Dall'aristocrazia alla nobiltà cavalleresca 
 
Fondato, verso il 1119, per la difesa delle colonie della Terra santa, l’Ordine del Tempio comprendeva due categorie di combattenti, distinti per costume, armi e posizioni sociali: in alto, i "cavalieri"; in basso, i semplici “sergenti”: mantelli bianchi e mantelli bruni.
Nessun dubbio che, sin dall’origine, la distinzione non rispondesse a una differenza di ordine sociale tra le reclute. Tuttavia, la più antica regola, composta nel 1130, non formula in proposito nessuna condizione precisa. Uno stato di fatto, determinato da un’opinione comune, decideva evidentemente dell’ammissione nell’uno o nell’altro grado. La seconda regola procede con rigore giuridico: per poter portare il mantello bianco è necessario anzitutto che il postulante, prima ancora del suo ingresso nell’ordine, sia armato cavaliere.
Nel 1152, un costituto di pace di Federico di Barbarossa aveva un tempo ai plebei di portare la lancia e la spada e riconosciuto come legittimo cavaliere solo colui i cui antenati fossero stati tali; un altro, del 1187, aveva vietato fondalmentalmente ai figli di contadini di farsi armare cavalieri. In Francia, allora, non c’erano leggi; ma la giurisprudenza della corte regia, sotto Luigi il santo, e le raccolte di consuetudini anche. Salvo grazia speciale del re, nessuno poteva diventare cavaliere se suo padre non lo era già stato. Solo in Inghilterra l’evoluzione delle classi superiori obbedì a un ritmo fondamentalmente uniforme.
Per tutto questo periodo sono di estrema importanza la corrispondenza dei papi, nonché le lettere rimasteci dei cavalieri degli Ordini, di re e ministri. E’ del tutto arbitraria e infondata la tesi per la quale la militia christiana corrisponda a un’esperienza soltanto antica, limitata cioè all’ epoca delle origini e all’ epico contrasto col paganesimo imperiale. Si tratta di seguire e di trascrivere una fenomenologia storica-religiosa, o sia di vedere a quali forme e figure concrete ebbe a corrispondere il militare cristiano, dalla immagine antica che troviamo nella ambito apostolico della professione antica alla battaglia contro il “secolo" e la “dimensione" moderna. La militia christiana acquistò gradatamente, a partire dal XI secolo per estendersi fino all’ XI e ancora fino al XII, una fisionomia empirica la quale, senza alterare i connotati tradizionali dell’ habitus polemico, si venga a presentare sotto un aspetto anzi sotto diversi aspetti. L’armatura cristiana utile, necessaria al combattimento, non era più quella richiesta dal confronto con l’idolatria pagana e dalle esigenze del martirio, ma sviluppava le sue intrinseche qualità ascetiche contro l’orizzonte dei nuovi avversari, e le sviluppava di fatto concretandole in quel tipo di responsabilizzazione evangelico-apostolico-missionaria che corrispondeva alla misura della conquista e della riconquista, nel segno della santa religione a fronte dell’ idolatria del pagani da convertire o della malvagità dei miscredenti de ribattere e da rivincere.
“La disciplina è la prerogativa dei militi di Cristo, e l’obbedienza il titolo perenne. La vita è comunitaria, la sua tenuta è segnata da rapporti in spirito di letizia e sobrietà, esente dal peso coniugale e familiare. All’appressarsi della guerra, il desiderio dei militi è quello di avere cavalli veloci e forti; ma il loro pensiero è la battaglia, non l’apparato, la vittoria o la gloria. E la loro coscienza consiste non nella presunzione delle proprie forze umane, ma nella confidenza nella vittoria in virtù del Signore Dio degli eserciti. E il loro tratto distintivo, che li rende più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, è tale da lasciare incerti se chiamarli monaci oppure soldati". Questo passo era dedicato ad una particolare figura cavalleresca, i templari; ma può essere considerata come illuminante di tutta un’efflorescenza di iniziative consimili, emergente fra la fine del secolo XI e il XII. Pensiamo dunque al fenomeno cavalleresco nella luce del suo consorzio con l’azione apostolica e missionaria, con l’operatività intensa in funzione anti-musulmana, con la rinnovata militia christiana nello spirito ideale e nel costume.
E’ possibile istituire un’ipotesi di continuità fra Cavalleria e Crociata: “alla base della vecchia visione della crociata stava indiscutibilmente il mito storico del cavaliere errante, mito in gran parte frutto di tutto una serie di malintesi romanticheggianti e di letture in chiave individualistica delle fonti medioevali. Il cavaliere al disinteressato servizio di un nobile ideale, sciolto quindi da tutto il contesto sociale, giuridico ed economico del tempo, non è verosimilmente mai esistito. La fitta rete delle giurisdizioni e delle obbligazioni feudali, la tendenza solidaristica della mentalità medioevale a tutti i livelli, la stessa importanza delle consuetudini e delle tradizioni soprattutto fra gli appartenenti alla milizia, non sembrano aver lasciato un grande spazio a supposte tendenze da parte di alcuni suoi membri.”
 
