Le conquiste Spagnole  
 
 
La scoperta dell’America

Nel 1492 Cristoforo Colombo, finanziato dalla corona spagnola, giunge con tre caravelle a toccare le coste di un nuovo mondo.
Egli credeva tuttavia di essere approdato nelle Indie.
Soltanto qualche anno più tardi altri navigatori comprenderanno l’entità della scoperta.
Quella terra sarà chiamata America per ricordare un altro grande navigatore italiano, Amerigo Vespucci.
Dopo qualche decennio la nuova terra comincerà a dare i suoi frutti agli scopritori: oro, argento, nuovi alimenti (patate, pomodori, mais, caffè, cacao ecc.), legno pregiato verranno esportati verso l’Europa.
Ad approfittare di questo commercio saranno Spagna, finanziatrice del viaggio di Colombo, e Portogallo, che da tempo cercava una nuova strada per raggiungere i porti indiani.
 

La politica espansionistica della Spagna di Carlo V

La Spagna, dopo aver consolidato lo stato monarchico nel XV secolo, si affaccia da protagonista sul palcoscenico della politica europea entrando in conflitto con la Francia per il dominio sugli Stati italiani.
Dopo aver ottenuto la corona di Spagna e quella più importante di imperatore, Carlo V d’Asburgo si trova ad essere padrone di mezza Europa (Spagna, Austria, Paesi Bassi e Italia) ma in perenne conflitto con l’altra metà.
Questa situazione lo obbliga a intraprendere guerre costosissime finanziate da banchieri tedeschi e italiani, che egli ripaga con i metalli preziosi provenienti dalle sue colonie americane.
 

Politica coloniale portoghese

Già alla metà del Quattrocento il sovrano portoghese Enrico il Navigatore aveva l’ambizione di scoprire nuove vie commerciali verso l’India, che gli permettessero di evitare le rotte mediterranee dominate dai Veneziani e ormai controllate anche dalla potenza turca ostile all’Occidente cristiano.
Per questo aveva fondato una scuola di navigazione.
Anche dopo la scoperta dell’America, i Portoghesi continuarono la loro ricerca circumnavigando l’Africa e giungendo in India da Sud. Ci riesce Vasco de Gama nel 1497 ma non per questo i Portoghesi rinunciano a colonizzare i territori americani che il trattato di Tordesillas del 1494 ha loro assegnato.

Le colonie spagnole

La conquista del continente americano fu opera di gruppi di avventurieri
Intorno al 1522, con il viaggio di circumnavigazione di Magellano intorno al globo, si poteva dire conclusa l’epoca delle grandi scoperte geografiche e si apriva quella della conquista territoriale del Nuovo Mondo.
I primi nuclei dell’impero coloniale spagnolo furono le Antille e alcune terre nel mar dei Caraibi (l’Hispanola e Cuba).
La monarchia spagnola si era limitata a prendere atto di tali conquiste, ad istituire la Casa de Contrataciòn, a Siviglia (1503), col compito di regolare e monopolizzare in nome della corona, tutto il commercio da e per l’America, e ad affidare al Consiglio dell’India (1511) il disbrigo degli affari d’oltreoceano.
L’espansione del primo nucleo di possedimenti spagnoli in America incominciò sotto Carlo V e coincise pressapoco con il suo regno.
Essa partì dalle basi delle Antille, si diresse sia verso la penisola dello Yucatàn che verso Sud, in direzione dell’attuale Venezuela e del Perù; si compì in un periodo relativamente breve, in circa mezzo secolo, ad opera dei conquistadores, avventurieri audaci e senza scrupoli, appartenenti a diversi ceti sociali, spinti nelle nuove terre da sete di ricchezza e dal miraggio di favolose fortune.
Carlo V era troppo impegnato in quegli anni nello scacchiere europeo e mediterraneo per proporsi un programma di vere e proprie conquiste del nuovo continente.
Molto limitate erano ancora le conoscenze che se ne avevano, e la Corona spagnola poteva sentirsi paga dei carichi di oro e di argento e del quinto che le era dovuto sulle merci trasportate, nonchè di quelle misure di controllo e di sfruttamento delle risorse americane già adottate sotto Ferdinando il Cattolico.
I territori americani, per tutto il regno di Carlo V, restarono ai margini della sua politica: erano aree di sfruttamento, fornitrici di oro e di argento per armare i suoi eserciti e le sue flotte nelle costose guerre europee che egli conduceva per sostenere l’egemonia della Casa d’Asburgo.
La conquista del continente americano, quindi, fu opera di gruppi di avventurieri che si mossero ed operarono anarchicamente alla ricerca di metalli preziosi, la cui presenza, esigua nelle isole, era servita da stimolo ad intraprendere spedizioni in tutte le direzioni verso la terraferma.
 

