Cicerone - In Catilinam
Liber III

I

Rem publicam, Quirites, vitamque omnium vestrum bona, fortunas, coniuges liberosque vestros atque hoc domicilium clarissumi imperii, fortunatissimam pulcherrimamque urbem, hodierno die deorum inmortalium summo erga vos amore, laboribus, consiliis, periculis meis e flamma atque ferro ac paene ex faucibus fati ereptam et vobis conservatam ac restitutam videtis.

È lo Stato, Quiriti, è la vita di voi tutti, sono i beni, le proprietà, le vostre mogli e i vostri figli, è la capitale di un impero al culmine della gloria, è Roma, città che gode della massima fortuna e prosperità, è tutto questo che, oggi, vedete strappato al fuoco e al ferro, quasi alle fauci di un destino funesto, che vedete salvo e a voi restituito grazie alla suprema benevolenza che gli dèi immortali vi concedono e grazie ai miei sforzi, alle mie iniziative, ai pericoli che ho affrontato.

II

Et si non minus nobis iucundi atque inlustres sunt ii dies, quibus conservamur, quam illi, quibus nascimur, quod salutis certa laetitia est, nascendi incerta condicio, et quod sine sensu nascimur, cum voluptate servamur, profecto, quoniam illum, qui hanc urbem condidit, ad deos inmortalis benivolentia famaque sustulimus, esse apud vos posterosque vestros in honore debebit is, qui eandem hanc urbem conditam amplificatamque servavit. Nam toti urbi, templis, delubris, tectis ac moenibus subiectos prope iam ignis circumdatosque restinximus, idemque gladios in rem publicam destrictos rettudimus mucronesque eorum a iugulis vestris deiecimus.

E se il giorno in cui abbiamo salva la vita non ci è meno caro e prezioso del giorno in cui nasciamo, perché è certa la gioia della salvezza, ma incerta la condizione del nascere, e perché nasciamo senza averne consapevolezza, ma ci salviamo con soddisfazione, dal momento che, per riconoscenza, abbiamo elevato al rango degli dèi immortali il fondatore di questa città, sarà doveroso, per voi e i vostri posteri, onorare chi ha salvato questa stessa città, una città che è cresciuta dai tempi della sua fondazione. Avevano quasi ormai appiccato i fuochi tutt'intorno a Roma, nei templi, nei santuari, nelle case, alle mura: li abbiamo spenti. Avevano sguainato le spade contro lo Stato: le abbiamo respinte. Avevano puntato i pugnali alla vostra gola: li abbiamo abbattuti.

III

Quae quoniam in senatu inlustrata, patefacta, comperta sunt per me, vobis iam exponam breviter, Quirites, ut, et quanta et quam manifesta et qua ratione investigata et comprehensa sint, vos, qui et ignoratis et expectatis, scire possitis. Principio ut Catilina paucis ante diebus erupit ex urbe, cum sceleris sui socios huiusce nefarii belli acerrimos duces Romae reliquisset, semper vigilavi et providi, Quirites, quem ad modum in tantis et tam absconditis insidiis salvi esse possemus. Nam tum, cum ex urbe Catilinam eiciebam (non enim iam vereor huius verbi invidiam, cum illa magis sit tiunenda, quod vivus exierit), sed tum, cum illum exterminari volebam, aut reliquam coniuratorum manum simul exituram aut eos, qui restitissent, infirmos sine illo ac debiles fore putabam.

Io ho scoperto, messo in luce, illustrato ogni cosa in Senato. Ora, non mi resta che esporvi brevemente i fatti: voi, che ne siete all'oscuro e desiderate esserne informati, potrete così valutarne l'entità, l'evidenza e in che modo siano stati investigati e controllati. Per prima cosa, non appena Catilina, pochi giorni fa, è sparito lasciando a Roma i complici della sua azione criminale, i capi più feroci di questa guerra nefasta, io, Quiriti, ho sempre vigilato e provveduto alla nostra salvezza, pur tra insidie tremende e oscure. Infatti, quando cercavo di esiliare Catilina (non temo più di suscitare disapprovazione nel dire "esiliare"; anzi, mi rimprovero che Catilina se ne sia andato vivo), dunque, quando volevo bandirlo, pensavo che tutto il gruppo dei congiurati lo avrebbe seguito oppure che chi rimaneva in città, senza di lui, avrebbe perso forza e sicurezza.