 

L’ideale cavalleresco nell'arte 
 
Sullo scorcio del secolo XII e all’ inizio del XIII la cavalleria comincia a diventare un ceto chiuso, a cui non si può accedere dall’ esterno. D’ora in poi possono diventare cavalieri solo i figli dei  cavalieri. Per essere considerati nobili, non basta più il diritto al feudo, e neppure l’alto tenore di vita, ma occorrono le precise condizioni e tutto il rituale della nomina solenne. L’acceso alla nobiltà viene così nuovamente sbarrato, e probabilmente non si sbaglia a supporre che furono proprio i cavalieri nuovi di zecca a propugnare col massimo zelo questa serrata. Comunque, il momento in cui la cavalleria si trasforma in senso ereditario e diventa una casta militare  chiusa e senza dubbio il momento più importante  nella sua storia e uno dei momenti più decisivi in quella della nobiltà. Non solo perchè d’ ora in poi i cavalieri fanno parte integrante della nobiltà, e sono in netta maggioranza rispetto agli antichi nobili, ma perchè ora e soltanto, e proprio per opera loro, si foggia l’ ideale cavalleresco, la coscienza di classe e l’ ideologia di classe della nobiltà. Soltanto ora, in ogni caso, i principi della condotta e dell’etica nobiliare acquistano quella chiarezza e quell’intransigenza con cui si presentano sull’epopea e nella lirica cavalleresca.
L’idealismo romantico e l’ eroismo riflesso e sentimentale della cavalleria, questo idealismo e eroismo di seconda mano, nascono soprattutto dalla consapevolezza e dall’ ambizione con cui la nobiltà sviluppa il suo concetto dell’ onore. Da un lati essa si attacca all’esteriorità ed esaspera il formalismo della vita aristocratica; dall’ altro pone l’intima nobiltà dell’ animo al di sopra della nobiltà esteriore e formale della nascita e del tenore di vita.
Non è pensabile alcuna realtà cavalleresca senza la forza fisica e l’esercizio fisico, e tanto meno in contrasto con essi, come le virtù del cristianesimo primitivo. Nelle singole parti del sistema che, ad analizzarle attentamente, comprendono le virtù stoiche, cavalleresche, eroiche e aristocratiche in senso stretto, il valore delle doti fisiche e di quelle spirituali è in ognuna diverso, ma in nessuna di questa categorie il fisico perde del tutto la sua importanza. Il  primo gruppo contiene essenzialmente, come è stato affermato del resto per tutto il  sistema, i noti principi della morale classica in veste cristiana. Forza d’animo, fiducia, tenacia , misura e dominio di se costituivano già i concetti fondamentali dell’etica aristotelica, e più tardi, in forma più rigida, di quella stoica; la cavalleria li ha semplicemente ricevuti dall’antichità attraverso la mediazione della letterature italiana del Medioevo. Le virtù eroiche , specie il disprezzo del pericolo, del dolore e della morte, l’assoluta osservanza della parola data, la sete di gloria e di onore, sono già in gran pregio nella prima età feudale; l’etica cavalleresca non ha fatto che mitigare l’ideale eroico di quell’ epoca, infondendogli un colorito sentimentale, ma è rimasta fedele al principio. Il nuovo senso della vita si afferma - nella forma più pura e immediata - nelle virtù propriamente cavalleresche e gentili: da un lato la generosità verso i vinti, la protezione del debole e il culto della donna, cortesia e galanteria; dall’altro le caratteristiche del moderno gentiluomo, liberale e disinteressato, superiore ai vantaggi materiali, sportivamente corretto e gelosissimo del proprio decoro. Sebbene la morale cavalleresca non sia del tutto indipendente dall’emancipata mentalità borghese, tuttavia nel culto di queste nobili virtù, è in netto contrasto con lo spirito borghese del guadagno. La cavalleria si sente minacciata nella sua esistenza materiale dall’economia monetaria borghese, e si volge con odio e con disprezzo contro il razionalismo economico del mercante, contro il calcolo e la speculazione, contro l’attitudine a risparmiare a e contrattare. Antiborghese è tutto il suo tenore di vita, la sua prodigalità, il suo gusto per la cerimonia, il suo disprezzo per ogni lavora manuale e di ogni regolare attività di lucro. Molto più difficile dell’analisi storica del sistema etico cavalleresco è a piegare storicamente le due grandi creazioni culturali della cavalleria: il nuovo ideale amoroso e la nuova lirica amorosa. E’ evidente fin da principio che esse sono in stretto rapporto con la vita di corte. Le corti non sono soltanto il loro a fondo, ma anche il terreno che le alimenta. Ora però sono le corti minori, quelle dei principi e dei feudatari, e non più quelle dei re, a determinare lo sviluppo generale. La cornice più modesta spiega anzitutto il carattere relativamente più libero, individuale e vario, della cultura cavalleresca. Qui tutto è meno solenne, meno ufficiale, tutto incomparabilmente più agile ed elastico che non nelle corti regali che erano state un tempo i centri della cultura. Anche in queste piccole corti dominano convenzioni abbastanza rigide; aulico e convenzionale furono sempre e sono tuttora equivalenti, perché appartiene all’essenza della civiltà cortese indicare vie battute e porre limiti precisi all’arbitrio individuale, ribelle alle forme. Anche i rappresentanti di questa più libera civiltà cortese debbono il loro prestigio, non già a doti particolari che li distinguono da altri membri della corte, ma al contegno comune a tutti. Essere originali in questo mondo dominato dalle forme, equivale ad una scortesia inammissibile. Appartenere al circolo di corte è in se il maggior premio e onore; ostentare la propria originalità è coma disprezzare quel privilegio. Così tutta la civiltà dell’epoca resta legata a convenzioni più o meno rigide. Come sono stilizzate le buone maniere, l’espressione dei sentimenti, anzi i sentimenti stessi, così lo sono anche le forme di poesia e dell’arte.