I conquistadores gettano le basi dell’impero coloniale spagnolo

Prototipi di questa Spagna popolare e povera, che incontriamo sulla via della conquista del nuovo continente, sono Fernando Cortez e Francisco Pizarro.
Il Cortez aveva varcato l’oceano nel 1504, a 19 anni, dopo aver abbandonato gli studi iniziati a Salamanca.
Si era segnalato per la sua audacia e per la sua abilità nella conquista di Cuba nel 1511, combattendo alle dipendenze del vicegovernatore dell’Hispanola, Diego Velasquez, che lo scelse poi per quidare la spedizione verso la terraferma della penisola dello Yucatàn.
Partito da Cuba nel 1519, con 11 navi, 600 uomini e 10 cannoni, sbarcò là dove sorgerà poi Vera Cruz.
Di lì incominciò la lunga marcia che attraverso varie vicende di audacie e di sangue, di inganni e di massacri, lo avrebe portato a circa 400 chilometri dalla costa, sull’altopiano del Messico, dominato dalla stirpe guerriera degli Aztechi.
Questi erano un popolo giunto dalle regioni settentrionali intorno al XII secolo, che aveva sottomesso tutte le genti vicine ed aveva dato vita ad una delle più fiorenti civiltà precolombiane, come ci viene testimoniato dalle grandiose costruzioni di templi e di città e dalla sua arte misteriosa e solenne.
A differenza dei selvaggi primitivi, incontrati nelle isole delle Antille, gli Spagnoli si trovarono ora di fronte un popolo governato da una monarchia, uno Stato organizzato in un sistema politico-militare molto simile al feudalesimo europeo.
Il successo e la rapida conclusione della spedizione, che nel giro di due anni, dal 1520 al 1522, distrusse un impero secolare, furono dovuti all’abilità con cui il condottiero castigliano seppe sfruttare le discordie esistnti tra le varie genti soggette agli Aztechi, e all’alleanza che riuscì a realizzare con alcune di esse.
L’assedio della capitale, che sorgeva su una laguna ed era collegata alla terraferma da grandiose dighe ed acquedotti, la distruzione della flotta azteca, la chiusura delle vie di rifornimento consentirono a Cortez di occupare la capitale, di uccidere l’ultimo imperatore Guatimozino e di prendere possesso dell’impero in nome di Carlo V che, nel 1522, lo nominò Capitano generale della Nuova Spagna: si trattava di un immenso territorio molto più esteso della stessa madre patria, corrispondente press’a poco all’attuale Messico.
Più importante e quasi leggendaria fu l’impresa di Francisco Pizarro, un altro tipico esponente degli avventurieri spagnoli del primo Cinquecento.
Nel 1528 Pizarro chiese all’imperatore Carlo V l’autorizzazione a conquistare un territorio di 200 leghe nel Sud America.
La spedizione partì da Panama nel 1531.
Pizarro aveva con sè tre navi, 187 uomini e 37 cavalli.
Se Cortez si era allontanato dalla costa per circa 400 chilometri, Pizarro si inoltrò nel continente per circa 1500 chilometri e giunse a duemila metri di altezza sulle Ande.
Anch’egli si imbattè in un popolo di antica civiltà, quello dei Qetchua, che si era imposto alle altre popolazioni peruviane.
Il potere sia politico che religioso era detenuto da una ristretta cerchia nobiliare, quella degli Inca (=re), che si proclamava discendente del dio Sole.
Una rete stradale e perfino un servizio di posta, templi monumentali e città fortificate distinguevano questa immensa regione, che prestava agli occhi degli Spagnoli una ben strutturata organizzazione statale a carattere feudale e un’economia agricola di tipo comunistico.
Le terre erano ripartite tra sacerdoti, Stato e tribù locali, con grandi magazzini di ammasso dei prodotti per prevenire eventuali carestie.
Anche Pizarro si avvalse dell’esperienza di Cortez e, per il buon successo della spedizione, puntò sui dissensi e sui contrasti tra le popolazioni insofferenti della dominazione Inca.
Egli potè in tal modo prendere prigioniero e poi giustiziare il re Inca Atanualpa, marciare sulla capitale Cuzco, portando a termine, nel 1533, la conquista del Perù con la fondazione di Ciudad de los Reyes (Lima) in un luogo più vicino alla costa e diverso da quello dell’antica capitale.