IV

Atque ego ut vidi, quos maximo furore et scelere esse infiammatos sciebam, eos nobiscum esse et Romae remansisse, in eo omnes dies noctesque consumpsi, ut, quid agerent, quid molirentur, sentirem ac viderem, ut, quoniam auribus vestris propter incredibilem magnitudinem sceleris minorem fidem faceret oratio mea, rem ita comprehenderem, ut tum demum animis saluti vestrae provideretis, cum oculis maleficium ipsum videretis. Itaque, ut comperi legatos Allobrogum belli Transalpini et tumultus Gallici excitandi causa a P. Lentulo esse sollicitatos, eosque in Galliam ad suos civis eodemque itinere cum litteris mandatisque ad Catilinam esse missos, comitemque iis adiunctum esse T. Volturcium, atque huic esse ad Catilinam datas litteras, facultatem mihi oblatam putavi, ut, quod erat difficillimum, quodque ego semper optabam ab dis inmortalibus, ut tota res non solum a me, sed etiam a senatu et a vobis manifesto deprehenderetur.

Ma, non appena ho visto che stavano in mezzo a noi, che erano rimasti a Roma gli individui più fanatici e più violenti, come sapevo bene, ho trascorso giorni e notti a spiare cosa facessero, cosa preparassero. Certo che l'enormità del loro crimine vi avrebbe impedito di credere alle mie parole, ho dovuto coglierli sul fatto perché voi, vedendo con i vostri occhi il loro delitto, avreste finalmente provveduto a salvarvi. Così, non appena sono stato informato che Publio Lentulo aveva cercato di corrompere gli ambasciatori degli Allobrogi perché provocassero una guerra al di là delle Alpi e dei tumulti in Gallia Cisalpina; che questi ambasciatori, con lettere e indicazioni a voce, venivano rimandati dal loro popolo in Gallia, sì, ma per la stessa strada che conduce da Catilina; che li accompagnava Tito Volturcio portando con sé lettere per Catilina, ho pensato che mi fosse offerta un'occasione difficilissima a ripetersi, ma che ho sempre chiesto agli dèi immortali: che tutto il complotto fosse colto sul fatto non solo da me, ma anche da voi e dal Senato.

V

Itaque hesterno die L. Flaccum et C. Pomptinum praetores, fortissimos atque amantissimos rei publicae viros, ad me vocavi, rem eui, quid fieri placeret, ostendi. Illi autem, qui omnia de re publica praeclara atque egregia sentirent, sine recusatione ac sine ulla mora negotium susceperunt et, cum advesperasceret, occulte ad pontem Mulvium pervenerunt atque ibi in proximis villis ita bipertito fuerunt, ut Tiberis inter eos et pons interesset. Eodem autem et ipsi sine cuiusquam suspicione multos fortis viros eduxerant, et ego ex praefectura Reatina complures delectos adulescentes, quorum opera utor adsidue in rei publicae praesidio, cum gladiis miseram. Interim tertia fere vigilia exacta cum iam pontem Mulvium magno comitatu legati Allobrogum ingredi inciperent unaque Volturcius, fit in eos impetus; educuntur et ab illis gladii et a nostris. Res praetoribus erat nota solis, ignorabatur a ceteris. Tum interventu Pomptini atque Flacci pugna, quae erat commissa, sedatur. Litterae, quaecumque erant in eo comitatu, integris signis praetoribus tradunturipsi comprehensi ad me, cum iam dilucesceret, deducuntur. Atque horum omnium scelerum inprobissimum machinatorem, Cimbrum Gabinium, statim ad me nihildum suspicantem vocavi; deinde item accersitus est L. Statilius et post eum C. Cethegus; tardissime autem Lentulus venit, credo quod in litteris dandis praeter consuetudinem proxima nocte vigilarat.

Così, ieri ho convocato i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino, uomini di provato valore e della massima devozione allo Stato. Ho esposto loro la situazione. Li ho messi al corrente del mio piano. Subito, senza indugio, senza alcuna obiezione, perché nutrono per lo Stato i sentimenti più nobili, hanno accettato l'incarico e, sul far della sera, si sono recati segretamente al ponte Milvio. Lì, nascondendosi nelle case vicine, si sono divisi in due gruppi in modo da avere in mezzo il Tevere e il ponte. Senza generare il minimo sospetto, avevano portato con sé molti uomini intrepidi ed io avevo inviato dalla prefettura di Rieti un gruppo di giovani armati, ragazzi scelti della cui opera mi avvalgo spesso per difendere lo Stato. Erano quasi le tre del mattino, quand'ecco arrivare al ponte Milvio gli ambasciatori degli Allobrogi, con grande seguito, e Volturcio. Vengono subito attaccati. Da entrambe le parti si snudano le spade. Solo i pretori erano al corrente di tutta la vicenda, gli altri la ignoravano. Allora, per intervento di Pomptino e Flacco, cessa lo scontro [che era iniziato]. Tutte le lettere trovate in possesso degli uomini del seguito sono consegnate ai pretori con i sigilli intatti. Gli arrestati vengono condotti da me all'alba. Io mando a chiamare immediatamente il perverso ideatore di tutti questi crimini, Cimbro Gabinio, che non sospettava nulla. Poi convoco anche Lucio Statilio e, dopo di lui, Cetego. Per ultimo viene Lentulo forse perché, la notte prima, diversamente dalle sue abitudini, era stato sveglio per scrivere la sua lettera.

