Tra il XV e il XVI secolo, l’angolo della storia si apre
a 360 gradi. Per gli Europei che affrontano il mare, si alza il sipario
su uno spettacolo inedito, affascinante e ricco di sorprese. La maggiore
è certamente quella di imbattersi in regioni e popoli nuovi. La
rotondità della Terra era una concezione già da tempo acquisita,
e numerosi scienziati avevano avanzato l’ipotesi che al di là dell’Atlantico,
navigando sempre a Occidente, si sarebbero incontrate le Indie. A che distanze
dalle coste spagnole o portoghesi? Per il filosofo latino Seneca (I secolo
d.C.), ad esempio, << con vento a favore, soltanto pochi giorni di
navigazione.
Ai tempi di Colombo, comunque, dettava legge l’opinione
di un altro grande scienziato: l’egizio Tolomeo (I-II secolo d.C.). Secondo
i suoi calcoli, la circonferenza della Terra si sarebbe aggirata intorno
ai 30.000 chilometri: una cifra un po’ lontana dal vero, ma incoraggiante
per chi si accingeva a compiere la grande impresa di raggiungere le Indie.
La rotondità della Terra, non era poi l’unico
dato scientifico che rendesse meno “pazza” l’avventura vissuta nel “mare
oceano”. Ancora i Greci avevano concepito l’idea che la grande distesa
d’acqua ad occidente, fosse in realtà costituita di due mari, separati
da una vasta massa di terraferma.
Il primo storiografo dell’America, un certo Bartolomeo
de Las Casas, contemporaneo e conoscente dell’ammiraglio, ebbe a dire:
<< Colombo poteva con ragione ritenere e sperare che, sebbene quella
grande terra fosse perduta sotto le acque, ne fosse rimasta qualche isola
o qualche traccia più consistente e che, cercandola, si sarebbe
potuta trovare >>, alludendo alla città perduta di Atlantide.
I tempi erano maturi perché alcuni uomini, fiduciosi
in se stessi e liberi dalle catene di una tradizione un po’ ottusa e impermeabile
alla novità, prendessero spunto dai viaggi verso le isole dell’Atlantico
vicine alle coste Europee ed Africane per allargare i confini della Terra
insieme a quelli dello spirito.
L’oro, l’argento, le spezie e le perle, furono il movente
principale delle grandi imprese marinare di questi secoli. I popoli appena
scoperti costituirono per la maggioranza degli europei una miniera da sfruttare,
dubitandosi, come si faceva ai tempi di Colombo e ancora molti anni dopo
la sua scomparsa, che fossero dotati di vera ragione.
In quel periodo l’economia spagnola e portoghese non era
certo florida. L’agricoltura era arretratissima; la povertà della
terra e la preferenza data dai nobili alla pastorizia nei loro immensi
latifondi, spingevano i contadini verso la costa. Le città della
Spagna meridionale rischiavano la fame ad ogni cattivo raccolto; il Portogallo
doveva periodicamente importare frumento dal Marocco. Per assicurarsi nuove
terre coltivabili e “serbatoi” di cereali vennero intraprese la colonizzazione
di Madera (1425), delle Azzorre (1439) e delle Canarie. E proprio in queste
isole, a partire dal 1460, venne introdotta la coltivazione della canna
da zucchero.
Tuttavia il motivo dominante che spinse i popoli iberici
sulla via del mare, all’indomani della Reconquista, fu di carattere politico.
Infatti la vittoria sui Mori aveva restituito Granada alla Spagna ma non
aveva allontanato la minaccia islamica presente in tutto il Mediterraneo.
Con la presa di Costantinopoli (1453) l’Impero ottomano, guidata da Maometto
II (1451-81), era diventato la maggior potenza del Medio Oriente. I turchi
non nascondevano certo le loro tendenze espansionistiche sia nei Balcani
sia nel Mediterraneo. Si temeva appunto che l’enorme prestigio dell’Impero
ottomano potesse mobilitare i principi musulmani della costa nordafricana
e fomentare una eventuale ribellione dei mori spagnoli, separati dall’Islam.
