M. Cicero s.d. Curioni. |
Marco Cicerone saluta Curione. |
M. Cicero s.d. Ser. Sulpicio. |
Io davvero, Servio, vorrei, come scrivi, che tu fossi stato con me nella mia gravissima disgrazia. Quanto avresti potuto infatti aiutarmi con la tua presenza confortandomi e soffrendo quasi con me lo capisco facilmente dal fatto che ho trovato alquanto sollievo una volta lette le lettere. Infatti hai scritto parole tali da poter alleviare il mio lutto e consolandomi hai dimostrato tu stesso un grande dolore dell'animo. Tuttavia il tuo Servio dimostrò con tutte le premure che si poterono accordare in quel frangente quanto mi tenesse in considerazione e quanto pensava che ti sarebbe stata gradita una tale disposizione d'animo nei miei confronti. E le sue premure mi furono spesso certamente assai bene accette, tuttavia mai più gradite. Mi procurano conforto non solo le tue parole e la tua partecipazione al mio dolore,ma anche la tua autorevolezza. Ritengo infatti vergognoso che io non sopporti così la mia disgrazia come tu dotato di tale saggezza pensi che si debba sopportare. Ma sono talvolta oppresso e a stento resisto al dolore, poiché mi mancano quelle consolazioni che non mancarono in una simile circostanza ad altri, la cui condotta esemplare mi è presente. Infatti sia Quinto Massimo che perse il figlio ex console, uomo famoso anche per le grandi imprese, sia Lucio Paolo, che in sette giorni ne perse due, sia il vostro Gallo, sia Marco Catone, che perse un figlio di sommo ingegno e virtù vissero in tempi tale che il prestigio degli stessi consolò il loro dolore, cose che scaturivano dallo stato. Ma a me, perduti quegli onori che tu stesso menzioni e che avevo ottenuto grazie a grandissime fatiche, rimaneva quel solo conforto che mi è stato sottratto. Non ostacolavano il corso dei miei pensieri né gli affari degli amici né le cure dello stato, non mi piaceva fare niente nel foro, non potevo rivolgere l'attenzione alla curia, pensavo, cosa che effettivamente era, di aver perso tutti i vantaggi della mia attività e della sorte. Ma mentre pensavo di avere in comune queste cose con te e con alcuni e mentre mi dominavo da me stesso e mi costringevo a sopportarle con pazienza, avevo dove rifugiarmi, dove trovare riposo, qualcuno nella cui dolce conversazione riversare tutti gli affanni e i dolori. Ma ora per questa così profonda ferita anche tutte quelle che sembravano aver cominciato a risanarsi tornano a sanguinare. Infatti, come allora dalla vita pubblica accoglieva me triste una casa che mi offriva conforto, così ora da casa afflitto non posso rifugiarmi nello stato in modo da trovare pace nei suoi vantaggi. Pertanto sono distante da casa e dallo stato, poiché né la casa può ormai consolare quel dolore che ricevo dalla vita pubblica, né lo stato quello familiare. Tanto più ti aspetto e desidero vederti quanto prima. Nessun maggior sollievo mi si può arrecare che il vincolo della nostra amicizia e dei nostri discorsi; pertanto spero che il tuo arrivo si avvicini (così infatti sento dire). Ma io desidero vederti quanto prima sia per molte ragioni sia anche affinché riflettiamo prima tra noi in quale modo dobbiamo trascorrere questo periodo di tempo, cosa che è da conformare alla volontà di uno solo, saggio e liberale e, come mi pare d'aver visto chiaramente, senza ostilità nei miei riguardi e pieno di amicizia nei tuoi. Stando così le cose, tuttavia dobbiamo vagliare quale condotta adottare non per fare qualcosa, ma per stare tranquillo grazie al suo favore e alla sua benevolenza. Sta' bene. |
Cicero Basilo sal. |
Cicerone saluta Basilo |
Tullius s.d.