VI

Cum summis et clarissimis huius civitatis viris, qui audita re frequentes ad me mane convenerant, litteras a me prius aperiri quam ad senatum deferri placeret, ne, si nihil esset inrentum, temere a me tantus tumultus iniectus civitati videretur, negavi me esse facturum, ut de periculo publico non ad consilium publicum rem integram deferrem. Etenim, Quirites, si ea, quae erant ad me delata, reperta non essent, tamen ego non arbitrabar in tantis rei publicae periculis esse mihi nimiam diligentiam pertimescendam. Senatum frequentem celeriter, ut vidistis, coegi.

Al mattino, i più autorevoli esponenti della nostra città, venuti a conoscenza dell'accaduto, accorrono numerosi a casa mia e mi consigliano di aprire le lettere prima di portarle in Senato: se non avessero rivelato nulla di importante, avremmo evitato di creare inutili agitazioni in città. Mi sono rifiutato: era mio dovere, in una situazione di pericolo pubblico, rimettere la faccenda impregiudicata al Senato. E infatti, Quiriti, anche se non si fosse rivelato esatto quanto mi era stato riferito, ritenevo di non dover temere l'accusa di eccessiva scrupolosità trattandosi di seri pericoli per lo Stato. Ho convocato subito una seduta del Senato che, come avete visto, è stata affollata.

VII

Atque interea statim admonitu Allobrogum C. Sulpicium praetorem, fortem virum, misi, qui ex aedibus Cethegi, si quid o telorum esset, efferret; ex quibus ille maximum sicarum numerum et gladiorum extulit. Introduxi Volturcium sine Gallis; fidem publicam iussu senatus dedi; hortatus sum, ut ea, quae sciret sine timore indicaret. Tum ille dixit, cum vix se ex magno timore recreasset, a P. Lentulo se habere ad Catilinam mandata et litteras, ut servorum praesidio uteretur, ut ad urbem quam primum cum exercitu accederet; id autem eo consilio, ut, cum urbem ex omnibus partibus, quem ad modum discriptum distributumque erat, incendissent caedemque infinitam civium fecissent, praesto esset ille, qui et fugientis exciperet et se cum his urbanis ducibus coniungeret.

Nel contempo, su consiglio degli Allobrogi, ho mandato in casa di Cetego il pretore Caio Sulpicio, uomo di una certa tempra, a sequestrare le armi che avesse trovato. Ha requisito pugnali e spade a non finire. Introduco Volturcio senza i Galli. Col permesso del Senato, gli garantisco l'impunità. Lo esorto a rivelare senza paura quanto sa. Allora lui, riprendendosi a stento da una gran paura, dice di aver ricevuto da Publio Lentulo delle indicazioni e una lettera per Catilina in cui gli si diceva di ricorrere agli schiavi e dirigersi al più presto a Roma con l'esercito. La loro intenzione era di incendiare la città in ogni zona, come era stato stabilito in partenza, e di procedere al massacro della cittadinanza intera: Catilina doveva trovarsi sul posto per catturare i fuggiaschi e unirsi ai capi rimasti a Roma.

VIII

Introducti autem Galli ius iurandum sibi et litteras ab Lentulo, Cethego, Statilio ad suam gentem data esse dixerunt, atque ita sibi ab his et a L. Cassio esse praescriptum, ut equitatum in Italiam quam primum mitterent; pedestres sibi copias non defuturas. Lentulum autem sibi confirmasse ex fatis Sibyllinis haruspicumque responsis se esse tertium illum Cornelium, ad quem regnum huius urbis atque imperium pervenire esset necesse; Cinnam ante se et Sullam fuisse. Eundemque dixisse fatalem hunc annum esse ad interitum huius urbis atque imperii, qui esset annus decimus post virginum absolutionem, post Capitoli autem incensionem vice simus.

Dopo Volturcio è la volta dei Galli. Affermano che Publio Lentulo, Cetego e Statilio avevano prestato giuramento e consegnato loro delle lettere indirizzate al popolo allobrogico. Insieme a Lucio Cassio chiedevano ai Galli di inviare al più presto la cavalleria in Italia; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell'anno in corso, il decimo dall'assoluzione delle Vestali e il ventesimo dall'incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l'ineluttabile caduta di Roma e dell'impero.

