Il mancato invio di aiuti materiali alla Palestina da parte della quarta
crociata ebbe anche un lato positivo: per di più di dieci anni il
piccolo regno fu lasciato in pace.
Nel 1208 la regina della Palestina, Maria, compì diciassette
anni: era giunto il momento di trovarle marito. Nella primavera del 1210,
Giovanni di Brienne aveva accettato l’offerta. Fu una delusione: Giovanni
era un cadetto squattrinato ed aveva ormai sessant’anni. Nonostante la
sua povertà, egli non era disadatto al compito che lo aspettava:
aveva una vasta conoscenza della politica internazionale e la sua età
era una garanzia che non si sarebbe imbarcato in avventure imprudenti.
Per renderlo più accettabile, il re Filippo di Francia e papa Innocenzo
gli diedero ciascuno una dote di quarantamila marchi d’argento.
La figura
di Giovanni di Brienne nell’ambito della crociata
Giovanni di Brienne sbarcò ad Acri il 13 settembre 1210. Il
giorno dopo il patriarca Alberto di Gerusalemme lo unì in matrimonio
con la regina Maria; il 3 ottobre la coppia reale fu incoronata a Tiro.
Il nuovo re acquistò ben presto popolarità: dimostrò
tatto nel trattare con i vassalli e con gli ordini militari e prudenza
nei suoi rapporti con i musulmani. Pochi mesi dopo la sua incoronazione,
stipulò una tregua quinquennale con al-Adil, a cominciare dal luglio
1212. Nel frattempo il re inviò messaggi a Roma per chiedere che
si preparasse una nuova crociata in grado di giungere in Palestina non
appena spirasse la tregua.
Nello stesso anno morì la giovane regina, dopo aver dato alla
luce una figlia chiamata Isabella, ma conosciuta abitualmente come Jolanda.
Giovanni fu accettato come reggente naturale fino al matrimonio della figlia.
Continuò a governare in pace il paese fino all’arrivo della successiva
crociata.
Il papa Onorio pensava che la pace che si era oramai instaurata sotto
il regno di Giovanni di Brienne non fosse la miglior soluzione dopo le
quattro crociate già compiute.
Egli sperava che una grande spedizione sarebbe salpata dalla Sicilia
nell’estate del 1217. Ma quando venne l’estate non c’erano navi. L’esercito
del re Andrea II d’Ungheria arrivò sul finire dell’estate a Spalato,
dove lo raggiunse il duca Leopoldo d’Austria ed il suo esercito. Al principio
di settembre il duca Leopoldo trovò una nave a Spalato per portare
la sua piccola compagnia ad Acri. Il suo viaggio durò soltanto sedici
giorni. Re Andrea lo seguì circa due settimane più tardi
ma, per problemi di navi, il grosso del suo esercito rimase indietro. Tutti
i crociati si stavano raccogliendo ad Acri; il re Ugo di Cipro sbarcò
ad Acri con le truppe che aveva potuto raccogliere.
Quando i re arrivarono, Giovanni di Brienne insisté perché
si iniziasse immediatamente una campagna. Venerdì 3 novembre i crociati
partirono da Acri e marciarono attraverso la pianura di Esdraelon. Il loro
numero, sebbene non grande, era il maggiore che si fosse raccolto in Palestina
dalla terza crociata in poi.
Il sultano della Palestina Al-Adil, quando aveva udito che i cristiani
si stavano riunendo, era accorso in Palestina con nuove truppe, ma non
si era aspettato così presto un’invasione. Trovandosi in condizioni
di inferiorità numerica, quando la crociata avanzò verso
Beisan, si ritirò, mandando suo figlio a proteggere Gerusalemme,
mentre egli stesso aspettava, pronto ad intercettare un eventuale attacca
contro Damasco.
Ma i suoi timori erano ingiustificati. All’esercito cristiano mancava
la disciplina. Beisan fu occupata e saccheggiata; poi i cristiani vagarono
senza meta. La loro occupazione principale era stata quella di procurarsi
delle reliquie. Re Andrea fu soddisfattissimo di aver ottenuto una delle
anfore adoperate alle nozze di Cana.