Terentiae et Tulliae et Ciceroni suis. |
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia e la sua Tullia e
il suo Cicerone. |
Tullius Terentiae suae sal. |
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia. |
Tullius Terentiae suae sal. |
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia. |
Tullius Terentiae suae sal. |
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia. |
Tullius Terentiae suae sal. |
Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia. |
Tullius Tironi sal. |
Tullio (Cicerone) saluta Tirone. |
Tullius Tironi sal. |
Tullio (Cicerone) saluta Tirone. |
Cicero Attico sal. |
Cicerone saluta Attico. |
Nihil mihi nunc scito tam deesse quam hominem eum, quocum omnia, que me cura aliqua adficiunt, uno communicem, qui me amet, qui sapiat, quicum ego cum loquar, nihil fingam, nihil dissimulem, nihil obtegam. Abest enim frater aphelestatos et amantissimus. Metellus non homo, sed "litus atque aer et solitudo mera". Tu autem, qui saepissime curam et angorem animi mei sermone et consilio levasti tuo, qui mihi et in publica re socius et in privatis omnibus conscius et omnium meorum sermonum et consiliorum particeps esse soles, ubinam es? Ita sum ab omnibus destitutus. ut tantum requietis habeam, quantum cum uxore et filiola et mellito Cicerone consumitur. Nam illae ambitiosae nostrae fucosaeque amicitiae sunt in quodam splendore forensi, fructum domesticum non habent. Itaque, cum bene completa domus est tempore matutino, cum ad forum stipati gregibus amicorum descendimus, reperire ex magna turba neminem possumus, quocum aut iocari libere aut suspirare familiariter possimus. Quare te exspectamus, te desideramus, te iam etiam arcessimus. Multa sunt enim, quae me sollicitant anguntque; quae mihi videor aures nactus tuas unius ambulationis sermone exhaurire posse. [...] |
Sappi che ora niente mi manca tanto quanto una persona con cui poter condividere tutto ciò che mi procura una qualche inquietudine, che mi voglia bene, che sia saggia, con cui io possa, quando parlo, nulla dire falsamente, nulla fingere, nulla nascondere. Mi manca infatti un fratello tanto sincero e affezionato. Metello non è uomo ma "spiaggia e aria e pura solitudine". Ma tu che molto spesso con le tue parole e la tua saggezza nel darmi consigli hai risollevato l'inquietudine e l'angoscia del mio animo, che sei solito essermi compagno nella politica, confidente della mia vita privata e complice di tutte le mie orazioni e decisioni, dove sei mai? Sono abbandonato da tutti cosicché trovo un po' di pace solo nel tempo che trascorro con mia moglie, la mia figlioletta e il dolcissimo Cicerone. Infatti quelle (famose= nostre amicizie ambiziose e false sono, per così dire, per il lustro pubblico, non comportano alcuna gioia familiare. Pertanto quando la casa è completamente piena di mattina, quando scendiamo al foro strettamente attorniati da schiere di amici non possiamo trovare nessuno nella larga folla col quale poter scherzare liberamente o sfogarci familiarmente. Perciò ti aspettiamo, sentiamo la tua mancanza, ti chiamiamo anche subito. Molte sono infatti le cose che mi preoccupano e mi angosciano, che mi sembra di poter distruggere una volta ottenuto il tuo ascolto nella conversazione di una sola passeggiata. [...] |
Le versioni sono di Giorgia
Cicero Attico salutem dicit. |
Cicerone saluta Attico. |
Cicero Attico sal. |
Cicerone saluta Attico. |
Cicero Attico sal. |
Cicerone saluta Attico. |
Cicero Attico sal. |
Cicerone saluta Attico. |
[...] Ligarianam, ut video, praeclare auctoritas tua commendavit. Scripsit enim ad me Balbus et Oppius mirifice se probare ob eamque causam ad Caesarem eam se oratiunculam misisse. Hoc igitur idem tu mihi antea scripseras. In Varrone ista causa me non moveret ne viderer jilendoxoV (sic enim constitueram neminem includere in dialogos eorum qui viverent); sed quia <scribis> et desiderari a Varrone et magni illum aestimare, eos confeci et absolvi nescio quam bene, sed ita accurate ut nihil posset supra, academicam omnem quaestionem libris quattuor. In eis quae erant contra akatalhyian praeclare conlecta ab Antiocho, Varroni dedi. Ad ea ipse respondeo; tu es tertius in sermone nostro. Si Cottam et Varronem fecissem inter se disputantis, <ut> a te proximis litteris admoneor, meum kwjon proswpon esset. Hoc in antiquis personis suaviter fit, ut et Heraclides in multis et nos <in> vi "De re publica" libris fecimus. Sunt etiam "De oratore" nostri tres mihi vehementer probati. In eis quoque eae personae sunt ut mihi tacendum fuerit. Crassus enim loquitur, Antonius, Catulus senex, C. Iulius