IX

Hanc autem Cethego cum ceteris controversiam fuisse dixerunt, quod Lentulo et aliis Saturnalibus caedem fieri atque urbem incendi placeret, Cethego nimium id longum videretur. Ac ne longum sit, Quirites, tabellas proferri iussimus, quae a quoque dicebantur datae. Primo ostendimus Cethego; signum cognovit. Nos linum incidimus, legimus. Erat scriptum ipsius manu Allobrogum senatui et populo sese, quae eorum legatis confirmasset, facturum esse; orare ut item illi facerent, quae sibi eorum legati recepissent. Tum Cethegus, qui paulo ante aliquid tamen de gladiis ac sicis, quae apud ipsum erant deprehensa, respondisset dixissetque se semper bonorum ferramentorum studiosum fuisse, recitatis litteris debilitatus atque abiectus conscientia repente conticuit. Introductus est Statilius; cognovit et signum et manum suam. Recitatae sunt tabellae in eandem fere sententiam; confessus est. Tum ostendi tabellas Lentulo et quaesivi, cognosceretne signum. Adnuit. "Est vero", inquam, "notum quidem signum, imago avi tui, clarissimi viri, qui amavit unice patriam et cives suos; quae quidem te a tanto scelere etiam muta revocare debuit".

I Galli riferiscono anche di una discussione sorta tra Cetego e gli altri congiurati: questi ultimi e Lentulo proponevano di fissare il massacro e l'incendio della città per i Saturnali, Cetego trovava questa data troppo lontana. Per non dilungarmi troppo, Quiriti, facciamo portare le tavolette che ciascun congiurato avrebbe scritto. Il primo a cui mostriamo il sigillo è Cetego: lo riconosce. Tagliamo lo spago, leggiamo. Aveva scritto di sua mano al Senato e al popolo degli Allobrogi che avrebbe mantenuto le promesse fatte agli ambasciatori; chiedeva agli Allobrogi di adempiere, a loro volta, agli obblighi presi dai loro rappresentanti. Allora Cetego, che sino a poco prima era riuscito a fornire spiegazioni sul rinvenimento in casa sua di spade e di pugnali, dichiarando di essere sempre stato un collezionista di armi pregiate, non appena leggiamo la sua lettera, tace di colpo, schiacciato, stroncato dalla consapevolezza del suo crimine. Viene introdotto Statilio che riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. Gli sono lette le tavolette che presentano quasi il medesimo contenuto delle precedenti. Confessa. Allora mostro le tavolette a Lentulo e gli chiedo se riconosce il sigillo. Annuisce. "Lo riconosci certamente", gli dico. "Presenta l'effigie del tuo avo, uomo di grande valore che amò unicamente la patria e i suoi concittadini. Anche muta, questa effigie avrebbe dovuto trattenerti da un crimine così mostruoso!".

X

Leguntur eadem ratione ad senatum Allobrogum populumque litterae. Si quid de his rebus dicere vellet, feci potestatem. Atque ille primo quidem negavit; post autem aliquanto, toto iam indicio eito atque edito, surrexit; quaesivit a Gallis, quid sibi esset cum iis, quam ob rem domum suam venissent, itemque a Volturcio. Qui cum illi breviter constanterque respondissent, per quem ad eum quotiensque venissent, quaesissentque ab eo, nihilne secum esset de fatis Sibyllinis locutus, tum ille subito scelere demens, quanta conscientiae vis esset, ostendit. Nam, cum id posset infitiari, repente praeter opinionem omnium confessus est. Ita eum non modo ingenium illud et dicendi exercitatio, qua semper valuit, sed etiam propter vim sceleris manifesti atque deprehensi inpudentia, qua superabat omnis, inprobitasque defecit.

Gli viene letta la lettera, di analoga ispirazione, rivolta al Senato e al popolo degli Allobrogi. Gli concedo di parlare, se intende aggiungere qualcosa. Dapprima risponde di no, ma, poco dopo, quando la deposizione viene messa a verbale e letta, si alza in piedi. Chiede ai Galli di chiarire quali legami intercorressero tra di loro e perché fossero venuti a casa sua. Lo stesso fa con Volturcio. I Galli gli rispondono con brevità e con decisione, rivelando il nome di chi li aveva condotti da lui e il numero degli incontri. Gli chiedono, a loro volta, se non abbia niente da dire a proposito degli oracoli sibillini. Allora Lentulo, di colpo, perde la testa di fronte al suo crimine, mostrando quanto sia devastante averne coscienza. Poteva negare l'accusa. Invece confessa, all'improvviso, contro l'opinione di tutti. Così, non solo gli venne a mancare l'acume e l'abilità oratoria, da sempre suoi punti di forza, ma, per la gravità e l'evidenza del suo crimine, lo abbandonarono anche quella protervia e quella mancanza di scrupoli che lo rendevano unico.