Ma l’Islam era una potenza troppo grande e per poter
essere sfidata apertamente. Per questo motivo le ambizioni espansionistiche
e le tensioni religiose insorte con la guerra di Granada trovarono, da
parte spagnola, il sbocco naturale nella conquista delle isole dell’Atlantico,
probabile trampolino di lancio verso il favoloso Catai; mentre i portoghesi
cercarono, navigando le coste africane, di raggiungere le misteriose terre
orientali per togliere agli “infedeli” il redditizio monopolio dei prodotti
esotici, e quindi minare alla radice la loro potenza politica ed economica.
<< Essendo giunto il tempo… nel quale, in questa
parte della Terra, il frutto era maturo per essere raccolto… il divino
e sommo Maestro scelse tra i figli di Adamo, che abitavano ai nostri tempi
la Terra, l'illustre e grande Colon (Colombo), che, per il suo nome e per
le sue azioni, fu il primo vero colonizzatore, volendo affidare al suo
valore, alla sua mente, al suo zelo, alla sua energia, alla sua saggezza
una delle più grandi azioni divine che Egli desiderava fossero compiute
nel nostro secolo nel suo mondo… >>. Con queste parole, il vescovo iberico
Bartolomeo de Las Casas intendeva porre un sigillo di sacralità
sulla straordinaria avventura colombiana. Il tono solenne e quasi biblico,
era in perfetta armonia con quanto Cristoforo Colombo stesso aveva scritto
nel 1502 ai sovrani di Spagna: << Nel compiere questa impresa non
mi servirono né la ragione, né la matematica, né le
carte geografiche; ma si realizzarono esattamente le parole di Isaia >>.
Paradossalmente si può affermare che l’importanza
del gesto colombiano non stia tanto nella decisione di navigare verso occidente
o nella scoperta di un nuovo mondo, quanto nell’aver interpretato con coraggio
e determinazione lo spirito del suo tempo, dandogli concretezza e prospettive
prima d’allora insospettabili.
Colombo restò vedovo nel 1483. In sette anni vissuti a Porto Santo egli aveva maturato le sue idee, confrontando a dati scientifici le sue intuizioni. Nel 1483 egli lascia quindi definitivamente Porto Santo, portando con sé il figlioletto Diego, e si stabilisce a Lisbona. E’ convinto della sua semplice tesi (cercare il levante attraverso ponente) e ne trova conferma nei libri di filosofi famosi e nella Bibbia. Dopo aver provato numerosi mestieri, tra i quali quello di libraio e cartografo, decide di dedicarsi completamente all’impresa della scoperta. Il suo grande disegno sta prendendo corpo: seguirà le sue intuizioni che presto diventano per lui certezza, confermate come sono non solo dalle confuse testimonianze di altri navigatori, ma anche dal parere di famosi scienziati e dagli inoppugnabili testi della verità biblica, classica e cristiana.
Nonostante le ricostruzioni compiute, appena indicativi
sono i dati sulle tre navi della piccola flotta di Colombo, per noi moderni
veri gusci di noce. La prima era la Santa Maria di 150 tonnellate circa
di stazza, tre alberi a vele quadrate, un solo ponte, soprannominata anche
“Gallega” o “Capitana”, capitano Cristoforo Colombo, proprietario Juan
de la Cosa di Santona, 40 uomini di equipaggio. Veniva poi la Santa Clara,
caravella a tre alberi a vele latine, ossia triangolari, in seguito attrezzata
come caravella redonda, cioè a vele quadrate; anche questa a un
ponte, soprannominata Niña dal nome del proprietario, 24 uomini
di equipaggio e 60 tonnellate circa di stazza. Terza, la caravella a tre
alberi redonda a vele quadrate, un ponte, soprannominata Pinta, 26 uomini
di equipaggio, 55-60 tonnellate di stazza. Caratteristica delle tre navi
lo scarso pescaggio: 2 metri per la Santa Maria, 1 metro e 80 per le altre.
Dei novanta che seguirono Colombo, la maggior parte era
andalusa, mentre gli stranieri, oltre a Colombo, erano certamente appena
quattro. Non tutti erano marinai; c’erano camerieri, rappresentanti della
potenza portoghese, un ufficiale di polizia, un interprete. Insomma, ognuno
a bordo aveva una sua particolare mansione inerente al viaggio di scoperta.