Messico e Perù costituirono altrettante basi per le successive conquiste.
Come Cortez si era spinto a esplorare l’Honduras e la regione della California, così Diego de Almagro, il compagno di Pizarro, dopo aver partecipato all’occupazione del Perù, si spinse anche se con scarso successo, verso il Cile, che sarà poi conquistato da Pedro de Valdivia.
L’impresa di Pizarro rivelò giacimenti di metalli preziosi di gran lunga più ricchi delle precedenti terre occupate, ma fu anche seguita da sanguinose lotte civili tra gli stessi conquistadores.
Pizarro venne a conflitto con Diego de Almagro, lo fece prigioniero e poi giustiziare; ma nel 1541 lo stesso Pizarro fu ucciso da amici e seguaci di Almagro.
Per sfruttare le nuove terre furono instaurati ritmi di lavoro inumani
Alla metà del secolo già quasi tutta la parte centro-meridionale del continente era conquistata.
Gli Spagnoli si erano fissati là dove maggiormente era concentrata la popolazione: sull’altopiano del Messico e nel territorio delle Ande compreso nelle attuali repubbliche di Colombia, Equador, Bolivia e Perù, cioè in quelle regioni dove erano insediate le società più evolute degli Aztechi, dei Maya e degli Inca.
Le altre terre, le Pampas, pur ricche dal punto di vista agricolo, ma con scarsi insediamenti umani e con società primitive e selvagge, furono appena toccate e poi abbandonate tra molte difficoltà e resistenze degli indigeni.
Le piste che seguivano i conquistadores erano quelle dell’oro e dell’argento.
Generalmente l’insediamento spagnolo fu più facile dove le società indigene erano già organizzate in una forma statale; più difficile e lento dove vi erano società primitive e selvagge, sparse nelle immense regioni dell’interno che, con una lunga e tenace guerriglia, impedirono la penetrazione dei bianchi nelle loro terre fino alle soglie del XX secolo.
La prima forma di organizzazione politico-amministrativa della Nuova Spagna fu quella che le diedero gli stessi conquistadores.
Alle caste egemoni, guerriere, sacerdotali e nobiliari degli Aztechi e degli Inca, si sostituirono i primi gruppi di coloni giunti al seguito di Cortez e di Pizarro, che si divisero le tere con le relative popolazioni sulla base di concessioni temporanee (repartimientos) ed ereditarie (encomiendas).
Il sistema dell’encomienda fu la prima forma di organizzazione introdotta nel Nuovo Mondo: vasti latifondi erano assegnati a concessionari spagnoli, detti encomenderos, i quali avrebbero dovuto proteggere e convertire alla fede cattolica gli indigeni, usufruendo, in cambio, del lavoro gratuito e volontario nei campi e nelle miniere.
Alla concessione di terra era, quindi, legata una specie di giurisdizione su tutti gli abitanti del latifondo; era un sistema che, pur richiamandosi per certi aspetti al feudalesimo europeo, assumeva contenuti nuovi, quali la volontà di convertire ed evangelizzare le popolazioni, nonchè il progetto di sfruttare le terre, che era stato il principale obiettivo e il miraggio della conquista.
Il sistema avrebbe dovuto contemperare le esigenze dell’amministrazione civile e militare, quanto mai inadeguata rispetto a così vaste regioni, con quelle proprie dei coloni e pionieri.
In linea di principio le concessioni non comportavano la schiavitù delle popolazioni indigene, ma il sistema a poco a poco e inevitabilmente degenerò sia per la scarsezza di manodopera sia per la provvisorietà della concessione, per cui gli encomienderos finirono col sottoporre gli Indios a ritmi di lavoro ai quali non erano abituati.
Tra il 1540 e il 1610 la popolazione indigena, per le malattie ed il lavoro disumano nei campi e nelle miniere, subì un calo di circa due terzi.
Per la manodopera si dovette ricorrere, sin dai primi anni del secolo e con un continuo ‘’crescendo’’, alla tratta dei neri, cioè al trasferimento di schiavi, più resistenti alle fatiche, dalle coste africane della Guinea, dando inizio così, ad una infamante pagina della storia del colonialismo europeo.
 

