Nel 1492 Cristoforo Colombo, finanziato dalla corona spagnola,
giunge con tre caravelle a toccare le coste di un nuovo mondo.
Egli credeva tuttavia di essere approdato nelle Indie.
Soltanto qualche anno più tardi altri navigatori
comprenderanno l’entità della scoperta.
Quella terra sarà chiamata America per ricordare
un altro grande navigatore italiano, Amerigo Vespucci.
Dopo qualche decennio la nuova terra comincerà
a dare i suoi frutti agli scopritori: oro, argento, nuovi alimenti (patate,
pomodori, mais, caffè, cacao ecc.), legno pregiato verranno esportati
verso l’Europa.
Ad approfittare di questo commercio saranno Spagna, finanziatrice
del viaggio di Colombo, e Portogallo, che da tempo cercava una nuova strada
per raggiungere i porti indiani.
La Spagna, dopo aver consolidato lo stato monarchico nel
XV secolo, si affaccia da protagonista sul palcoscenico della politica
europea entrando in conflitto con la Francia per il dominio sugli Stati
italiani.
Dopo aver ottenuto la corona di Spagna e quella più
importante di imperatore, Carlo V d’Asburgo si trova ad essere padrone
di mezza Europa (Spagna, Austria, Paesi Bassi e Italia) ma in perenne conflitto
con l’altra metà.
Questa situazione lo obbliga a intraprendere guerre costosissime
finanziate da banchieri tedeschi e italiani, che egli ripaga con i metalli
preziosi provenienti dalle sue colonie americane.
Già alla metà del Quattrocento il sovrano
portoghese Enrico il Navigatore aveva l’ambizione di scoprire nuove vie
commerciali verso l’India, che gli permettessero di evitare le rotte mediterranee
dominate dai Veneziani e ormai controllate anche dalla potenza turca ostile
all’Occidente cristiano.
Per questo aveva fondato una scuola di navigazione.
Anche dopo la scoperta dell’America, i Portoghesi continuarono
la loro ricerca circumnavigando l’Africa e giungendo in India da Sud. Ci
riesce Vasco de Gama nel 1497 ma non per questo i Portoghesi rinunciano
a colonizzare i territori americani che il trattato di Tordesillas del
1494 ha loro assegnato.
La conquista del continente americano fu opera di gruppi
di avventurieri
Intorno al 1522, con il viaggio di circumnavigazione
di Magellano intorno al globo, si poteva dire conclusa l’epoca delle grandi
scoperte geografiche e si apriva quella della conquista territoriale del
Nuovo Mondo.
I primi nuclei dell’impero coloniale spagnolo furono
le Antille e alcune terre nel mar dei Caraibi (l’Hispanola e Cuba).
La monarchia spagnola si era limitata a prendere atto
di tali conquiste, ad istituire la Casa de Contrataciòn, a Siviglia
(1503), col compito di regolare e monopolizzare in nome della corona, tutto
il commercio da e per l’America, e ad affidare al Consiglio dell’India
(1511) il disbrigo degli affari d’oltreoceano.
L’espansione del primo nucleo di possedimenti spagnoli
in America incominciò sotto Carlo V e coincise pressapoco con il
suo regno.
Essa partì dalle basi delle Antille, si diresse
sia verso la penisola dello Yucatàn che verso Sud, in direzione
dell’attuale Venezuela e del Perù; si compì in un periodo
relativamente breve, in circa mezzo secolo, ad opera dei conquistadores,
avventurieri audaci e senza scrupoli, appartenenti a diversi ceti sociali,
spinti nelle nuove terre da sete di ricchezza e dal miraggio di favolose
fortune.
Carlo V era troppo impegnato in quegli anni nello scacchiere
europeo e mediterraneo per proporsi un programma di vere e proprie conquiste
del nuovo continente.
Molto limitate erano ancora le conoscenze che se ne avevano,
e la Corona spagnola poteva sentirsi paga dei carichi di oro e di argento
e del quinto che le era dovuto sulle merci trasportate, nonchè di
quelle misure di controllo e di sfruttamento delle risorse americane già
adottate sotto Ferdinando il Cattolico.
I territori americani, per tutto il regno di Carlo V,
restarono ai margini della sua politica: erano aree di sfruttamento, fornitrici
di oro e di argento per armare i suoi eserciti e le sue flotte nelle costose
guerre europee che egli conduceva per sostenere l’egemonia della Casa d’Asburgo.
