio che c'è voluto, consiste nell'aver
letto un libriccino di sessantuna pagina in piccol sesto, chè tante ne occupa il
Trattato nell'edizione del Corbinelli, ho tirata indietro la mia spacconata.
« Come face le corna la lumaccia. » In verità, sarebbe stato un povero
Veni, Vidi, Vici.
Finisco invece più sensatamente, col chiedervi scusa del disturbo che
v'ho dato, e col pregarvi, anzi con l'intimarvi di continuare a voler bene, fin
che c'è tempo, al vostro
ALESSANDRO MANZONI. |