Carlo V e i missionari tentano di mitigare le brutali forme di sfruttamento

All’amministrazione irregolare e provvisoria dei conquistadores si sostituì man mano quella regolare dei funzioari statali, più direttamente legati alle direttive del governo spagnolo, che considerò le terre del Nuovo Mondo parte integrante dei possessi della Corona: il governo riorganizzò il Consiglio dell’India; istituì due vicereami rispettivamente con capitale Città del Messico e Lima, con dipendenti governatori e capitani nelle province; introdusse, sin dal 1527, la prima Audiencia, una specie di organo supremo dell’amministrazione giudiziaria e civile nella terra americana.
Con le Nuove Leggi del 1542, Carlo V diede all’impero coloniale anche una prima raccolta di leggi con le quali furono sancite precise norme a tutela degli indigeni, furono limitati i poteri e gli abusi degli encomenderos, fu regolamentato il lavoro degli Indios e fu vietata, infine, l’eredità dell’encomienda.
Fu questa la Magna Charta del colonialismo spagnolo sia per ciò che concerne i principi etico giuridici ai quali si ispirava e si ispirerà nel corso della sua lunga esistenza, sia per il tipo di organizzazione politico-amministrativa.
Quelle leggi, però, provocarono la ribellione degli encomenderos e conflitti con le autorità governative e resero più difficile il tipo di controllo al quale erano ispirate, anche per la diversa personalità ed il diverso prestigio dei vicerè.
Anche i missionari operarono spesso per difendere gli Indios dai soprusi degli Spagnoli: in effetti le grandi scoperte geografiche, la formazione dei primi grandi imperi coloniali dell’età moderna, posero problemi nuovi non solo agli Stati più direttamente interessati (Spagna e Portogallo), ma anche alla Chiesa, che come aveva sostenuto e incoraggiato la ‘’reconquista’’ nella penisola iberica, così fu particolarmente interessata ai problemi dell’espansione coloniale spagnola sotto il profilo religioso, per l’evangelizzazione degli Indios.
Anzi, sin dai primordi, l’espansione coloniale era stata concepita anche come espansione della cattolicità, come opera di evangelizzazione delle nuove terre da realizzarsi attraverso una rinnovata azione missionaria.
Conquistatori e missionari avrebbero dovuto procedere di pari passo nella conquista materiale e spirituale; ed effettivamente i missionari avevano seguito conquistadores ed encomenderos costruendo chiese, monasteri, scuole ed ospedali; a diretto contatto con le popolazioni, condividendone le sofferenze e le angustie, non limitavano la loro attività alla sola assistenza religiosa, ma svolgevano a loro vantaggio una vera e propria opera di civiltà, avviandole alla coltivazione dei campi e all’allevamento del bestiame, a piccoli lavori artigianali.
Ben presto i missionari presero posizione contro i soprusi degli Spagnoli ed assunsero apertamente la difesa degli Indios.
Il domenicano Antonio de Montesinos, in una predica tenuta a San Diego il giorno di Natale del 1511, con coraggio contestò ai suoi compatrioti il diritto di sottometere gli Indios.
La ripercussione e l’eco in Spagna fu tale che il re fu costretto a convocare uno speciale Consiglio di teologi, canonisti e giuristi a Burgos, l’anno successivo, per preparare un famoso documento, il Requirimento, di cui i conquistadores dovevano dar lettura tutte le volte che prendevano possesso di nuove terre.
In esso, insieme ai principi della dottrina cristiana, erano spiegati i motivi etico-giuidici delle conquiste americane e si precisava che il papa aveva assegnato al re di Spagna il compito di sottomettere e di convertire le popolazioni.
La difesa degli indigeni dalla schiavitù cui erano stati ridotti dagli encomenderos assunse, poi, toni aspramente polemici nel domenicano Bartolomeo de Las Casas, autore della famosa Relazione della distruzione degli Indios, che suscitò vivo interesse in Europa.
Per ben 14 volte varcò l’oceano per perorare la causa che aveva fatto sua e per ottenere dal governo adeguati provvedimenti legislativi, intesi a mitigare il regime di sfruttamento del lavoro indigeno nelle colonie.
Alla foga e ala passione del Las Casas non corrisposero però quei risultati che egli si riprometteva.
La lontananza dalla madrepatria, la vastità dell’impero coloniale, la debolezza e la corruzione dei vicerè, gli interessi immediati dei coloni spagnoli, impedirono che l’opera di colonizzazione procedesse secondo quei principi etico-giuridici enunciati con particolare vigore dal teologo F. De Vitoria in una serie di Lezioni tenute a Salamanca nel 1539, secondo il quale la conquista poteva trovare la sua giustificazione solo nella conversione e civilizzazione delle popolazioni indigene, con il loro consenso e nella salvaguardia dei loro diritti naturali.
Di fondamentale importanza è il ruolo avuto dai missionari, specialmente nella prima metà del secolo, nell’opera di colonizzazione del Nuovo Mondo.
In seguito, il dissidio tra missionari ed encomienderos, le gelosie e le gare tra gli altri Ordini religiosi sopraggiunti, il contrasto con le autorità per la difesa assunta degli indigeni, l’accumulazione di ricchezze dopo le prime prove di assoluta povertà e di predicazione evangelica, rallentarono l’iniziale slancio missionario e
gettarono qualche zona d’ombra sulle innegabili benemerenze acquisite nel dare un contenuto umano alla prima fase della colonizzazione spagnola ed alla formazione della civiltà latino-americana.
 