La conquista del continente americano, quindi, fu opera
di gruppi di avventurieri che si mossero ed operarono anarchicamente alla
ricerca di metalli preziosi, la cui presenza, esigua nelle isole, era servita
da stimolo ad intraprendere spedizioni in tutte le direzioni verso la terraferma.
Prototipi di questa Spagna popolare e povera, che incontriamo
sulla via della conquista del nuovo continente, sono Fernando Cortez e
Francisco Pizarro.
Il Cortez aveva varcato l’oceano nel 1504, a 19 anni,
dopo aver abbandonato gli studi iniziati a Salamanca.
Si era segnalato per la sua audacia e per la sua abilità
nella conquista di Cuba nel 1511, combattendo alle dipendenze del vicegovernatore
dell’Hispanola, Diego Velasquez, che lo scelse poi per quidare la spedizione
verso la terraferma della penisola dello Yucatàn.
Partito da Cuba nel 1519, con 11 navi, 600 uomini e 10
cannoni, sbarcò là dove sorgerà poi Vera Cruz.
Di lì incominciò la lunga marcia che attraverso
varie vicende di audacie e di sangue, di inganni e di massacri, lo avrebe
portato a circa 400 chilometri dalla costa, sull’altopiano del Messico,
dominato dalla stirpe guerriera degli Aztechi.
Questi erano un popolo giunto dalle regioni settentrionali
intorno al XII secolo, che aveva sottomesso tutte le genti vicine ed aveva
dato vita ad una delle più fiorenti civiltà precolombiane,
come ci viene testimoniato dalle grandiose costruzioni di templi e di città
e dalla sua arte misteriosa e solenne.
A differenza dei selvaggi primitivi, incontrati nelle
isole delle Antille, gli Spagnoli si trovarono ora di fronte un popolo
governato da una monarchia, uno Stato organizzato in un sistema politico-militare
molto simile al feudalesimo europeo.
Il successo e la rapida conclusione della spedizione,
che nel giro di due anni, dal 1520 al 1522, distrusse un impero secolare,
furono dovuti all’abilità con cui il condottiero castigliano seppe
sfruttare le discordie esistnti tra le varie genti soggette agli Aztechi,
e all’alleanza che riuscì a realizzare con alcune di esse.
L’assedio della capitale, che sorgeva su una laguna ed
era collegata alla terraferma da grandiose dighe ed acquedotti, la distruzione
della flotta azteca, la chiusura delle vie di rifornimento consentirono
a Cortez di occupare la capitale, di uccidere l’ultimo imperatore Guatimozino
e di prendere possesso dell’impero in nome di Carlo V che, nel 1522, lo
nominò Capitano generale della Nuova Spagna: si trattava di un immenso
territorio molto più esteso della stessa madre patria, corrispondente
press’a poco all’attuale Messico.
Più importante e quasi leggendaria fu l’impresa
di Francisco Pizarro, un altro tipico esponente degli avventurieri spagnoli
del primo Cinquecento.
Nel 1528 Pizarro chiese all’imperatore Carlo V l’autorizzazione
a conquistare un territorio di 200 leghe nel Sud America.
La spedizione partì da Panama nel 1531.
Pizarro aveva con sè tre navi, 187 uomini e 37
cavalli.
Se Cortez si era allontanato dalla costa per circa 400
chilometri, Pizarro si inoltrò nel continente per circa 1500 chilometri
e giunse a duemila metri di altezza sulle Ande.
Anch’egli si imbattè in un popolo di antica civiltà,
quello dei Qetchua, che si era imposto alle altre popolazioni peruviane.
Il potere sia politico che religioso era detenuto da
una ristretta cerchia nobiliare, quella degli Inca (=re), che si proclamava
discendente del dio Sole.
Una rete stradale e perfino un servizio di posta, templi
monumentali e città fortificate distinguevano questa immensa regione,
che prestava agli occhi degli Spagnoli una ben strutturata organizzazione
statale a carattere feudale e un’economia agricola di tipo comunistico.
Le terre erano ripartite tra sacerdoti, Stato e tribù
locali, con grandi magazzini di ammasso dei prodotti per prevenire eventuali
carestie.