XI

Volturcius vero subito litteras proferri atque aperiri iubet, quas sibi a Lentulo ad Catilinam datas esse dicebat Atque ibi vehementissime perturbatus Lentulus tamen et signum et manum suam cognovit. Erant autem sine nomine, sed ita: 'Quis sim, scies ex eo, quem ad te misi. Cura, ut vir sis, et cogita, quem in locum sis progressus. Vide, ecquid tibi iam sit necesse, et cura, ut omnium tibi auxilia adiungas, etiam infimorum.' Gabinius deinde introductus cum primo impudenter respondere coepisset, ad extremum nihil ex iis, quae Galli insimulabant, negavit.

A un tratto Volturcio ci chiede di portare la lettera che Lentulo gli avrebbe consegnato per Catilina e di aprirla. Lentulo, anche se profondamente sconvolto, riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. La lettera non recava nomi, ma diceva così: "Saprai chi sono da chi ti ho inviato. Cerca di essere uomo e considera sino a che punto ti sei spinto. Ti è chiaro ormai cosa devi fare. Assicurati l'appoggio di tutti, anche dei più umili". Poi viene convocato Gabinio, che inizia a rispondere con arroganza, ma alla fine non nega nessuna delle accuse dei Galli.

XII

Ac mihi quidem, Quirites, cum illa certissima visa sunt argumenta atque indicia sceleris, tabellae, signa, manus, denique unius cuiusque confessio, tum multo certiora illa, color, oculi, voltus, taciturnitas. Sic enim ob stupuerant, sic terram intuebantur, sic furtim non numquam inter sese aspiciebant, ut non iam ab aliis indicari, sed indicare se ipsi viderentur.

Del resto, Quiriti, se tavolette, sigilli, scritture e infine la confessione di ciascuno mi sembravano prove inconfutabili, molto più lo erano il pallore, gli occhi, l'espressione, il silenzio di questi uomini. Erano così sbalorditi, gli occhi piantati a terra, gli sguardi furtivi da uno all'altro, che le accuse sembravano muovere da loro stessi più che dagli altri.

XIII

Indiciis eitis atque editis, Quirites, senatum consului, de summa re publica quid fieri placeret. Dictae sunt a principibus acerrimae ac fortissimae sententiae, quas senatus sine ulla varietate est secutus. Et quoniam nondum est perscriptum senatus consultum, ex memoria vobis, Quirites, quid senatus censuerit, exponam.

Messe a verbale e lette le deposizioni, Quiriti, ho chiesto al Senato che decisioni intendesse prendere nell'interesse dello Stato. I primi a intervenire si sono espressi con la massima durezza e la loro posizione è stata approvata all'unanimità dal Senato. Dal momento che non è stato ancora redatto il verbale, Quiriti, vi riporterò a memoria come si è svolta la seduta.

XIV

Primum mihi gratiae verbis amplissimis aguntur, quod virtute, consilio, providentia mea res publica maximis periculis sit liberata. Deinde L. Flaccus et C. Pomptinus praetores, quod eorum opera forti fidelique usus essem, merito ac iure laudantur.

Per prima cosa, mi vengono rivolti i più vivi ringraziamenti perché con coraggio, intelligenza e lungimiranza ho liberato lo Stato da pericoli gravissimi. Ricevono meritate lodi anche i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino per aver collaborato alla mia azione con forza e lealtà.

XV

Atque etiam viro forti, collegae meo, laus inpertitur, quod eos, qui huius coniurationis participes fuissent, a suis et a rei publicae consiliis removisset. Atque ita censuerunt, ut P. Lentulus, cum se praetura abdicasset, in custodiam traderetur; itemque uti C. Cethegus, L. Statilius, P. Gabinius, qui omnes praesentes erant, in custodiam traderentur; atque idem hoc decretum est in L. Cassium, qui sibi procurationem incendendae urbis depoposcerat, in M. Ceparium, cui ad sollicitandos pastores Apuliam attributam esse erat indicatum, in P. Furium, qui est ex iis colonis, quos Faesulas L. Sulla deduxit, in Q. Annium Chilonem, qui una cum hoc Furio semper erat in hac Allobrogum sollicitatione versatus, in P. Umbrenum, libertinum hominem, a quo primum Gallos ad Gabinium perductos esse constabat. Atque ea lenitate senatus est usus, Quirites, ut ex tanta coniuratione tantaque hac multitudine domesticorum hostium novem hominum perditissimorum poena re publica conservata reliquorum mentes sanari posse 1o arbitraretur. Atque etiam supplicatio dis inmortalibus pro singulari eorum merito meo nomine decreta est quod mihi primum post hanc urbem conditam togato contigit, et his decreta verbis est, 'quod urbem incendiis, caede civis, Italiam bello liberassem.' Quae supplicatio si cum ceteris supplicationibus conferatur, hoc interest, quod ceterae bene gesta, haec una conservata re publica constituta est. Atque illud, quod faciundum primum fuit, factum atque transactum est. Nam P. Lentulus, quamquam patefactis indiciis, confessionibus suis, iudicio senatus non modo praetoris ius, verum etiam civis amiserat, tamen magistratu se abdicavit, ut, quae religio C. Mario, clarissimo viro, non fuerat, quo minus C. Glauciam, de quo nihil nominatim erat decretum, praetorem occideret, ea nos religione in privato P. Lentulo puniendo liberaremur.