Re Giovanni non era contento e progettava una spedizione per conto
proprio per distruggere il forte che i musulmani avevano costruito sul
Monte Tabor. Il 3 dicembre il suo primo attacco contro il forte fallì,
sebbene in realtà la guarnigione fosse pronta ad arrendersi. Il
secondo attacco, due giorni dopo, fu la copia del primo, e una volta ancora
l’esercito si ritirò ad Acri.
Leopoldo d’Austria rimase in Palestina, era a corto di denaro e dovette
farsi prestare da Guido di Jebail cinquantamila bisanti, ma era pronto
a lottare ancora per la croce. Re Giovanni si servì del suo aiuto
per fortificare nuovamente Cesarea, mentre i templari ed i cavalieri teutonici
si accingevano a costruire una grande fortezza a Athilit, poco a sud del
Carmelo: il Castello dei Pellegrini. Al-Adil smantellava intanto il suo
forte sul Monte Tabor: era troppo vulnerabile e non valeva le spese di
mantenerlo.
Gli attacchi
Il 26 aprile 1218 arrivò ad Acri la prima metà della
flotta di Frisia e quindici giorni dopo l’altra metà che aveva svernato
a Lisbona. Era giunta notizia che i crociati francesi ammassati in Italia
dovevano presto tenere loro dietro. Re Giovanni prese subito consiglio
sul modo migliore di impiegare i nuovi venuti. Non si era mai dimenticato
il consiglio di attaccare l’Egitto, che re Riccardo aveva dato a suo tempo.
Se i musulmani fossero stati ricacciati dalla valle del Nilo, non soltanto
avrebbero perso la loro provincia più ricca, ma non sarebbero più
stati in grado di mantenere una flotta nel Mediterraneo orientale e non
avrebbero neppure potuto difendere a lungo Gerusalemme contro un attacco
a tenaglia proveniente da Acri e da Suez. Trovandosi a poter disporre delle
navi frisone i crociati avevano ora i mezzi per una grande attacco contro
il Delta. Senza esitare si decise che il primo obiettivo sarebbe stato
il porto di Damietta, chiave del Nilo.
Il sultano al-Adil era vecchio ormai e aveva sperato di trascorrere
in pace i suoi ultimi anni. Aveva le sue preoccupazioni nel nord. I Selgiuchidi
dell’Anatolia si trovavano allora all’apogeo del della loro potenza.
Bisanzio non c’era più, e l’imperatore di Nicea era troppo occupato
a combattere i Franchi per disturbarli. Al-Adil aveva sperato fino all’ultimo
che i Franchi non sarebbero stati così stolti da violare la pace.
Suo figlio, al-Kamil, viceré d’Egitto, condivideva le sue speranze.
Nel 1215 v’erano non meno di tremila mercanti europei in Egitto. Quell’anno
l’improvviso arrivo ad Alessandria di due signori occidentali con una compagnia
armata aveva spaventato le autorità, che avevano posto temporaneamente
agli arresti tutta la colonia cristiana. Ma i buoni rapporti erano stati
ristabiliti. Nel 1217 una nuova ambasceria veneziana fu ricevuta cordialmente
dal viceré. Il vano vagabondare della crociata del 1217 non aveva
impressionato i musulmani, i quali non potevano credere che ora vi fosse
un serio pericolo.
Nel giorno dell’Ascensione, il 24 maggio 1218, l’esercito crociato
al comando di re Giovanni si imbarcava ad Acri sulle navi frisone e salpava
verso Athlit per caricare altri approvvigionamenti. Dopo poche ore le navi
levarono l’ancora, ma il vento cadde improvvisamente. Soltanto alcune riuscirono
a lasciare l’ancoraggio ed a salpare verso l’Egitto. Giunsero al largo
della foce del Nilo di Damietta il 27 e gettarono le ancore per aspettare
i loro compagni. Dapprima i soldati non osarono tentare lo sbarco perché
non vi era nessun ufficiale superiore in mezzo a loro. Ma il 29, quando
ancora non era apparsa nessuna flotta, l’arcivescovo di Nicosia, Eustorgio,
li persuase ad accettare come loro capo il conte Simone II di Sarrebruck
ed a forzare uno sbarco sulla sponda occidentale della foce del fiume.