Anche Pizarro si avvalse dell’esperienza di Cortez e,
per il buon successo della spedizione, puntò sui dissensi e sui
contrasti tra le popolazioni insofferenti della dominazione Inca.
Egli potè in tal modo prendere prigioniero e poi
giustiziare il re Inca Atanualpa, marciare sulla capitale Cuzco, portando
a termine, nel 1533, la conquista del Perù con la fondazione di
Ciudad de los Reyes (Lima) in un luogo più vicino alla costa e diverso
da quello dell’antica capitale.
Messico e Perù costituirono altrettante basi per
le successive conquiste.
Come Cortez si era spinto a esplorare l’Honduras e la
regione della California, così Diego de Almagro, il compagno di
Pizarro, dopo aver partecipato all’occupazione del Perù, si spinse
anche se con scarso successo, verso il Cile, che sarà poi conquistato
da Pedro de Valdivia.
L’impresa di Pizarro rivelò giacimenti di metalli
preziosi di gran lunga più ricchi delle precedenti terre occupate,
ma fu anche seguita da sanguinose lotte civili tra gli stessi conquistadores.
Pizarro venne a conflitto con Diego de Almagro, lo fece
prigioniero e poi giustiziare; ma nel 1541 lo stesso Pizarro fu ucciso
da amici e seguaci di Almagro.
Per sfruttare le nuove terre furono instaurati ritmi
di lavoro inumani
Alla metà del secolo già quasi tutta la
parte centro-meridionale del continente era conquistata.
Gli Spagnoli si erano fissati là dove maggiormente
era concentrata la popolazione: sull’altopiano del Messico e nel territorio
delle Ande compreso nelle attuali repubbliche di Colombia, Equador, Bolivia
e Perù, cioè in quelle regioni dove erano insediate le società
più evolute degli Aztechi, dei Maya e degli Inca.
Le altre terre, le Pampas, pur ricche dal punto di vista
agricolo, ma con scarsi insediamenti umani e con società primitive
e selvagge, furono appena toccate e poi abbandonate tra molte difficoltà
e resistenze degli indigeni.
Le piste che seguivano i conquistadores erano quelle
dell’oro e dell’argento.
Generalmente l’insediamento spagnolo fu più facile
dove le società indigene erano già organizzate in una forma
statale; più difficile e lento dove vi erano società primitive
e selvagge, sparse nelle immense regioni dell’interno che, con una lunga
e tenace guerriglia, impedirono la penetrazione dei bianchi nelle loro
terre fino alle soglie del XX secolo.
La prima forma di organizzazione politico-amministrativa
della Nuova Spagna fu quella che le diedero gli stessi conquistadores.
Alle caste egemoni, guerriere, sacerdotali e nobiliari
degli Aztechi e degli Inca, si sostituirono i primi gruppi di coloni giunti
al seguito di Cortez e di Pizarro, che si divisero le tere con le relative
popolazioni sulla base di concessioni temporanee (repartimientos) ed ereditarie
(encomiendas).
Il sistema dell’encomienda fu la prima forma di organizzazione
introdotta nel Nuovo Mondo: vasti latifondi erano assegnati a concessionari
spagnoli, detti encomenderos, i quali avrebbero dovuto proteggere e convertire
alla fede cattolica gli indigeni, usufruendo, in cambio, del lavoro gratuito
e volontario nei campi e nelle miniere.
Alla concessione di terra era, quindi, legata una specie
di giurisdizione su tutti gli abitanti del latifondo; era un sistema che,
pur richiamandosi per certi aspetti al feudalesimo europeo, assumeva contenuti
nuovi, quali la volontà di convertire ed evangelizzare le popolazioni,
nonchè il progetto di sfruttare le terre, che era stato il principale
obiettivo e il miraggio della conquista.
Il sistema avrebbe dovuto contemperare le esigenze dell’amministrazione
civile e militare, quanto mai inadeguata rispetto a così vaste regioni,
con quelle proprie dei coloni e pionieri.
In linea di principio le concessioni non comportavano
la schiavitù delle popolazioni indigene, ma il sistema a poco a
poco e inevitabilmente degenerò sia per la scarsezza di manodopera
sia per la provvisorietà della concessione, per cui gli encomienderos
finirono col sottoporre gli Indios a ritmi di lavoro ai quali non erano
abituati.