frater Catuli, Cotta, Sulpicius. Puero me hic sermo inducitur, ut nullae esse possent partes meae. Quae autem his temporibus scripsi Aristoteleion morem habent in quo ita sermo inducitur ceterorum ut penes ipsum sit principatus. Ita confeci quinque libros peri telwn ut Epicurea L. Torquato, Stoica M. Catoni, peripathtika M. Pisoni darem. Azhlotuphton id fore putaram quod omnes illi decesserant. Haec "academica", ut scis, cum Catulo, Lucullo, Hortensio contuleram. Sane in personas non cadebant; erant enim logikwtera quam ut illi de iis somniasse umquam viderentur. Itaque ut legi tuas de Varrone, tamquam ermaion adripui. Aptius esse nihil potuit ad id philosophiae genus quo ille maxime mihi delectari videtur, easque partis ut non sim consecutus ut superior mea causa videatur. Sunt enim vehementer piqana Antiochia; quae diligenter a me expressa acumen habent Antiochi, nitorem orationis nostrum si modo is est aliquis in nobis. Sed tu dandosne putes hos libros Varroni <etiam> atque etiam videbis. Mihi quaedam occurrunt; sed ea coram. |
[...] Come vedo, la tua autorità ha mirabilmente dato prestigio all'orazione in difesa di Ligario. Balbo e Oppio infatti mi hanno scritto di averla straordinariamente apprezzata e per questo motivo di aver inviato a Cesare una copia del discorsetto. (Anche) tu d'altra parte mi avevi scritto prima questa stessa cosa. Per quanto riguarda Varrone il motivo di cui tu parli non avrebbe potuto cancellarmi per non sembrare avido di fama (avevo infatti deciso di non includere nessun personaggio vivente nei dialoghi); ma poiché mi avevi scritto che era desiderio di Varrone e che lui ci teneva molto, li ho inclusi e ho completato non so quanto opportunamente, ma tanto accuratamente che non è possibile fare di più, tutta la problematica della Nuova Accademia in quattro libri. Tra questi ho assegnato quelli che erano gli argomenti mirabilmente raccolti da Antioco contro l'incomprensibilità dei fenomeni a Varrone. Io stesso rispondo a quegli argomenti; tu sei il terzo nel nostro dialogo. Se avessi fatto disputare Cotta e Varrone tra di loro, come mi hai esortato in una lettera precedente, il mio sarebbe un personaggio muto. Questo accade piacevolmente nei personaggi del tempo passato come Eraclide ha fatto in molti suoi libri e noi nei sei tomi del "De Republica"; anche i nostro tre del "De oratore" mi sono vivamente graditi; anche in quelli ci sono personaggi tali che ho dovuto tacere. Parlano infatti Crasso, Antonio, Catulo da vecchio, Gaio Giulio, fratello di Catulo, Cotta, Sulpicio; questo dialogo è ambientato quando io ero ragazzo, sicché non potevo in nessun modo farne parte. Le opere invece che ho scritto in tempi presenti seguono il metodo aristotelico, nel quale la discussione degli altri è organizzata nel modo che quasi sempre a lui viene riservata la parte principale. Ho portato così a termine cinque libri "sui termini (del bene e del male)" (sta parlando del "De finibus") da attribuire la dottrina epicurea a Lucio Torquato, la dottrina stoica a Catone l'Uticense e i principi morali accademico-peripatetici a Marco Pisone; avevo ritenuto che ciò non sarebbe stato oggetto d'invidia, perché tutti costoro erano morti. A queste discussioni di filosofia accademica, come tu sai, avevo preso parte con Catulo, Lucullo, Ortensio. Ma esse non convenivano davvero a quei personaggi; erano infatti ragionamenti troppo sottili perché essi pensassero di averli mai sognati. Pertanto come ho letto la tua lettera su Varrone, l'ho presa come un dono di Ermes: niente avrebbe potuto essere più adatto a quel genere di filosofia, di cui lui mi sembra compiacersi massimamente, e a una parte così positiva da non essere riuscito a conseguire il risultato che le mie argomentazioni in difesa sembrassero superiori. Gli argomenti di Antioco sono assai persuasivi: quelli da me scrupolosamente enunciati hanno la sottigliezza di Antioco, ma anche la limpidezza del nostro linguaggio, se questo è di un qualche valore per noi. Ma tu vedrai e rivedrai se questi libri si devono dedicare a Varrone. Mi vengono in mente alcune cose; ma ciò a voce. |
[...] Nunc neglegentiam meam cognosce. "De
gloria" librum ad te misi. At in eo prohoemium idem est quod in
academico tertio. Id evenit ob eam rem quod habeo volumen prohoemiorum. Ex eo
eligere soleo cum aliquod suggrama
institui. Itaque iam in Tusculano, qui non meminissem me abusum isto
prohoemio, conieci id in eum librum quem tibi misi. Cum autem in navi legerem academicos, adgnovi
erratum meum. Itaque statim
novum prohoemium exaravi et tibi misi. Tu illud desecabis, hoc adglutinabis.