Sembra certo che alla sua impresa il navigatore abbia
cercato presto consensi e sostegno prima in Portogallo e poi in Castiglia,
dove soggiornò tra il 1485 e il 1486. Nel 1488 era di nuovo in Portogallo
dove avrebbe dovuto ascoltare da Bartolomeo Diaz il racconto del viaggio
compiuto alla ricerca di un passaggio per le Indie lungo la costa africana
fino al Capo di Buona Speranza. Quel racconto o comunque la conoscenza
dell’impresa lo confermò nel suo proposito. Se il portoghese aveva
compiuto oltre tremila leghe, cioè circa tre quinti del circuito
massimo della terra, senza giungere forse neppure alla metà della
strada, la via di ponente doveva essere sicuramente la più breve.
Più che mai convinto, dunque, di essere nel vero, il genovese, dopo
aver di nuovo riproposto vanamente il suo progetto alla corte portoghese,
riuscì a farlo accettare alla corte spagnola giovandosi dell’appoggio
di padre Juan Perez, confessore della regina, del precettore dei figli
del re e di quello di Luis Santangel, tesoriere regio. Il 17 aprile del
1492 fu stipulata una convenzione: Colombo avrebbe avuto il titolo di ammiraglio
e la carica di viceré delle terre che avrebbe scoperto, oltre al
diritto a un decimo dei proventi che sarebbero derivati dalle sue scoperte.
Di grande utilità nell’apprestamento dell’impresa furono i fratelli
Pinzòn, esperti quanto spregiudicati armatori di Palos, il porto
dal quale partì il genovese la mattina del 3 agosto 1492.
Dopo una sosta alle Canarie, il 6 settembre iniziò
la navigazione verso ponente. Le acque erano così tranquillo che
quella bonaccia appariva terribile agli uomini dell’equipaggio che già
pensavano di restare intrappolati in quell’oceano morto, quando per fortuna
si levò un buon vento favorevole. Si andò via via manifestando
tra l’equipaggio una sorta di “psicosi di terra”. Ogni più piccolo
sintomo appariva come un segno premonitore della terra, che invece non
si vedeva mai.
Attirati dal miraggio delle ricchezze e sospinti dallo
sprone della fede, gli uomini di Colombo sono arrivati a quella ch’essi
credono la porta delle Indie. In realtà la piccola flotta è
giunta in vista di una delle isole dell’attuale arcipelago delle Bahamas,
che Colombo battezza San Salvador. Oggi il suo nome è Watling. Solenne
è lo sbarco, il 12 ottobre 1492. Colombo, i Pinzòn, il notaio
e l’interprete, il quale cerca di farsi comprendere parlando in arabo e
in ebraico, hanno il primo incontro con gli indigeni, poveri e docili.
Piantata la croce e alzati al vento gli stendardi reali, gli scopritori
fanno presto amicizia con i loro “indiani”. Presto si rendono conto, però,
che l’oro è del tutto ignoto agli indigeni. Bisogna quindi ripartire
alla ricerca del Cipango (Giappone), terra descritta nei suoi viaggi da
Marco Polo. Fatti salire a bordo sette indigeni, Colombo riprende con quelli
il mare il 14 ottobre. Vengono toccate altre isole delle Bahamas, finché
il 28 ottobre viene raggiunta Cuba, che prende il nome di Juana. Sino al
4 dicembre continua l’esplorazione di parte dell’isola. L’ammiraglio non
finiva di annotare, incantato, lo spettacolo che aveva davanti: porti splendidi,
baie, insenature incantevoli, terre coltivate di meraviglioso aspetto,
viste incredibilmente belle di rive verdi piene di alberi di ogni sorta,
uccelli e fiori, un’inaudita quantità di fiori d’ogni forma e colore,
che profumavano l’aria per lunghissimi tratti. Ossessionato dalla ricerca
dell’oro, delle merci pregiate, l’ammiraglio sembra rinnovarsi nell’animo,
diventare più generoso, più nobile davanti a quella natura
incontaminata, di fronte a quella gente tanto priva di malizia, di cupidigia.
Durò fintanto che il capitano della Pinta Pinzòn
tenta la sorte da solo separandosi con la nave da Colombo. Rimasto con
due navi, Colombo giunge il 5 dicembre in vista della grande isola di Haiti.