Si elogia anche il mio eccellente collega, per aver troncato ogni rapporto pubblico e privato con i congiurati. Si decide inoltre di mettere agli arresti domiciliari Publio Lentulo, dimessosi dalla carica di pretore, e pure Caio Cetego, Lucio Statilio e Publio Gabinio, che erano tutti presenti. Lo stesso provvedimento è deciso per Lucio Cassio, che si era assunto l'incarico di incendiare la città; per Marco Cepario, accusato di aver ricevuto il compito di portare alla rivolta i pastori della Puglia; per Publio Furio, uno dei coloni insediati da Silla nelle terre di Fiesole; per Quinto Annio Chilone, che, insieme a Furio, si era sempre prodigato nella collusione con gli Allobrogi; per Publio Umbreno, il liberto, che per la prima volta avrebbe accompagnato i Galli da Gabinio. Il Senato ha agito con indulgenza, Quiriti. Ha ritenuto infatti che condannare solo i nove uomini più corrotti, quando la congiura è così estesa e i nemici interni così numerosi, avrebbe potuto far ricredere tutti gli altri, una volta assicurata la salvezza dello Stato. E, in mio onore, è stata anche decretata una cerimonia di ringraziamento agli dèi immortali per il loro aiuto decisivo: è la prima volta dalla fondazione di Roma che viene tributata a un civile. La motivazione è la seguente: "Per aver salvato la città dall'incendio, i cittadini dal massacro, l'Italia dalla guerra". Se confrontiamo questo ringraziamento con quelli del passato, la differenza è che gli altri vennero decretati per vittorie militari, questo, ed è l'unico, per la salvezza dello Stato. È stato fatto quello che prima di tutto bisognava fare. Publio Lentulo, benché, a seguito di prove inconfutabili, della sua confessione e della sentenza del Senato, avesse già perso non solo la carica di pretore, ma anche i diritti civili, si è dimesso. Ci siamo liberati così, nel punirlo come privato cittadino, di quello scrupolo che non aveva comunque impedito al glorioso Caio Mario di uccidere un pretore, Caio Glaucia, contro il quale non era stata pronunciata nessuna sentenza.

XVI

Nunc quoniam, Quirites, consceleratissimi periculosissimique belli nefarios duces captos iam et comprehensos tenetis, existumare debetis omnis Catilinae copias, omnis spes atque opes his depulsis urbis periculis concidisse. Quem quidem ego cum ex urbe pellebam, hoc providebam animo, Quirites, remoto Catilina non mihi esse P. Lentuli somnum nec L. Cassi adipes nec C. Cethegi furiosam temeritatem pertimescendam. Ille erat unus timendus ex istis omnibus, sed tam diu, dum urbis moenibus continebatur. Omnia norat, omnium aditus tenebat; appellare, temptare, sollicitare poterat, audebat. Erat ei consilium ad facinus aptum, consilio autem neque manus neque lingua deerat. Iam ad certas res conficiendas certos homines delectos ac descriptos habebat. Neque vero, cum aliquid mandarat, confectum putabat; nihil erat, quod non ipse obiret, occurreret, vigilaret, laboraret; frigus, sitim, famem ferre poterat.

Ora che avete catturato e messo agli arresti gli ignobili capi della più scellerata e pericolosa delle guerre, potete convincervi, Quiriti, che tutte le truppe di Catilina, tutte le sue speranze e risorse sono crollate, una volta rimossi questi pericoli della città. Quando lo cacciavo da Roma, prevedevo, Quiriti, che con Catilina lontano non avrei dovuto temere quell'infingardo di Lentulo o quel grassone di Cassio o quel pazzo temerario di Cetego. Tra tutti questi solo Catilina dovevamo temere, ma finché fosse rimasto dentro le mura cittadine. Conosceva tutto. Si insinuava ovunque. Sapeva chiamare a sé, tentare, corrompere e osava farlo. Per indole era portato al male e all'indole univa la forza e l'eloquenza. Disponeva di uomini fidati, selezionati per missioni speciali. Se affidava un incarico ad altri, lo considerava come non attuato: non c'era niente cui non intervenisse direttamente, cui non fosse presente, cui non vigilasse senza risparmio. Sapeva sopportare il freddo, la sete, la fame.