Tra il 1540 e il 1610 la popolazione indigena, per le
malattie ed il lavoro disumano nei campi e nelle miniere, subì un
calo di circa due terzi.
Per la manodopera si dovette ricorrere, sin dai primi
anni del secolo e con un continuo ‘’crescendo’’, alla tratta dei neri,
cioè al trasferimento di schiavi, più resistenti alle fatiche,
dalle coste africane della Guinea, dando inizio così, ad una infamante
pagina della storia del colonialismo europeo.
All’amministrazione irregolare e provvisoria dei conquistadores
si sostituì man mano quella regolare dei funzioari statali, più
direttamente legati alle direttive del governo spagnolo, che considerò
le terre del Nuovo Mondo parte integrante dei possessi della Corona: il
governo riorganizzò il Consiglio dell’India; istituì due
vicereami rispettivamente con capitale Città del Messico e Lima,
con dipendenti governatori e capitani nelle province; introdusse, sin dal
1527, la prima Audiencia, una specie di organo supremo dell’amministrazione
giudiziaria e civile nella terra americana.
Con le Nuove Leggi del 1542, Carlo V diede all’impero
coloniale anche una prima raccolta di leggi con le quali furono sancite
precise norme a tutela degli indigeni, furono limitati i poteri e gli abusi
degli encomenderos, fu regolamentato il lavoro degli Indios e fu vietata,
infine, l’eredità dell’encomienda.
Fu questa la Magna Charta del colonialismo spagnolo sia
per ciò che concerne i principi etico giuridici ai quali si ispirava
e si ispirerà nel corso della sua lunga esistenza, sia per il tipo
di organizzazione politico-amministrativa.
Quelle leggi, però, provocarono la ribellione
degli encomenderos e conflitti con le autorità governative e resero
più difficile il tipo di controllo al quale erano ispirate, anche
per la diversa personalità ed il diverso prestigio dei vicerè.
Anche i missionari operarono spesso per difendere gli
Indios dai soprusi degli Spagnoli: in effetti le grandi scoperte geografiche,
la formazione dei primi grandi imperi coloniali dell’età moderna,
posero problemi nuovi non solo agli Stati più direttamente interessati
(Spagna e Portogallo), ma anche alla Chiesa, che come aveva sostenuto e
incoraggiato la ‘’reconquista’’ nella penisola iberica, così fu
particolarmente interessata ai problemi dell’espansione coloniale spagnola
sotto il profilo religioso, per l’evangelizzazione degli Indios.
Anzi, sin dai primordi, l’espansione coloniale era stata
concepita anche come espansione della cattolicità, come opera di
evangelizzazione delle nuove terre da realizzarsi attraverso una rinnovata
azione missionaria.
Conquistatori e missionari avrebbero dovuto procedere
di pari passo nella conquista materiale e spirituale; ed effettivamente
i missionari avevano seguito conquistadores ed encomenderos costruendo
chiese, monasteri, scuole ed ospedali; a diretto contatto con le popolazioni,
condividendone le sofferenze e le angustie, non limitavano la loro attività
alla sola assistenza religiosa, ma svolgevano a loro vantaggio una vera
e propria opera di civiltà, avviandole alla coltivazione dei campi
e all’allevamento del bestiame, a piccoli lavori artigianali.
Ben presto i missionari presero posizione contro i soprusi
degli Spagnoli ed assunsero apertamente la difesa degli Indios.
Il domenicano Antonio de Montesinos, in una predica tenuta
a San Diego il giorno di Natale del 1511, con coraggio contestò
ai suoi compatrioti il diritto di sottometere gli Indios.
La ripercussione e l’eco in Spagna fu tale che il re
fu costretto a convocare uno speciale Consiglio di teologi, canonisti e
giuristi a Burgos, l’anno successivo, per preparare un famoso documento,
il Requirimento, di cui i conquistadores dovevano dar lettura tutte le
volte che prendevano possesso di nuove terre.
In esso, insieme ai principi della dottrina cristiana,
erano spiegati i motivi etico-giuidici delle conquiste americane e si precisava
che il papa aveva assegnato al re di Spagna il compito di sottomettere
e di convertire le popolazioni.