Piliae salutem dices et Atticae, deliciis atque amoribus meis. |
[...] Ora nota la mia trascuratezza. Ti ho mandato il libro "De gloria" e in esso quel proemio che è nel terzo "Accademico". Ciò è accaduto per quella ragione poiché ho una raccolta di proemi; sono solito attingerne quando ho composto un trattato. Pertanto già nella villa di Tuscolo, poiché non ricordavo di aver utilizzato il proemio che già conosci, l'ho messo in quel libro che ti ho mandato. Ma quando sulla nave ho letto gli Accademica, ho constatato il mio errore. Pertanto ho subito scritto un nuovo proemio e te l'ho mandato. Tu separerai quello, aggiungerai questo. Salutami Pila e Attica, mie tenerissime amiche. |
[...] Haec ad posteriorem. Ta
peri tou kaqhkontoV quatenus Panaetius, absolvi duobus. Illius tres
sunt; sed cum initio divisisset ita, tria genera exquirendi offici esse,
unum, cum deliberemus honestum an turpe sit, alterum, utile an inutile,
tertium, cum haec inter se pugnare videantur, quo modo iudicandum sit, qualis
causa Reguli, redire honestum, manere utile, de duobus primis praeclare
disseruit, de tertio pollicetur se deinceps sed nihil scripsit. Eum locum Posidonius persecutus
<est>. Ego
autem et eius librum arcessivi et ad Athenodorum Calvum scripsi ut ad me ta kejalaia mitteret; quae exspecto. Quem velim cohortere et roges ut quam
primum. In eo est peri tou kata
peristasin kaqhkontoV. Quod
de inscriptione quaeris, non dubito quin kaqhkon
"officium" sit, nisi quid tu aliud; sed inscriptio plenior "de
officiis". Prosjwnw autem
Ciceroni filio. Visum est non anoikeion. |
[...] E ora, alla seconda lettera. Ho trattato in due libri la materia intorno ai doveri fin dove l'ha trattata Panezio. I suoi sono tre; ma nonostante all'inizio avesse diviso (la materia) così, (affermando) che tre sono le questioni nello studio del dovere, la prima quando giudichiamo se un'azione è onesta o disonesta, la seconda se è utile o inutile, la terza quando sembra che questi principi siano in contrasto fra loro, in quale modo si debba giudicare, come il caso di Regolo, per cui onesto era il ritornare, utile il rimanere, espose molto chiaramente le prime due, della terza promette che ne avrebbe trattato in seguito, ma non ne scrisse nulla. Questa parte l'ha trattata Posidonio. Io, da parte mia, mi sono procurato il suo libro e ho scritto ad Atenodoro il Calvo per farmi mandare i sommari dei capitoli; che sto aspettando. Vorrei che tu lo incitassi e pregassi di mandarmeli quanto prima. In esso tratta del dovere in rapporto alle circostanza. Quanto a ciò che chiedi riguardo al titolo, non dubito che "kaqhkon" sia "officium", a meno che tu non abbia di meglio; ma il titolo più completo è "De officiis". Lo dedicherò a (mio) figlio Cicerone; non mi sembra fuori luogo. |
Cicero Bruto sal. |
Cicerone saluta Bruto |