Ci fu pochissima resistenza; e l’operazione era quasi del tutto completata
quando le vele del grosso della flotta crociata apparvero all’orizzonte.
Presto le navi si spinsero nell’estuario e re Giovanni, il duca d’Austria
ed i grandi maestri dei tre ordini militari sbarcarono.
Appena i musulmani si resero conto che la crociata era diretta contro
l’Egitto, al-Adil reclutò in tutta fretta un esercito in Siria,
mentre al-Kamil conduceva il grosso dell’esercito egiziano dal Cairo verso
nord e si accampava a al-Adiliya, a poche miglia a sud di Damietta. Egli
non aveva abbastanza uomini e navi per attaccare le posizioni cristiane,
però rafforzò la torre. Alla fine di giugno fallì
il primo serio attacco al forte. Il futuro storico della campagna, Oliviero
di Paderborn, suggerì allora di ricorrere ad uno stratagemma, che
venne finanziato da lui stesso e da una dei suoi compatrioti: si trattava
di una torre costruita su due navi legate insieme, coperta di cuoio e fornita
di scale a pioli per la scalata. Il forte poteva essere così attaccato
sia dal fiume che dalla riva.
Nuovi
attacchi
Il venerdì 17 agosto l'esercito cristiano celebrò una
solenne cerimonia d'intercessione. Una settimana dopo, nel pomeriggio del
24, cominciò l’assalto. Circa ventiquattr’ore più tardi,
dopo una fiera lotta, i crociati riuscirono a consolidarsi sui bastioni
e dilagarono nel forte.
Quando le notizie della caduta del forte giunsero a Damasco pochi giorni
dopo, al-Adil era ammalato. Il colpo fu troppo duro per lui: morì
il 31 agosto all’età di circa settantacinque anni.
Per i musulmani il disastro non era così grande come al-Adil
aveva temuto. Se i cristiani avessero premuto contro Damietta e l’avessero
attaccata subito, la città sarebbe caduta. Ma dopo la conquista
del forte essi esitarono e decisero di aspettare rinforzi.
La spedizione papale aveva già lasciato l’Italia. C’erano stati
continui indugi, ma alla fine papa Onorio aveva potuto equipaggiare una
flotta per il trasporto delle truppe che avevano aspettato più di
un anno a Brindisi. Alla loro testa pose il cardinale Pelagio di Santa
Lucia.
La figura del cardinale Pelagio ed i suoi contrasti con Giovanni di
Brienne
Il cardinale Pelagio ed i suoi uomini giunsero al campo cristiano alla
metà di settembre. Il suo arrivo a Damietta provocò subito
inconvenienti. Giovanni di Brienne era stato accettato come capo della
crociata. Pelagio riteneva che, come legato, quella carica toccasse a lui.
Pelagio non intendeva ricevere nessun ordine da re Giovanni che, dopo tutto,
era re soltanto a causa della sua defunta moglie.
In ottobre al-Malik al-Kamil aveva ottenuto rinforzi sufficienti per
tentare un attacco contro il campo crociato per mezzo di una piccola flotta
che ridiscese il fiume; l’attacco fu respinto, grazie soprattutto all’energia
di re Giovanni.
Al-Kamil volle tentare poi un altro attacco dall’acqua; fu un violento,
furioso attacco, ma era troppo tardi; il primo contingente di crociati
francesi era ormai arrivato e condusse la difesa.
