Crisi dell'impero bizantino
 
Nella primavera del 1452 il successore di Murad, il nuovo sultano Maometto II, che era allora un giovane di ventuno anni, dava mano ai primi lavori all’investimento di Costantinopoli, facendo inalzare in uno dei tratti più angusti del Bosforo, sulla costa Europea, una fortezza, destinata ad intercettare ogni comunicazione di Bisanzio con il mar nero, ossia ad impedire l’uso dei navigli che si trovavano in quelle acque, ed ad affamare la città, oramai priva di cereali, che da secoli le giungevano dalla Russia meridionale. Le forze terrestri a disposizione consistevano in poche centinaia di soldati, otto o novemila mercenari di tutte le nazioni: greci, catalani, e un terzo almeno, genovesi e veneziani, ossia nemici culturali dell’Impero greco. Le forze marittime si riducevano a qualche decina di navigli, specialmente da carico, che si sarebbero volontariamente imprigionati nel Corno d’Oro, barricandosi dietro a enormi catene di ferro, e non avrebbero esercitato alcuna influenza sulla efficacia della difesa.
Per contro, le truppe, che il sultano avrebbe potuto lanciare contro le città, a giudicare dalle operazioni precedenti, si presumevano numerosissime e solidissime.
Dal tempo di Baiazet I, dal tempo, cioè in cui avevano conquistato le città costiere dell’Asia minore, gli Ottomani si erano formati anche una flotta di guerra, ma di essa i Bizantini non avevano un’idea esatta. Quella che però incuteva le maggiori preoccupazioni era l’artigianeria nemica che da cento anni aveva fatto processi considerevoli e a cui Maometto II e Murad II avevano dedicato le cure maggiori.
L’unica speranza del basilèus stava, dunque, nell’aiuto degli Occidentali, e , per conquistarlo, Costantino XI, nel dicembre del 1452, ossia pochi mesi dopo la costruzione di Kessèn-Hissar, impose con la forza, al suo clero e al suo popolo, il sacrificio estremo, a cui neanche il predecessore era riuscito: la sottomissione della chiesa greca a quella romana. Neanche tanta umiliazione era stata efficace.
Si era vociferato della prossima partenza, alla volta del Bosforo, di una flotta Veneziana con uomini e con materiali, ma , allorché il 5 aprile 1453, venendo da Adrianopoli, il numerosissimo esercito turco, nel quale i combattimenti arrivavano a sommare 160000 uomini e arrivò sotto le mura di Costantinopoli, nessuna armata era apparsa nelle acque dell’Ellesponto.
Gli occidentali anzi si fecero pervenire dall’ammiraglio turco, il quale, dopo l’arrivo dell’esercito di terra, comparve nel Bosforo con 350 navigli da guerra, e andò ad ancorare presso la riva europea. In questo momento la sorte dell’antica metropoli dovette ai suoi difensori apparire gravissima.
Data anche l’ipotesi di una resistenza militare fortunata, l’assedio, da parte di un esercito che aveva dietro di se la terra e il mare liberi, avrebbe potuto prolungarsi lungamente, e Costantinopoli sarebbe dovuta soccombere per fame o per mancanza di difensori e munizioni. Occorreva riparare ogni momento i guasti arrecati alle mura, ma mancavano gli uomini: i 9000 combattenti bastavano appena a montare la guardia, e la popolazione civile ripugnava ad associarsi alle loro fatiche, sia perché snervata e immiserita da anni di ansie e di sofferenze, sia perché carica di rancore contro i malnati Occidentali, che essa giudicava i veri responsabili della miseria presente. Ne questi erano solo i sentimenti del volgo: l’anno innanzi alla notizia della sottomissione alla chiesa greca alla latina.
Era l’alba, e la tenue luce , che cominciava a irradiare sul campo, prometteva di regolare meglio l’attacco e di potere paralizzare i difensori, accecandoli con un nugolo di frecce, di colpi di arma da fuoco. Ma dopo alcune ore di combattimento , nonostante tutti gli sforzi, anche ai Giannizzieri toccava la stessa sorte dei loro compagni d’arme, e neanch’essi riuscivano a infrangere la disperata difesa.
I difensori, sparpagliati lungo l’interminabile linea delle fortificazioni, non se ne erano avveduti, ma Maometto mandò 50 soldati in quella direzione e il colpo riuscì, a un tratto i difensori si videro attaccati alle spalle da quegli stessi nemici che credevano di avere scacciato.
Verso le 9 del mattino, i Turchi entravano a fiotti nella città, non più cristiana o Bizantina, e davano mano al feroce massacro. Il pomeriggio vi si recava Baiazet in persona per ringraziare Allah della grande vittoria. E l’edificio sacro, eretto da Giustiniano, ora sventrato, saccheggiato, insozzato, sparso di cadaveri e di sangue, dove un imano lesse la professione di fede musulmana, fu trasformato in quella moschea, che ancora oggi il mondo si reca a visitare con cuore gonfio di meraviglia e commozione.
 

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