La cultura della cavalleria medievale è la prima manifestazione moderna di una cultura organizzata dalle corti, la prima in cui fra il signore, i cortigiani e i poeti ci sia una vera comunione spirituale. Le corti delle muse non sono soltanto strumenti di propaganda e istituzioni culturali sovvenzionate dai principi, ma rappresentano organismi complessi in cui quelli che inventano le belle forme di vita e quelli che le mettono in pratica mirano allo stesso fine. Ma una simile comunione è possibile solo dove ai poeti che salgono dal basso è aperto l’accesso ai più alti strati della società, dove tra i poeti e il loro pubblico c’ è una grande somiglianza di vita (che sarebbe stata inconcepibile un tempo), e dove cortesia e scortesia non implicano solo una differenza di condizioni, ma di educazione: dove quindi non si è necessariamente gentili per nascita e per grado, ma lo si diventa per istruzione e carattere. E’ evidente che questo canone dei valori fu stabilito per la prima volta da una nobiltà professionale, che ricordava ancora come fosse venuta in possesso dei suoi privilegi, e non da una nobiltà di sangue, che quei privilegi aveva sempre avuto. Ma con lo sviluppo del nuovo concetto di civiltà, secondo cui i valori estetici e intellettuali sono nello stesso tempo valori morali e sociali, si produce un nuovo iato fra cultura ecclesiastica e laica. La funzione di guida, soprattutto nella letteratura, passa dal clero, unilaterale nella sua concezione del mondo, alla cavalleria. La letteratura monastica perde la sua funzione storica di guida, e il monaco non è più la figura rappresentativa del tempo; la quintessenza ne è ora il cavaliere, com’è rappresentato a Bamberga, nobile, fiero, vigile, perfetta espressione della cultura fisica e spirituale.
La civiltà cortese del Medioevo si distingue da ogni altra - anche da quella della corti ellenistiche, pur fortemente influenzata dalla donna- soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile; e non solo perché le donne prendono parte alla vita intellettuale e contribuiscono a orientare la poesia, ma perché, sotto molti rispetti, è femminile anche il pensiero e il sentimento degli uomini. Mentre gli antichi poemi eroici, e le stesse Chanson de Geste, erano destinati a un auditorio maschile, la poesia amorosa provenzale e i romanzi bretoni del ciclo di Artù si rivolgono anzitutto alle donne. Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, Ermengarda di Narbona, o comunque si chiamino le protettrici dei poeti, non sono soltanto gran dame, coi loro salotti letterali, esperte e promotrici di poesia, ma sono spesso loro a parlare per bocca dei poeti. E non basta dire che gli uomini debbano alle donne la loro educazione estetica e morale, che esse sono la sorgente, l’argomento e il pubblico della poesia [...]
Ciò che contraddistingue la poesia cavalleresca nei confronti della antichità e della alto medioevo è soprattutto il fatto che l’amore, per quanto spiritualizzato, non si eleva a principio filosofico, come in Platone o nei neoplatonici, ma conserva il suo carattere sensuale ed erotico; e proprio in quanto tale opera la rinascita della personalità morale. Nuovo, nella poesia cavalleresca, è il culto consapevole dell’ amore, il senso che l’amore va protetto e alimentato; nuova è la credenza che l’ amore sia la fonte di ogni bontà e bellezza e che ogni atto turpe, ogni bassa inclinazione sia un tradimento verso l’amata. Nuovo è l’intimo dolce affetto, la pia devozione, che l’amante prova in ogni pensiero per la sua donna; nuova l’infinita, inappagata e inappagabile, perché illimitata, sete d’amore. Nuova è la felicità d’amore, che è indipendente dalla soddisfazione del desiderio e resta suprema beatitudine anche nel più duro insuccesso. Nuovo infine è l’intenerimento e la femminilizzazione dell’ uomo innamorato. Già l’uomo che faccia la parte del corteggiatore capovolge il rapporto primitivo fra i sessi. Le età arcaiche ed eroiche, in cui i bottini di schiave e ratti di fanciulle sono all’ordine del giorno, ignorano il corteggiamento. Che, del resto, contrasta anche l’uso del popolo. Qui è la donna, non l’uomo, che canta canzoni d’amore. Ancora nelle Chanson de Geste sono le donne a fare gli approcci; solo alla cavalleria questo comportamento appare scortese e sconveniente. Cortese è appunto la ritrosia femminile e lo spasimare dell’ uomo. Cortese e cavalleresca è l’infinita pazienza e la perfetta abnegazione dell’uomo, che sopprime la propria volontà e all’essere superiore alla donna. Cortese è la rassegnazione di fronte all’inaccessibilità dell’oggetto adorato, l’abbandono alla pene d’amore, l’esibizionismo e il masochismo sentimentale dell’uomo: tutte caratteristiche del moderno romanticismo amoroso, che appaiono qui per la prima volta. L’amante nostalgico e rassegnato, l'amore che non esige accoglimento e adempimento, anzi si esalta per il suo carattere negativo: così comincia la storia della poesia moderna.
 