Dopo l’arrivo dell’intero esercito franco-inglese alla fine di ottobre,
ci fu una lunga pausa nella lotta. Sia i musulmani che i cristiani avevano
le loro difficoltà; i primi attendevano un esercito dalla Siria
che al-Muazzam, fratello di al-Kamil, aveva promesso. I secondi scavarono
un canale dal mare al fiume a sud del ponte musulmano, ma non lo poterono
riempire d’acqua. La fine dell’anno portò malumore nel campo cristiano:
infatti fu colpito da una grave inondazione che distrusse tutte le tende
e tutti i magazzini. Quando il campo fu riparato, una grave epidemia colpì
l’esercito: almeno un sesto dei soldati ne morì. Poi seguì
un inverno eccezionalmente rigido.
Ai primi di febbraio 1219, Pelagio stimò che solo qualche attività
poteva risollevare il morale dell’esercito. Così l’esercito partì
per al-Adiliya, al fine di conquistarla.
Ormai al-Kamil non poteva sloggiare i cristiani, nemmeno con l’aiuto
del fratello, al-Muazzam. Il fiume, le lagune e i canali rendevano impossibile
ai musulmani di approfittare della loro superiorità numerica: fallirono
gli attacchi contro i due campi, sull’argine occidentale e ad al-Adiliya.
Nel frattempo il sultano al-Muazzam decise di smantellare Gerusalemme.
Poteva essere necessario, per porre fine alla guerra, offrirla ai cristiani,
e in tal caso sarebbe stata loro consegnata distrutta ed impossibile da
difendere. La demolizione delle mura cominciò il 19 marzo e causò
panico nella città.
Dopo Gerusalemme anche le fortezze della Galilea, Toron, Safed e Banyas,
furono tutte smantellate. Al tempo stesso i due sultani chiamarono in soccorso
l’intero mondo musulmano, rivolgendo le loro invocazioni in modo particolare
al califfo di Bagdad; questi promise di inviare un grande esercito, che
non venne mai.
Il gelido inverno fu seguito da una caldissima estate ed il morale
dei crociati si abbatté di nuovo. Dopo aver respinto il 20 luglio
un energico attacco musulmano contro il campo, con gravi perdite da ambedue
le parti, i crociati si concentrarono nel bombardamento delle mura della
città. Il primo attacco fu interrotto da uno improvviso dei musulmani,
che furono sconfitti solo dalle tenebre. Il 6 agosto un secondo assalto
alle mura fu ugualmente vano.
I rovesci spinsero all’azione i soldati semplici della crociata. Essi
rimproveravano ai loro capi pigrizia e cattiva strategia. Leopoldo d’Austria
lasciò l’esercito in maggio. Il suo coraggio aveva cancellato la
cattiva reputazione acquistata con i suoi alterchi con Riccardo Cuor di
Leone durante la terza crociata. Egli recò con sé in patria
un frammento della Vera Croce. Verso la fine di agosto, mentre re Giovanni
e Pelagio litigavano furiosamente sulla strategia, i soldati assunsero
l’iniziativa per conto loro e il 29 si riversarono in massa disordinata
contro le linee musulmane. Questi finsero di ritirarsi, poi contrattarono.
Ma soltanto l’abilità di re Giovanni e l’azione dei nobili francesi
ed inglesi e degli ordini militari salvarono i superstiti e difesero il
campo.
Un certo giorno di settembre, giunse da parte del sultano un prigioniero
franco per offrire una breve tregua e per accennare al fatto che i musulmani
erano disposti a cedere Gerusalemme. La tregua fu accettata; ma i cristiani
si rifiutarono di discutere più impegnative proposte di pace.
Ambedue le parti impiegarono la tregua per riparare le proprie opere
di difesa. Molti crociati trovarono che era un’occasione propizia per tornarsene
a casa. Il buco causato dalla fuga dei crociati impegnati in Palestina
fu sanato dall’arrivo del nobile francese Sauvary con una compagnia trasportata
da dieci galee genovesi. Quando al-Kamil il 26 ruppe la tregua ed attaccò
i franchi, i nuovi venuti sostennero validamente l’urto.