XVII

Hunc ego hominem tam acrem, tam audacem, tam paratum, tam callidum, tam in scelere vigilantem, tam in perditis rebus diligentem nisi ex domesticis insidiis in castrense latrocinium compulissem (dicam id, quod sentio, Quirites), non facile hanc tantam molem mali a cervicibus vestris depulissem. Non ille nobis Saturnalia constituisset neque tanto ante exitii ac fati diem rei publicae denuntiavisset neque commisisset, ut signum, ut litterae suae testes manifesti sceleris deprehenderentur. Quae nunc illo absente sic gesta sunt, ut nullum in privata domo furtum umquam sit tam palam inventum, quam haec tanta in re publica coniuratio manifesto inventa atque deprehensa est. Quodsi Catilina in urbe ad hanc diem remansisset, quamquam, quoad fuit, omnibus eius consiliis occurri atque obstiti, tamen, ut levissime dicam, dimicandum nobis cum illo fuisset, neque nos umquam, cum ille in urbe hostis esset, tantis periculis rem publicam tanta pace, tanto otio, tanto silentio liberassemus.

Era così risoluto, temerario, spregiudicato, astuto, prudente nei delitti e cauto nelle azioni disperate che, se non lo avessi tenuto lontano dagli intrighi interni e costretto a una guerra da banditi (sarò sincero, Quiriti), difficilmente avrei allontanato dal vostro capo una tal mole di mali! Lui non ci avrebbe condannati per il giorno dei Saturnali, non avrebbe reso nota con tanto anticipo la data della fine dello Stato, non avrebbe fatto cadere in mano nostra sigilli e lettere a prova inconfutabile del suo crimine! Ora che non è qui, la crisi è stata controllata in modo tale che in una casa privata non abbiamo mai scoperto un furto con tanta evidenza come è stata scoperta e colta in flagrante questa pericolosa congiura contro lo Stato. Se Catilina fosse rimasto a Roma sino a oggi, benché io sia intervenuto a oppormi a tutti i suoi piani, finché era qui, avremmo dovuto comunque affrontarlo, a dir poco, e non avremmo liberato lo Stato da enormi pericoli con tanta tranquillità, calma, silenzio, avendolo come nemico dentro la città.

XVIII

Quamquam haec omnia, Quirites, ita sunt a me administrata, ut deorum inmortalium nutu atque consilio et gesta et provisa esse videantur. Idque cum coniectura consequi possumus, quod vix videtur humani consilii tantarum rerum gubernatio esse potuisse, tum vero ita praesentes his temporibus opem et auxilium nobis tulerunt, ut eos paene oculis videre possemus. Nam ut illa omittam, visas nocturno tempore ab occidente faces ardoremque caeli, ut fulminum iactus, ut terrae motus relinquam, ut omittam cetera, quae tam multa nobis consulibus facta sunt, ut haec, quae nunc fiunt, canere di inmortales viderentur, hoe certe, quod sum dicturus, neque praetermittendum neque relinquendum est.

Eppure, Quiriti, da come ho condotto la vicenda sembra che siano intervenuti gli dèi immortali a disporla e a risolverla con la loro volontà e saggezza. Se ci riflettiamo possiamo convincercene, perché sembra davvero difficile che la mente umana sia in grado di governare fatti tanto complessi. Ma gli dèi, standoci accanto in tali circostanze, ci hanno offerto aiuto e protezione al punto che potevamo quasi vederli con i nostri occhi. Non intendo parlarvi di fenomeni come meteore apparse di notte a illuminare a occidente il cielo; non voglio ricordare fulmini e terremoti, né parlare di altri fatti che si sono verificati con frequenza durante il mio consolato e che sembravano quasi il preannuncio divino degli eventi capitati ora. Un episodio, Quiriti, non va taciuto né dimenticato. Ve lo racconto.

XIX

Nam profecto memoria tenetis Cotta et Torquato consulibus complures in Capitolio res de caelo esse percussas, cum et simulacra deorum depulsa sunt et statuae veterum hominum deiectae et legum aera liquefacta et tactus etiam ille, qui hanc urbem condidit, Romulus, quem inauratum in Capitolio parvum atque lactantem uberibus lupinis inhiantem fuisse meministis. Quo quidem tempore cum haruspices ex tota Etruria convenissent, caedes atque incendia et legum interitnm et bellum civile ac domesticum et totius urbis atque imperii oecasum adpropinquare dixerunt, nisi di inmortales omni ratione placati suo numine prope fata ipsa flexissent.