La difesa degli indigeni dalla schiavitù cui erano
stati ridotti dagli encomenderos assunse, poi, toni aspramente polemici
nel domenicano Bartolomeo de Las Casas, autore della famosa Relazione della
distruzione degli Indios, che suscitò vivo interesse in Europa.
Per ben 14 volte varcò l’oceano per perorare la
causa che aveva fatto sua e per ottenere dal governo adeguati provvedimenti
legislativi, intesi a mitigare il regime di sfruttamento del lavoro indigeno
nelle colonie.
Alla foga e ala passione del Las Casas non corrisposero
però quei risultati che egli si riprometteva.
La lontananza dalla madrepatria, la vastità dell’impero
coloniale, la debolezza e la corruzione dei vicerè, gli interessi
immediati dei coloni spagnoli, impedirono che l’opera di colonizzazione
procedesse secondo quei principi etico-giuridici enunciati con particolare
vigore dal teologo F. De Vitoria in una serie di Lezioni tenute a Salamanca
nel 1539, secondo il quale la conquista poteva trovare la sua giustificazione
solo nella conversione e civilizzazione delle popolazioni indigene, con
il loro consenso e nella salvaguardia dei loro diritti naturali.
Di fondamentale importanza è il ruolo avuto dai
missionari, specialmente nella prima metà del secolo, nell’opera
di colonizzazione del Nuovo Mondo.
In seguito, il dissidio tra missionari ed encomienderos,
le gelosie e le gare tra gli altri Ordini religiosi sopraggiunti, il contrasto
con le autorità per la difesa assunta degli indigeni, l’accumulazione
di ricchezze dopo le prime prove di assoluta povertà e di predicazione
evangelica, rallentarono l’iniziale slancio missionario e
gettarono qualche zona d’ombra sulle innegabili benemerenze
acquisite nel dare un contenuto umano alla prima fase della colonizzazione
spagnola ed alla formazione della civiltà latino-americana.
Diversa sotto vari aspetti da quella spagnola fu l’espansione
coloniale portoghese.
Quando fu scoperta l’America, già da più
di mezzo secolo i Portogesi, sotto la guida della monarchia, avevano concentrato
i loro sforzi nella ricerca della Via delle Indie costeggiando l’Africa.
Il loro obiettivo era stato sempre il commercio con le
Indie per garantirsi il controllo delle spezie.
Nel 1494 il Portogallo aveva raggiunto un accordo con
la Spagna (trattato di Tordesillas), in base al quale al Portogallo erano
attribuiti i territori a Est del 47° meridiano, alla Spagna quelli
a Ovest.
Con questo accordo, il Portogallo aveva rinunciato ad
espandersi nell’Atlantico; però ad esso si aprirono, come abbiamo
già visto, le porte dell’oceano Indiano con prospettive nuove per
il colonialismo portoghese, che si caratterizzò per il monopolio
delle spezie e dei prodotti orientali, come quello spagnolo si caratterizzò
per il monopolio dei metalli preziosi.
Lisbona divenne il grande mercato internazionale delle
spezie, che si vendevano a un prezzo cinque volte inferiore a quello pagato
a Venezia, che fino allora aveva avuto il monopolio in Europa di tali ricercati
prodotti.
Ma l’espansionismo portoghese fu diverso da quello spagnolo
non solo per gli obiettivi, bensì anche per la formazioe, lo sviluppo
e l’organizzazione, secondo l’impronta che gli diede Francisco de Almeida
de Albuquerque.
Esso si era man mano sviluppato con l’occupazione di
scali e porti lungo la rotta per le Indie sulle coste occidentali dell’Africa
fino al Capo di Buona Speranza e su quelle dell’India fino a Goa, a Calicut
e, poi, a Macao (1530).
Nel 1500 Pedro Alvares Cabral aveva toccato e scoperto
il Brasile.
Ne aveva preso possesso in nome del re del Portogallo;
ma, quasi si fosse trattato di un’involontaria deviazione della Via delle
Indie, la nuova terra non aveva destato molto interesse.
L’insediamento lungo le coste fu lento e per quasi mezzo
secolo servì solo come punto di appoggio per le navi nella rotta
verso l’Oriente.