Al-Kamil sperava ancora nella pace. Alla fine di ottobre il sultano
inviò due cavalieri prigionieri per recare ai franchi le sue proposte
definitive. Se avessero evacuato l’Egitto egli avrebbe restituito loro
la Vera Croce ed avrebbe ceduto Gerusalemme, tutta la Palestina centrale
e la Galilea. I musulmani avrebbero conservato soltanto i castelli dell’Oltregiordano,
ma avrebbero pagato per essi un tributo.
Era un’offerta sensazionale. Senza più combattere la Città
Santa con Betlemme, Nazaret e la Vera Croce potevano essere restituite
alla cristianità. Re Giovanni consigliò di accettare ed i
suoi baroni e quelli d’Inghilterra di Francia e di Germania lo appoggiarono.
Ma Pelagio non ne voleva sapere, e nemmeno il patriarca di Gerusalemme,
pensando che fosse male scendere a patti con l’infedele. Gli ordini militari
erano d’accordo con loro per ragioni strategiche.
Pochi giorni dopo una pattuglia di esploratori inviata dal cardinale
riferì che il muro esterno di Damietta era sguarnito di uomini.
Il giorno dopo, martedì 5 novembre 1219, i crociati avanzarono in
forze, e superarono il muro esterno, poi quello interno, senza quasi incontrare
resistenza.
Dopo la conquista, bisognava poi decidere quale sarebbe stato il futuro
governo di Damietta. Re Giovanni pretese subito che venisse ammessa al
regno di Gerusalemme. Pelagio sosteneva che la città conquistata
apparteneva a tutta la cristianità, cioè alla Chiesa. Ma,
nonostante tutto, arrivò ad un compromesso: il re l’avrebbe governata
finché Federico di Germania si fosse unito alla crociata.
Quando giunse l’inverno, in tutto l’esercito vittorioso covava lo scontento,
da quando Pelagio non volle sostenere i crociati italiani nella conquista
di Tanis.
Pelagio, nei suoi primi momenti di esaltazione, prevedeva la distruzione
finale dell’Islam: la crociata avrebbe conquistato tutto l’Egitto.
Ma la crociata che si trovava in Egitto non si mosse e durante la sua
inattività aumentarono le dispute tra Pelagio, re Giovanni, gli
italiani e gli ordini militari.
Al-Kamil si trovava in una situazione disperata: il suo esercito era
scoraggiato, i suoi sudditi affamati, al-Muazzam insisteva per ricondurre
le proprie forze in Siria poiché temeva disordini nel nord e credeva
che in quel momento si potesse giovare maggiormente all’Islam con un attacco
contro Acri stessa. Aspettando di giorno in giorno notizie di un’avanzata
cristiana, al-Kamil stabilì il suo accampamento a Talkha, poche
miglia a monte lungo il braccio del Nilo di Damietta e costruì fortificazioni
sulle due sponde del fiume in attesa di un’offensiva che non venne mai.
I rapporti del re con Pelagio erano così cattivi che non c’era
per lui nessun motivo di rimanere con l’esercito e perciò il papa
affidò ormai chiaramente al legato il comando supremo. Re Giovanni
decise così di partire nel 1220 per l’Armenia, dove doveva riscattare
il suo diritto al trono. Ma sua moglie, figlia ed erede del defunto re
armeno, morì; quando anche il loro figlioletto morì poche
settimane dopo, Giovanni perse ogni diritto al trono armeno; ma non ritornò
in Egitto.
In marzo al-Muazzam invase il regno, attaccando il forte di Cesarea,
che era appena stato ricostruito e andando poi ad assediare Athlit, roccaforte
dei templari. I cavalieri del Tempio tornarono precipitosamente da Damietta
e re Giovanni tenne il suo esercito ad una certa distanza. L’assedio durò
fino a novembre quando al-Muazzam si ritirò a Damasco.
