Seneca - Epistulae morales ad Lucilium
Liber V (XLII-LII)

XLVII - Sono schiavi, ma anche uomini

Seneca Lucilio suo salutem.
Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. "Servi sunt". Immo homines. "Servi sunt". Immo contubernales. "Servi sunt". Immo humiles amici. "Servi sunt". Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. [...]

Seneca saluta il suo Lucilio.
Con piacere ho appreso dalle persone che vengono dalla tua casa che tratti familiarmente i tuoi schiavi: ciò si addice alla tua saggezza ed alla tua cultura. "Sono schiavi". Sì, ma anche uomini. "Sono schiavi". Si ma anche compagni di abitazione. "Sono schiavi". Si ma anche umili amici. "Sono schiavi". Si ma anche compagni di schiavitù, se penserai che gli uni e gli altri sono soggetti alla volontà della fortuna. Pertanto rido di costoro che giudicano disonorevole pranzare col proprio servo: per quale ragione se non perché è una consuetudine molto superba, mette attorno al padrone durante il pranza, una moltitudine di schiavi che stanno in piedi? Egli mangia più di quanto è capace di contenere, e con straordinaria avidità sovraccarica il ventre già pieno e non più avvezzo a compiere le funzioni del ventre, così che espelle ogni cosa con maggiore fatica di quella con cui la introdusse. Ma ai disgraziati schiavi non è lecito neppure muovere le labbra, neppure per parlare. Ogni sussurro è represso con la verga e neppure quei fatti fortuiti, la tosse, gli starnuti, i singulti, sfuggono alle percosse; l'interruzione del silenzio con una parola la si sconta con una pena; durante tutta la notte stanno in piedi senza mangiare, in silenzio. Così accade che costoro non potendo parlare in presenza del padrone, sparlino del padrone. [...]