Ne costeggia ed esplora la costa settentrionale e finalmente, esaminando
gli ornamenti degli indigeni, vede in essi quell’oro tanto ricercato. Per
la sbadataggine di chi era di guardia, nella notte tra il 24 e 25 dicembre
la Santa Maria va in secca. Riuscito vano ogni tentativo di disincagliarla,
il giorno di Natale la “Capitana” è spogliata di tutto quanto può
riuscire utile; col materiale del relitto, Colombo fa erigere il forte
“La Navidad” a ricordo di quel Natale. Lo affida ai suoi tre uomini esperti
e fidati, con una guarnigione di 40 uomini, provviste di viveri per un
anno e con la lancia della Santa Maria. Poi, il 2 gennaio 1493, riprende
il mare con la Niña.
L’ammiraglio aveva temuto che Pinzòn arrivasse
prima di lui in Spagna, a raccogliere i frutti dell’impresa. Ma questo
non accadde, nonostante il capitano spagnolo avesse tentato di essere ricevuto
dai reali spagnoli, e Colombo viene accolto dai Grandi con onore e dal
popolo con giubilo. Il 20 aprile a Barcellona, i sovrani lo incontrano,
tributandogli con slancio e tributata riconoscenza ogni omaggio. Entusiasti
di ciò che Colombo aveva portato loro dalle Indie, Isabella e Ferdinando
di Spagna giudicano necessario bruciare i tempi, allestire una nuova imponente
spedizione che allarghi le scoperte e renda stabile la conquista. Così,
nel 1493, viene tracciata una nuova linea di demarcazione fra le zone di
conquista spagnole e portoghesi.
Poste le necessarie premesse politiche e diplomatiche,
l’Ammiraglio del Mare Oceano riceve il 20 maggio 1493 il comando della
grande flotta destinata a compiere il nuovo viaggio.
L’ostinazione con cui Cristoforo Colombo aveva voluto
i privilegi previsti dalle “capitolazioni” strette con i sovrani, non era
frutto di vanità né di meschina ambizione. Egli voleva sottrarsi
una volta per tutte all’inferiorità in cui la sua condizione di
straniero l’aveva costretto. Nonostante tutto il secondo viaggio s’inizia
sotto i migliori auspici. Colombo dispone di una vera ammiraglia, ancora
una volta una Santa Maria, che per le notevoli sue qualità nautiche
sarà in seguito soprannominata la Maria Galante: stazzava circa
200 tonnellate. Altre due navi, la Colina e la Gallega e 14 caravelle a
vele quadrate completavano la flotta. Fra le caravelle , la Santa Clara
(che altro non era se non la vecchia e intrepida Niña), la San Juan
e la Cardera. In tutto presero imbarco non meno di 1200 uomini. I sovrani
stessi avevano precisato gli scopi dell’impresa: scoprire nuove terre,
raccogliere oro, convertire alla fede cristiana gli indigeni.
Lasciata Cadice il 25 settembre 1493, la flotta punta
dritto alle Canarie, arrivando il 5 ottobre a Sa Sebastian nell’isola di
Gomera. Fra il 7 e il 10 ottobre il convoglio inizia la traversata su una
rotta più meridionale di quella seguita la prima volta. Gli Alisei
favoriscono il viaggio che si conclude all’alba del giorno 3 novembre 1493,
quando viene avvistata un’isola, che l’ammiraglio devotamente chiama Dominica,
perché scoperta di domenica. Svoltasi in condizioni ideali, la traversata
è durata da 25 a 28 giorni. Con un impatto perfetto, che conferma
il suo intuito e le sue doti di navigatore, l’Ammiraglio del Mare Oceano
è arrivato proprio alle Piccole Antille, dove egli . voleva. Può
così offrire agli stupefatti compagni di viaggio un mondo di sogno,
non inferiore a quello da lui descritto.
Colombo compie il secondo viaggio di ritorno con due piccole
caravelle, la veterana Santa Clara (ossia la Niña) e la Santa Cruz.
Si stiparono a bordo 255 persone fra cui una trentina di indigeni. Molti,
partiti tre anni prima dalla Spagna convinti di far presto fortuna, ritornavano
ora sfiduciati e avviliti. Tante illusioni erano cadute. Anche l’Ammiraglio
del gran Mare Oceano si rende conto d’aver fallito.
