Il corposo
manoscritto, la Statistica del Cantone di Maniago, giaceva, in
paziente attesa, al numero 953 del fondo principale, nella
biblioteca civica di Udine. La preziosa fonte storica della
Maniago in epoca napoleonica, non priva di notizie sugli altri
comune del cantone, aspettava che una mano esperta si decidesse a
sollevare la polvere, compiendo quel lavoro di scavo e di
inquadramento storico, senza il quale non sarebbe stato possibile
riconsegnarla al nostro tempo. E attorno a quei dati
straordinariamente dettagliati che, nonostante il tono
burocratico, compongono un articolato affresco del territorio e
permettono di allargare l'orizzonte su quel complesso periodo di
grandi mutamenti che va dagli ultimi decenni del Settecento ai
primi anni dell'Ottocento - aleggiava grande curiosità.
Del resto, il
giovane conte Fabio II di Maniago (1774-1842), podestà della città
dei coltelli, aveva risposto con zelo e con grande soddisfazione
delle autorità dell'epoca al "questionario dei cento
quesiti", con il quale, il 14 settembre 1807, il prefetto
Teodoro Somenzari chiese a tutti i comuni del dipartimento di
Passariano di tracciare, entro quindici giorni, il quadro della
vita sociale ed economica delle comunità.
Il documento che così efficacemente descrive un angolo del
Friuli negli anni napoleonici, preceduto da un accurato lavoro di
studio e ricerca curato da Dino Barattin e da un saggio
introduttivo che traccia la figura di Fabio di Maniago e la sua
esperienza di podestà affidato ad Alberta Maria Bulfon (edizioni
Libraria), viene riportato alla luce dalla pubblicazione che
s'intitola appunto "1807 Statistica del Conte di
Maniago". A sollecitare Barattin, studioso di storia friulana
già autore di varie pubblicazioni, sono stati gli attualicolleghi
del conte, gli amministratori del Comune pedemontano (che
all'epoca di Fabio, «era una struttura esile, composta da
segretario, copista straordinario e cursore»), editore del volume
che oggi verrà presentato a Maniago, alle 18, nella sala convegni
dell'ex Filanda.
Barattin invita a riflettere sugli obiettivi con i quali
nasceva allora un' operazione come la statistica, che «insieme a
relazioni, dispacci e decreti - scrive - rappresentava l'essenza
del modello di governo imposto dal dominio napoleonico in Italia.
Le statistiche, in particolare, erano ritenute tra i documenti più
significativi di quel tipo di cultura amministrativa, per la quale
conoscere le caratteristiche di un territorio significava
dominarlo fino in fondo».
La Maniago descritta si presenta come un grosso borgo
sviluppatosi nei secoli lungo la strada che corre ai piedi del
monte Jôf e ha il suo fulcro commerciale nella piazza, dove ogni
lunedì si svolgeva un grande mercato verso il quale confluivano
gli abitanti delle valli Cellina e Colvera. Nel 1805 la
popolazione ammontava a 3382 persone: 2207 a Maniago Grande, 210 a
Fratta, 214 a Campagna, 756 a Maniago Libero. Dal punto di vista
demografico, tra il 1797 e il 1807 il territorio sentì il
contraccolpo delle invasioni straniere e il conseguente aumento
della pressione fiscale, degli oneri derivanti dalla fornitura di
derrate alimentari. Gli anni più critici furono il 1801 e 1802:
crollo delle nascite, dei matrimoni, altissima mortalità
infantile, specialmente nel 1802, a causa di un'epidemia di vaiolo
che portò a centinaia di decessi tra bambini.
Scorrendo ancora gli appunti del conte, si scopre che la durata
della vita media era di sessant'anni, che «i figli incominciano
ad essere di sollievo ai genitori dall'età di anni dodici alli
quattordici», che i maschi «dagli anni venti alli venticinque e
le femmine dalli diciotto alli ventiquattro sogliono unirsi in
matrimonio, che in paese vi sono sessanta mendicanti, «tutti
miserabili e impotenti». La base della popolazione traeva
sostentamento dalla terra e a possedere il maggior numero di
terreni coltivabili - 1240 su un totale di 2030 campi - era la
famiglia nobiliare dei di Maniago (e qui Barattin si sofferma
sulle lotte scatenate dall'esercizio di decime, censi o altri
aggravi).
Man mano che la Statistica scorre, tra appunti dedicati alle
scarse attivià commerciali e alla necessità di importare grandi
quantità di derrate alimentari, resoconti sull'attività
produttiva di sette battiferri e della fabbrica di tele così come
sull'emigrazione o sulla limitatissima vita sociale dei
maniaghesi, si delinea anche la figura di un amministratore
moderno e aperto.La sua sensibilità gli fa annotare lo stato di
abbandono in cui vengono a trovarsi i bambini in età scolastica,
l'assenza di strutture per l'insegnamento (soltanto «alcuni
sacerdoti tengono scuole onde insegnare a fanciulli a leggere,
scrivere, l'abaco e ilLimen Gramaticum»), la preoccupazione per
la grave situazione sanitaria, la diffidenza contro la quale
dovette combattere il medico fisico Nicolò Antonini per
promuovere la vaccinazione. L'esauriente profilo di Fabio II
tracciato dalla Bulfon nel libro ne è conferma: il conte, anche
attraverso numerosi viaggi grazie ai quali era riuscito a sfuggire
all'angusto orizzonte locale, aveva assimilato una cultura di
stampo illuministico che lo fece distinguere, per atteggiamento e
carattere, da una certa nobiltà friulana chiusa e refrattaria
alle novità e che lo portò ad essere premuroso e caritatevole
verso i più poveri, a rivestire alcune funzioni pubbliche nei
convulsi momenti legati al mutevole contesto politico.
È questa la nuova luce sotto la quale Fabio II, fino a oggi
noto ai più per laStoria delle belle arti friulane, opera che ha
posto le basi della moderna storiografia artistica del Friuli, ora
ci appare.