I commerci e la rivoluzione dei prezzi
Più solido e più duraturo che non il rapporto sul piano politico-amministrativo, fu quello che si instaurò tra la Spagna e il Nuovo Mondo sul piano economico attraverso un rigido monopolio commerciale.
Tutto il traffico passava per la Casa de Contratciòn di Siviglia e per il suo porto (in seguito fu aggiunto anche quello di Cadice).
Dal 1503 la Casa assunse il pieno e assoluto controllo di tutte le merci, riscuotendo il quinto dovuto alla Corona e ricevendo per conto della stessa i metalli preziosi che furono certamente la parte più rilevante del traffico.
Siviglia divenne un centro attivissimo di mercati e di capitalisti tedeschi e genovesi per l’allestimento delle navi destinate ai viaggi transoceanici e per l’acquisto di tutti quei prodotti richiesti dai coloni americani: dalle armi ai tessuti, dal vino all’olio, dagli utensili vari agli schiavi per il lavoro nelle piantagioni e nelle miniere.
La Spagna, da sola, non poteva far fronte a tali richieste di prodotti europei da parte delle colonie, il monopolio provocò inevitabilmente il contrabbando, che fu praticato largamente prima dai Portoghesi, poi da Inglesi, Francesi e Olandesi.
Spesso accadeva anche che le navi spagnole venissero assalite dai pirati.
Per difendere da tali attacchi il commercio atlantico, a partire dal 1560 fu introdotto il sistema dei convogli.
Ogni anno due flotte, di circa 50 navi ciascuna, attraversavano insieme l’Atlantico, scortate da galeoni armati, facendo capo l’una a Porto Bello, sull’istmo di Panama, l’altra a Vera Cruz nel Messico.
Caricate le merci, rispettivamente provenienti dal Perù e dal Pacifico, le due flotte si ricongiungevano e riprendevano insieme la via del ritorno.
Ma nel commercio tra la Spagna e il Nuovo Mondo furono i metalli preziosi, dopo il terzo decennio del secolo XVI, ad assumere un rilievo sempre maggiore, specialmente dopo il rinvenimento delle ricche miniere d’argento del Perù che, insieme a quelle del Messico, giunsero a fornire ogni anno fino a 300’000 chili di argento.
Considerevoli, ma inferiori a quelli di argento, furono anche i quantitativi di oro.
Tale continuo flusso di oro e di argento americano non si arrestava, però, nei capaci forzieri di Carlo V, ma era impegnato nelle costose guerre di predominio che la Casa d’Asburgo combatteva in Italia e in Europa e si disperdeva in numerosi rivoli in tutti quei paesi direttamente o indirettamente legati alla politica e all’economia spagnola.
Una così lunga e logorante lotta da parte di Carlo V per l’egemonia in Europa non sarebbe stata possibile senza il sostegno dell’oro americano, che ebbe ripercussioni e conseguenze tali da sconvolgere l’economia e la finanza europee, da determinare quella che gli storici chiamano la rivoluzione dei prezzi.
L’afflusso di metalli preziosi provoca non solo una normale alterazione del valore della moneta (inflazione), come del resto si era verificato spesso nel passato in varie congiunture economiche (carestie ecc.), ma una vera e propri ‘’rivoluzione’’, tanto più incomprensibile ai contemporanei, che ritenevano fosse provocata da quelle medesime cause che nel passato avevano inciso sul fenomeno.
Sfuggiva loro il legame tra l’arrivo dell’oro americano e l’aumento dei prezzi.
Solo J. Bodin, in Francia, colse questo rapporto che aveva portato a una crescente svalutazione della moneta con conseguente aumento dei prezzi non solamente in Spagna e nei paesi della corona d’Asburgo, ma anche in tutti quelli che fornivano materie prime e manufatti o prestavano denaro all’impero spagnolo, ricevendone in cambio oro.
Le conseguenze di tale fenomeno toccarono tutti i settori dell’economia e della società europea, partendo dalla Spagna che rappresentava la prima ruota dell’ingranaggio inflazionistico; le subirono sia i poveri che i ricchi, sia i privati che gli Stati.
I più colpiti furono i ceti che vivevano a reddito fisso: i salariati, che si videro retribuiti con moneta che aveva perduto il suo potere d’acquisto e con salari falcidiati dall’aumento dei prezzi; quanti vivevano di rendita e ricevevano canoni in denaro.
Si salvarono o, per lo meno, riuscirono a fronteggiare l’aumento dei prezzi, i signori e proprietari terrieri, mentre il massiccio aumento del capitale mobiliare e della circolazione monetaria giovò agli imprenditori, che allargarono il vlume del commercio e si gettarono in nuove attività industriali e speculative che determinarono notevoli spostamenti di fortune.
Il possesso di terre con canoni in natura era l’unico bene al riparo dalle tempeste della crisi e molti mercanti e banchieri non disdegnavano di investire i loro capitali nell’acquisto di terre o di feudi di nobili indebitati o travolti dal vertiginoso aumento dei prezzi.
Tutto il precedente ordine economico e sociale venne ad essere profondamente alterato: ne risultò impoverito il proletariato della città e delle campagne; indebolita la nobiltà dai debiti e dallacontrazione della rendita; ringiovanita la categoria degli imprenditori, che creò le premesse per l’affermazione di un nuovo ceto sociale, la borghesia, che nell’età moderna si inserì accanto all’antica nobiltà, e si preparò alla sua ascesa anche politica alla fine del secolo XVIII.
L’impero coloniale portoghese si caratterizzò per il monopolio delle spezie e dei prodotti orientali