Salpato il 10 marzo 1496, Cristoforo non punta subito
sulla via del ritorno ma, contrastato anche dai venti, arriva fino a Gaudalupa,
donde finalmente riprende il mare il 20 aprile. Il suo è stato certo
un estremo tentativo per avere notizie dell’esistenza di miniere d’oro
e capovolgere così all’ultimo momento il risultato dell’impresa.
Rifornitosi prudentemente d’acqua, legna e pane di cassava, Cristoforo
Colombo si avventura ora alla traversata che procede molto a rilento, mancando
i venti favorevoli. Il 20 maggio l’ammiraglio è costretto ad imporre
a bordo un razionamento oltremodo severo: 180 grammi di pane di cassava
e una ciotola d’acqua al giorno. Stipati come sono nelle navicelle, tale
è la situazione dei reduci che qualcuno propone di sbarazzarsi degli
indigeni, o mangiandoli, o buttandoli fuori bordo Ancora una volta padrone
di sé, degli uomini e delle cose, come sempre sul mare, Colombo
supera anche questa prova, conducendo in salvo la piccola flotta.
Avvistata l’8 giugno la cittadina portoghese di Odemira,
35 miglia a nord di Capo San Vincenzo, conclude infine la sua avventura
l’11 giugno 1496 a Cadice. Quasi tre anni son passati da quando era partito
da quello stesso porto al comando d’una potente flotta, accompagnato dal
giubilo e dalle speranze della Spagna intera. Ora ritorna a mani vuote
e basta il penoso aspetto dei sopravvissuti a denunciare il fallimento
della grande impresa, iniziata sotto i migliori auspici.
Solo il 14 marzo 1502 i sovrani accolgono le richieste
di Colombo, accordandogli a loro spese quattro navi e due anni di vettovagliamento.
A certe condizioni, peraltro: l’ammiraglio non doveva, per nessuna ragione,
sbarcare a Hispaniola, doveva occuparsi soltanto di scoperte, non doveva
procacciare schiavi ma piuttosto oro, argento, perle, pietre preziose e
spezie. Questo quarto ed ultimo viaggio oceanico costituiva dunque una
specie di “premio di consolazione” concessogli, purché non interferisse
nelle attività del governatore e di altri due capitani, detentori
di particolari privilegi.
Le caravelle dell’ammiraglio erano: la Capitana da 100
tonnellate circa, su cui si imbarcarono Colombo, il figlio naturale Ferdinando
e 45 uomini; la Santiago de Palos, detta Bermuda, da 60 tonnellate, con
38 uomini; la Gallega da 60 tonnellate e 27 uomini; la Vizcaìna
da 50 tonnellate e 25 uomini. In totale 135 uomini, più i tre Colombo.
Salpato da Cadice il 9 maggio 1502, l’ammiraglio compie
una diversione sulla costa marocchina, per recare aiuto ai portoghesi si
Arcila assediati dai “mori”. Arrivato quando l’attacco era già stato
respinto, dirige sulla Gran Canaria giungendovi il giorno 20. Compiuti
i soliti necessari rifornimenti, la flottiglia, con rotta Ovest una quarta
del Sud-Ovest, inizia il 25 maggio la traversata che, condotta a tempo
si primato, la porta il 15 giugno all’isola della Martinica.
La Santiago navigava male ed era quindi di impaccio alle
altre navi. Invece di puntare su Trinidad, com’era suo proposito all’inizio,
Colombo sale quindi la rotta delle isole Sottovento, per avvicinarsi a
Hispaniola. Giunge così il 29 giugno alla foce dell’Ozama, davanti
al porto di Santo Domingo, ma poiché gli era vietato sbarcare, manda
a terra un messo al governatore. Gli chiede di cambiare la Santiago; lo
avverte inoltre che, a suo parere, è in arrivo un tremendo uragano,
pericolosissimo per la grande flotta ormeggiata nel porto e già
pronta a salpare. Avendogli il governatore impedito di riparare nell’isola,
in mezzo a una tremenda tempesta cercò di raggiungere la Giamaica
senza riuscirvi, perdendo alla fine il controllo della rotta, in mezzo
alla furia di tempeste spaventose. Sessanta giorni, scrisse, lottò
contro l’Oceano orribilmente tempestoso, finché riuscì ad
approdare a una piccola isola a sud dell’Honduras. Se di lì avesse
proseguito verso nord si sarebbe trovato nel Messico, nelle terre degli
Aztechi, dove avrebbe trovato tanto oro da inondarne la Spagna. E invece,
su indicazioni degli indigeni della costa, puntò a sud alla volta
di una terra ricca di oro, Veragua (l’attuale Panama) che raggiunse e superò
per esplorare un lungo tratto di costa fino al golfo di Darién.