Nel frattempo la crociata rimaneva ferma a Damietta. Intanto al-Kamil
aveva ripreso fiducia. Sebbene fosse ancora a corto di forze terrestri,
aveva ricostruito la flotta; nell’estate del 1220 una squadra discese il
braccio del Nilo di Rosetta e salpò per Cipro, dove trovò
una flotta crociata all’ancora davanti a Limassol e con un contatto improvviso
affondò o catturò le navi, facendo molte migliaia di prigionieri.
In settembre altri crociati ancora tornarono a casa. Ma alla fine dell’anno
papa Onorio inviò buone notizie. Federico era venuto a Roma nel
novembre del 1220 ed il papa aveva incoronato lui imperatore. In cambio
Federico aveva promesso in modo categorico di partire per l’Oriente nella
primavera seguente. Onorio ormai diffidava delle promesse di Federico
e consigliò perfino a Pelagio di non respingere nessuna proposta
di pace da parte del sultano senza riferirne a Roma.
Il 4 luglio Pelagio ordinò un digiuno di tre giorni nel campo.
Il 6 re Giovanni giunse di ritorno con i cavalieri del suo regno, pieno
di pessimismo, ma non disposto a lasciarsi accusare di codardia. Il 12
le forze crociate mossero verso Fariskur, e quivi Pelagio le dispose in
ordine di battaglia. Era un esercito imponente: i contemporanei
parlano di 630 navi di varie dimensioni, cinquemila cavalieri, quattromila
arcieri e quarantamila fanti. Una numerosa guarnigione venne lasciata a
Damietta.
L’esercito musulmano avanzò fino a Sharimshah per incontrarli,
ma vedendo il loro numero si ritirò oltre il Bahr as-Saghir, aspettando
su posizioni prestabilite. Al 20 luglio i crociati avevano già occupato
Sharimshah. Re Giovanni li pregò di fermarsi lì: era l’epoca
delle inondazioni del Nilo e l’esercito siriano stava avvicinandosi. Ma
Pelagio insistette per un’ulteriore avanzata, sostenuto dai soldati semplici
che avevano udito voci di una fuga del sultano dal Cairo. I crociati, nella
fretta di avanzare, non lasciarono nessuna nave di guardia alla foce del
fiume, forse perché pensavano che non fosse navigabile. Il sabato
24 luglio l’intero esercito cristiano si trovava lungo il Bahr as-Saghir,
di fronte al nemico.
Il livello del Nilo era cresciuto ed il canale era pieno d’acqua perciò
facile da difendere, ma prima che l’acqua fosse troppo profonda gli eserciti
dei fratelli di al-Kamil lo avevano attraversato vicino al lago di Manzaleh
e si erano schierati tra i crociati e Damietta. Appena ci fu abbastanza
acqua nel canale vicino a Sharimshah, le navi di al-Kamil discesero il
fiume e tagliarono la ritirata alla flotta cristiana. Verso la metà
di agosto Pelagio si rese conto che il suo esercito era inferiore di numero
e completamente accerchiato, con viveri sufficienti soltanto per venti
giorni. Dopo alcune discussioni i bavaresi persuasero il comando che l’unica
possibilità stava in un’immediata ritirata. Nella notte di giovedì
26 agosto la ritirata cominciò. Era però male organizzata.
Il Nilo continuava a crescere; ed il sultano diede l’ordine di aprire le
chiuse lungo l’argine destro. L’acqua si riversò sulle terre basse
che i cristiani dovevano attraversare. Essi procedevano a fatica tra pozzanghere
fangose e fossati, inseguiti da vicino dalla cavalleria turca del sultano
e dalla fanteria scelta della Nubia. Re Giovanni ed i suoi cavalieri sconfissero
la prima ed i cavalieri militari respinsero i nubii., ma non prima che
fossero periti a migliaia fanti e pellegrini. Sulla sua nave Pelagio fu
trasportato rapidamente dalle acque dell’inondazione oltre il blocco della
flotta egiziana; ma poiché aveva con sé le provviste di medicinali
dell’esercito e la maggior parte dei viveri la sua fuga fu un disastro.