Francisco De Almeida, che fu il primo vicerè dello
Stato dell’India orientale dal 1505 al 1509, puntava alla supremazia marittima,
sull’allestimento di grandi flotte, per difendere il monopolio delle spezie
e per tenere lontano dai mercati orientali gli Arabi e i Persiani attraverso
i quali si rifornivano i Veneziani.
Non fu, quindi, una politica di conquiste territoriali,
ma di penetrazione commerciale, che assicurava i maggiori vantaggi possibili
con quelle poche forze di cui poteva disporre uno Stato, come quello ,
portoghese, di poco più di due milioni di abitanti.
Alla prudente politica del de Almeida, sostanzialmente
legata alla tradizionale linea di sviluppo dell’espansionismo coloniale
portoghese, affidato più all’abilità e all’audacia di grandi
navigatori e mercanti che a veri e propri conquistatori, si contrappose
quella di Alfonso de Albuquerque, governatore delle Indie Orientali dal
1509 al 1515, considerato il vero fondatore delle fortune coloniali portoghesi.
L’Albuquerque non voleva semplici basi commerciali, ma
vere e proprie basi fortificate, con la colonizzazione dei territori circostanto
là dove era possibile e con tutta una rete di protettorati politici
là dove la colonizzazione era difficile.
Il suo era un programma di conquiste, di colonizzazione
oltre che di penetrazione commerciale, ma era anche di difficile realizzazione
a causa delle scarse disponibilità, di uomini e di mezzi, offerte
da un piccolo Stato come il Portogallo.
Megalomane fu definita la politica dell’Albuquerque,
nonostante i suoi meriti di fondatore dell’impero coloniale portoghese,
al quale diede l’impronta che poi conservò a lungo.
Con la conquista del Brasile anche i Portoghesi iniziano
lo sfruttamento della manodopera
Già nella seconda metà del secolo XVI,
sia per la ripresa offensiva degli Arabi e dei Persiani, sia per il contrabbando
delle spezie attraverso il mar Rosso, si può dire che incominci
la lenta decadenza dei capisaldi portoghesi nell’oceano Indiano, cui fa
quasi da contrappeso la ripresa ed il rafforzamento del dominio portoghese
sulle coste occidentali dell’Africa e nel Brasile.
Sembrerebbe quasi un’inversione di tendenza, da un colonialismo
di tipo commerciale e mediterraneo ad un colonialismo di conquista territoriale,
di popolamento e di sfruttamento delle risorse agricole, se non ritrovassimo
in seguito compresenti i due orientamenti: il primo adottato per l’Asia
e l’Africa, il secondo per il Brasile.
Nel 1531 una spedizione occupò le coste brasiliane,
sorsero i centri di Bahia e di Pernambuco, ebbe inizio la colonizzazione
agricola in larghe zone che rivelarono le ricchezze di quell’immenso territorio
(piantagioni di canna da zucchero e di cotone), accanto a quella che gli
aveva dato il nome: i boschi di legname colorante, il Brazil.
Inizialmente fu esteso a queste nuove terre il sistema
politico-amministrativo dele donatàrie o capitànias, già
sperimentato nelle Azzorre e nei primi paesi toccati dai navigatori portoghesi.
Le coste furono divise in 12 provincie o capitànias,
con a capo un governatore di nomina regia e con una certa autonomia rispetto
al governo centrale.
Il re, mentre aveva instaurato nelle colonie dell’Oriente
il monopolio diretto sulle spezie, introdusse nelle terre americane un
monopolio indiretto, con larghe concessioni a commercianti e coloni, ma
riservandosi il quinto dei metali preziosi e facendosi pagare quote varie
da parte dei concessionari di piantagioni e del commercio del legname colorante,
le uniche effettive risorse brasiliane.
Il sistema delle donatàrie non diede buoni risultati.
Il contrabbando e il concesso diritto d’asilo popolarono
ben presto le coste di pirati e di delinquenti, sì che, a partire
dal 1548, la monarchia assunse l’amministrazione diretta della colonia
con l’instaurazione di un governatore generale, che procedette man mano
alla conquista delle zone costiere e alla penetrazione nell’interno.
Anche qui, come del resto abbiamo visto nei territori
spagnoli, il problema della manodopera divenne fondamentale.
Inizialmente per il lavoro nelle piantagioni si usarono
gli indigeni, che furono trattati con una certa umanità, ma poi
si ricorse alla manodopera negra e alla tratta degli schiavi.