 
Il gioco dell'amor cortese
 
Lo spirito ludico della cavalleria culmina nella gratuità dell’amor cortese. Da almeno due secoli, tutti i poemi e i romanzi scritti per lui invitano il cavaliere ad amare. I chierici privati delle corti principesche erano ricorsi alle risorse dell’ analisi scolastica, per codificare in precise norme i complessi riti che, nella società dei nobili, erano destinati a regolare il comportamento reciproco del gentiluomo e della donna bennata. I libri che ogni signore si faceva leggere la sera, circondato da tutta la sua casata, le immagini che li illustravano e quelle decoravano gli avori degli scrigni e degli specchi, diffondevano tutti ampiamente le norme di tale rituale, cui ogni uomo desideroso di essere accolto nelle assemblee cavalleresche doveva conformarsi. Egli aveva l’obbligo di scegliersi una dama e di farsene il servo. Nel fiore della gioventù, Edoardo III di Inghilterra s’era proposto di diventare il modello della cavalleria del suo tempo; era sposato: la regia, dotata di tutte le virtù di una moglie perfetta, gli regalava dei bei figlioli e il loro matrimonio poteva dirsi veramente ben riuscito. Un giorno Edoardo si recò a visitare la signora del castello di Salisbury, il cui marito, suo vassallo e catturato mentre combatteva al suo servizio, era allora prigioniero. Il re sollecitò l’amore della dama, e per tutta la sera, davanti agli uomini che lo scortavano, recitò la commedia del cuore ferito e conquiso dell’ amore e dell’amore trionfante e tuttavia impossibile. "Onore e lealtà", infatti, "gli vietavano di impegnarsi in un simile inganno, e di disonorare una così nobile donna e un cavaliere leale qual era suo marito. E d’altra parte Amore lo costringeva così fortemente da fargli vincere e trascurare Onore e Lealtà". E fu forse per la dama eletta che egli fondò l’ordine dei cavalieri della Giarrettiera, che ne organizzò le feste e ne scelse il motto.
Festa e gioco, l’amore cortese realizza l’evasione dall’ordine costituito e il rovesciamento dei rapporti naturali e, adultero per principio, è soprattutto una rivincita sulle pastoie matrimoniali. Nella società feudale, il matrimonio mirava principalmente ad aumentare il lustro e le ricchezze di una famiglia; e la faccenda, in cui i diritti del cuore non avevano alcun peso, veniva freddamente condotta dai capi dei due lignaggi, che stabilivano le condizioni dello scambio - la compravendita della sposa destinata a diventare per il suo futuro signore la custode della sua casa, la padrona dei suoi servi e la madre dei suoi figli. La sposa in primo luogo doveva essere ricca, fedele e di buona schiatta: le leggi sociali minacciavano le più grandi sanzioni alla moglie adultera e a chiunque avesse tentato di sedurla, mentre concedeva agli uomini la massima libertà. Nei romanzi cortesi, in ogni castello c’è sempre una compiacente fanciulla pronta a darsi al cavaliere errante.
 
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