Diversa sotto vari aspetti da quella spagnola fu l’espansione coloniale portoghese.
Quando fu scoperta l’America, già da più di mezzo secolo i Portogesi, sotto la guida della monarchia, avevano concentrato i loro sforzi nella ricerca della Via delle Indie costeggiando l’Africa.
Il loro obiettivo era stato sempre il commercio con le Indie per garantirsi il controllo delle spezie.
Nel 1494 il Portogallo aveva raggiunto un accordo con la Spagna (trattato di Tordesillas), in base al quale al Portogallo erano attribuiti i territori a Est del 47° meridiano, alla Spagna quelli a Ovest.
Con questo accordo, il Portogallo aveva rinunciato ad espandersi nell’Atlantico; però ad esso si aprirono, come abbiamo già visto, le porte dell’oceano Indiano con prospettive nuove per il colonialismo portoghese, che si caratterizzò per il monopolio delle spezie e dei prodotti orientali, come quello spagnolo si caratterizzò per il monopolio dei metalli preziosi.
Lisbona divenne il grande mercato internazionale delle spezie, che si vendevano a un prezzo cinque volte inferiore a quello pagato a Venezia, che fino allora aveva avuto il monopolio in Europa di tali ricercati prodotti.
Ma l’espansionismo portoghese fu diverso da quello spagnolo non solo per gli obiettivi, bensì anche per la formazioe, lo sviluppo e l’organizzazione, secondo l’impronta che gli diede Francisco de Almeida de Albuquerque.
Esso si era man mano sviluppato con l’occupazione di scali e porti lungo la rotta per le Indie sulle coste occidentali dell’Africa fino al Capo di Buona Speranza e su quelle dell’India fino a Goa, a Calicut e, poi, a Macao (1530).
Nel 1500 Pedro Alvares Cabral aveva toccato e scoperto il Brasile.
Ne aveva preso possesso in nome del re del Portogallo; ma, quasi si fosse trattato di un’involontaria deviazione della Via delle Indie, la nuova terra non aveva destato molto interesse.
L’insediamento lungo le coste fu lento e per quasi mezzo secolo servì solo come punto di appoggio per le navi nella rotta verso l’Oriente.
Francisco De Almeida, che fu il primo vicerè dello Stato dell’India orientale dal 1505 al 1509, puntava alla supremazia marittima, sull’allestimento di grandi flotte, per difendere il monopolio delle spezie e per tenere lontano dai mercati orientali gli Arabi e i Persiani attraverso i quali si rifornivano i Veneziani.
Non fu, quindi, una politica di conquiste territoriali, ma di penetrazione commerciale, che assicurava i maggiori vantaggi possibili con quelle poche forze di cui poteva disporre uno Stato, come quello , portoghese, di poco più di due milioni di abitanti.
Alla prudente politica del de Almeida, sostanzialmente legata alla tradizionale linea di sviluppo dell’espansionismo coloniale portoghese, affidato più all’abilità e all’audacia di grandi navigatori e mercanti che a veri e propri conquistatori, si contrappose quella di Alfonso de Albuquerque, governatore delle Indie Orientali dal 1509 al 1515, considerato il vero fondatore delle fortune coloniali portoghesi.