Tornato a Veragua vi fondò un nuovo stabilimento dal quale si proponeva
di andare alla ricerca dell’oro, addentrandosi nell’interno. Se avesse
avuto fortuna, durante quelle esplorazioni sarebbe certamente giunto in
vista del Pacifico, anticipando Balboa: e invece per l’ostilità
degli indigeni dai quali per poco non fu sopraffatto, dovette abbandonare
Veragua e tornare indietro alla volta dell’Hispaniola con due sole navi
così sfasciate che, giunte nei pressi di Giamaica, affondarono.
Le avversità, la sfortuna già subite erano
poca cosa di fronte a quelle che l’ammiraglio dovette subire nella sua
sosta alla Giamaica, durante sei lunghi mesi, nei quali, malato, esausto,
restò esposto a inaudite privazioni, agli insulti degli uomini che
aveva portato con sé, i quali gli si ribellarono, minacciandolo
persino di morte: come un relitto si era ridotto il grande navigatore che
per quattro volte aveva dominato l’oceano. Solo con l’aiuto di due uomini
a lui fidati, riuscì a tornare in Spagna nel 1504. La regina Isabella,
sua protettrice, era morta. Navigatori portoghesi e spagnoli avevano compiuto
altre imprese, facendo dimenticare quelle del precursore di tutti i grandi
navigatori che morì, quasi povero e dimenticato, il 20 maggio del
1506 a Valladolid. Fino all’ultimo si era adoperato a rivendicare i suoi
diritti, a difendere il suo onore, a ricordare a tutti i servigi che aveva
reso alla Spagna, senza riceverne che ingratitudine.
I viaggi di esplorazione avevano dato agli uomini una
nuova immagine del mondo. Affrancato dalle forme mitiche della tradizione
classica e medievale, esso si era allargato e ristretto al tempo stesso:
due nozioni nuovissime, quella della sua immensità e quello della
sua unità, si imposero simultaneamente, e la seconda prevalse di
gran lunga sulla prima. La verifica della nozione, antica e nuova, della
sfericità terrestre e le prime audaci incursioni sugli oceani, al
di là dei ristretti limiti conosciuti, avevano fatto cadere tutti
i tabù della navigazione.
Terre separate da migliaia di chilometri di mare risultarono
unificate dall’appartenenza alla stessa potenza coloniale. La Spagna e
il Portogallo si trovarono così a possedere immensi imperi: i loro
sovrani potevano estendere la propria autorità infinitamente più
lontano di quanto, dai tempi di Alessandro a quelli di Carlo Magno, non
avessero fatto i più grandi monarchi.
Brutalmente sottratto a un millenario isolamento, un
nuovo continente entrò nella storia. Nel secolo contrassegnato dalla
rinascita culturale e dallo sviluppo dell’attività economica, l’Europa
aveva tratto dall’ombra un immenso dominio, ricco di risorse quasi illimitate,
in cui avrebbe riversato l’esuberanza della sua popolazione.
Il progresso tecnico e scientifico che, sullo scorcio
dell’età medievale, consente ai grandi navigatori di compiere imprese
destinate a mutare l’aspetto del mondo, si articolò sul piano delle
realizzazioni concrete su due elementi essenziali: il perfezionamento della
tecnica costruttiva delle navi e l’introduzione di mappe e strumenti nautici,
quali la bussola, l’astrolabio, il sestante e il quadrante, necessari per
l’orientamento delle imbarcazioni in mare aperto. Fra tutte queste apparecchiature,
la bussola risultò probabilmente il più valido ausilio alla
navigazione. Quando per mezzo della bussola si poterono fissare più
esattamente le direzioni e i punti di riferimento, gli antichi itinerari
di navigazione furono arricchiti con nuove rotte, riportate su carte e
mappe che presero nome di “portolani”. Da una di queste carte trasse ispirazione
Cristoforo Colombo per il suo tentativo di raggiungere le Indie per la
via occidentale.