Poche altre navi scamparono; molte invece furono catturate.
La fine
della quinta crociata
Il sabato 28 Pelagio abbandonò ogni speranza e mandò
un messaggero al sultano per trattare la pace. Egli aveva ancora qualche
base su cui negoziare: Damietta era stata di nuovo fortificata ed aveva
una buona guarnigione con abbondanti armi; e una forte squadra navale,
inviata dall’imperatore Federico, si trovava al largo sotto il comando
di Enrico, conte di Malta, e di Gualtiero di Palear, cancelliere di Sicilia.
Ma al-Kamil sapeva di avere alla sua mercè il grosso dell’esercito
crociato; fu risoluto ma generoso. Dopo aver discusso negli ultimi giorni
della settimana, al lunedì Pelagio accettò le sue condizioni:
i cristiani avrebbero abbandonato Damietta ed osservato una tregua di otto
anni, che doveva essere confermata dall’imperatore. Vi sarebbe stato uno
scambio di prigionieri da ambe le parti. Dal canto suo il sultano avrebbe
restituito la Vera Croce. La crociata doveva consegnare i propri capi come
ostaggi finché Damietta non si fosse arresa. Al-Kamil indicò
Pelagio, re Giovanni, il duca di Baviera, i maestri degli ordini ed altri
diciotto conti e vescovi. Egli inviò in cambio uno dei suoi figli,
uno dei suoi fratelli ed un certo numero di giovani emiri.
Era appena giunto Enrico, conte di Malta, con quaranta navi ed essi
si sentivano abbastanza forti per sfidare il nemico. Ma stava venendo l’inverno
ed il cibo era scarso; i loro capi erano trattenuti come ostaggi ed i musulmani
minacciavano di marciare su Acri. I ribelli cedettero ben presto. Dopo
che al-Kamil ebbe offerto a re Giovanni uno splendido banchetto ed ebbe
rifornito largamente di vettovaglie l’esercito cristiano, gli ostaggi furono
restituiti scambievolmente; il mercoledì 8 settembre l’intera crociata
si imbarcò sulle proprie navi ed il sultano fece il suo ingresso
in Damietta.
La quinta crociata era finita. Era giunto molto vicino al successo.
Se ci fosse stato nell’esercito cristiano un capo prudente e rispettato,
il Cairo poteva essere occupato ed il regime ayubita in Egitto distrutto.
Ma l’imperatore, il solo che avrebbe potuto esercitare quella funzione,
non giunse mai, nonostante sue promesse.
Come
si arriva alla fine della crociata
Pelagio era un uomo arrogante, privo di tatto e impopolare, ed i suoi
difetti come stratega si rivelarono nell’ultima disastrosa offensiva; mentre
re Giovanni, sebbene fosse un valoroso, non aveva né la personalità,
né il prestigio necessari per comandare un esercito internazionale.
Quasi ogni fase della campagna era stata rovinata dalle gelosie personali
o nazionali. Sarebbe stato più saggio accettare le condizioni offerte
per due volte dal sultano e riprendere Gerusalemme. Allo stato dei fatti,
nulla era stato guadagnato e molto era stato perduto, uomini, risorse e
reputazioni. E le vittime più infelici erano le meno colpevoli.
La paura verso i cristiani occidentali provocò una nuova ondata
di fanatismo nell’Islam.
In Egitto, sebbene al-Kamil fosse personalmente tollerante, furono
imposte ai cristiani indigeni, sia melchiti, sia copti, nuove limitazioni
di libertà. Si riscossero tasse esorbitanti, si chiusero chiese,
e molte altre furono saccheggiate dalla soldataglia musulmana furibonda.
I soldati della croce ripartirono per i loro paesi coperti di un’onta amara
e ben meritata. Essi non riportarono con sé neppure la Vera Croce:
quando infatti giunse il momento della sua restituzione non la si poté
trovare.