L’Albuquerque non voleva semplici basi commerciali, ma vere e proprie basi fortificate, con la colonizzazione dei territori circostanto là dove era possibile e con tutta una rete di protettorati politici là dove la colonizzazione era difficile.
Il suo era un programma di conquiste, di colonizzazione oltre che di penetrazione commerciale, ma era anche di difficile realizzazione a causa delle scarse disponibilità, di uomini e di mezzi, offerte da un piccolo Stato come il Portogallo.
Megalomane fu definita la politica dell’Albuquerque, nonostante i suoi meriti di fondatore dell’impero coloniale portoghese, al quale diede l’impronta che poi conservò a lungo.
Con la conquista del Brasile anche i Portoghesi iniziano lo sfruttamento della manodopera
Già nella seconda metà del secolo XVI, sia per la ripresa offensiva degli Arabi e dei Persiani, sia per il contrabbando delle spezie attraverso il mar Rosso, si può dire che incominci la lenta decadenza dei capisaldi portoghesi nell’oceano Indiano, cui fa quasi da contrappeso la ripresa ed il rafforzamento del dominio portoghese sulle coste occidentali dell’Africa e nel Brasile.
Sembrerebbe quasi un’inversione di tendenza, da un colonialismo di tipo commerciale e mediterraneo ad un colonialismo di conquista territoriale, di popolamento e di sfruttamento delle risorse agricole, se non ritrovassimo in seguito compresenti i due orientamenti: il primo adottato per l’Asia e l’Africa, il secondo per il Brasile.
Nel 1531 una spedizione occupò le coste brasiliane, sorsero i centri di Bahia e di Pernambuco, ebbe inizio la colonizzazione agricola in larghe zone che rivelarono le ricchezze di quell’immenso territorio (piantagioni di canna da zucchero e di cotone), accanto a quella che gli aveva dato il nome: i boschi di legname colorante, il Brazil.
Inizialmente fu esteso a queste nuove terre il sistema politico-amministrativo dele donatàrie o capitànias, già sperimentato nelle Azzorre e nei primi paesi toccati dai navigatori portoghesi.
Le coste furono divise in 12 provincie o capitànias, con a capo un governatore di nomina regia e con una certa autonomia rispetto al governo centrale.
Il re, mentre aveva instaurato nelle colonie dell’Oriente il monopolio diretto sulle spezie, introdusse nelle terre americane un monopolio indiretto, con larghe concessioni a commercianti e coloni, ma riservandosi il quinto dei metali preziosi e facendosi pagare quote varie da parte dei concessionari di piantagioni e del commercio del legname colorante, le uniche effettive risorse brasiliane.
Il sistema delle donatàrie non diede buoni risultati.
Il contrabbando e il concesso diritto d’asilo popolarono ben presto le coste di pirati e di delinquenti, sì che, a partire dal 1548, la monarchia assunse l’amministrazione diretta della colonia con l’instaurazione di un governatore generale, che procedette man mano alla conquista delle zone costiere e alla penetrazione nell’interno.
Anche qui, come del resto abbiamo visto nei territori spagnoli, il problema della manodopera divenne fondamentale.
Inizialmente per il lavoro nelle piantagioni si usarono gli indigeni, che furono trattati con una certa umanità, ma poi si ricorse alla manodopera negra e alla tratta degli schiavi.