Ricordate sicuramente che, durante il consolato di Cotta e di Torquato, alcuni fulmini hanno colpito vari monumenti sul Campidoglio, le immagini degli dèi sono state rovesciate, le statue degli antichi eroi abbattute, le tavole bronzee delle leggi fuse ed è stata danneggiata, sul Campidoglio, anche la statua d'oro del fondatore della nostra città, Romolo, che, come rammentate, è raffigurato bambino mentre tende le labbra alle mammelle della lupa. In quell'occasione gli aruspici, fatti venire dall'intera Etruria, ci dissero che stavano per verificarsi stragi, incendi, la fine delle leggi, una guerra civile, la caduta di Roma e dell'impero, a meno che gli dèi immortali, placati in ogni modo, non avessero interceduto a piegare con la loro potenza quasi il destino stesso.

XX

Itaque illorum responsis tum et ludi per decem dies facti sunt, neque res ulla, quae ad placandos deos pertineret, praetermissa est. Idemque iusserunt simulacrum Iovis facere maius et in excelso conlocare et contra, atque antea fuerat, ad orientem convertere; ac se sperare dixerunt, si illud signum, quod videtis, solis ortum et forum curiamque conspiceret, fore ut ea consilia, quae clam essent inita contra salutem urbis atque imperii, inlustrarentur, ut a senatu populoque Romano perspici possent. Atque illud signum collocandum consules illi locaverunt; sed tanta fuit operis tarditas, ut neque superioribus consulibus neque nobis ante hodiernum diem collocaretur.

In seguito alle loro profezie, abbiamo celebrato giochi per dieci giorni senza trascurare niente che potesse placare gli dèi. Gli aruspici ci consigliarono anche di costruire una statua di Giove di dimensioni maggiori e di collocarla in alto e, contrariamente al passato, di volgerla a oriente. Speravano che se la statua, che vedete, avesse guardato verso il sorgere del sole, verso il Foro e la Curia, le manovre ordite nell'ombra contro Roma e l'impero sarebbero state messe in luce così chiaramente da risultar visibili al Senato e al popolo di Roma. Quei consoli hanno disposto così l'erezione della nuova statua, ma i lavori sono stati così lenti che essa non è stata collocata né dai consoli che mi hanno preceduto né da me prima di oggi.

XXI

Hic quis potest esse, Quirites, tam aversus a vero, tam praeceps, tam mente captus, qui neget haec omnia, quae videmus, praecipueque hanc urbem deorum inmortalium nutu ac potestate administrari? Etenim, cum esset ita responsum, caedes, ineendia, interitum rei publieae eomparari, et ea per cives, quae tum propter magnitudinem scelerum non nullis incredibilia videbantur, ea non modo cogitata a nefariis civibus, verum etiam suscepta esse sensistis. Illud vero nonne ita praesens est, ut nutu Iovis optimi maximi factum esse videatur, ut, cum hodierno die mane per forum meo iussu et coniurati et eorum indices in aedem Concordiae ducerentur, eo ipso tempore signum statueretur? Quo collocato atque ad vos sena tumque converso omnia [et senatus et vos], quae erant contra salutem omnium cogitata, inlustrata et patefacta vidistis.

Chi dunque, Quiriti, può essere tanto lontano dal vero, tanto sconsiderato, tanto insensato da negare che tutto ciò che cade sotto la nostra vista e in particolare Roma siano governati dalla volontà, dalla potenza degli dèi immortali? Quando, infatti, si prediceva che venivano preparate stragi, incendi, la fine della repubblica, e questo per iniziativa di cittadini, ad alcuni tali crimini apparivano troppo grandi per essere credibili. Ma ora avete appurato che tali delitti sono stati non solo ideati da cittadini esecrabili, ma addirittura messi in opera! E non è un segno così evidente, da sembrare un'espressione della volontà di Giove Ottimo Massimo, il fatto che questa mattina, mentre i congiurati e i loro accusatori venivano tradotti al tempio della Concordia per il Foro, come avevo ordinato, in quel momento veniva posta la statua? Non appena è stata collocata e rivolta verso di voi e il Senato, avete visto che tutti gli intrighi orditi contro il bene della collettività sono stati scoperti e messi in luce.

XXII

Quo etiam maiore sunt isti odio supplicioque digni, qui non solum vestris domiciliis atque tectis sed etiam deorum templis atque delubris sunt funestos ac nefarios ignes inferre conati. Quibus ego si me restitisse dicam, nimium mihi sumam et non sim ferendus; ille, ille Iuppiter restitit; ille Capitolium, ille haec templa, ille cunctam urbem, ille vos omnis salvos esse voluit. Dis ego inmortalibus ducibus hanc mentem, Quirites, voluntatemque suscepi atque ad haec tanta indicia perveni. Iam vero [illa Allobrogum sollicitatio, iam] ab Lentulo ceterisque domesticis hostibus tam dementer tantae res creditae et ignotis et barbaris commissaeque litterae numquam essent profecto, nisi ab dis inmortalibus huic tantae audaciae consilium esset ereptum. Quid vero? ut homines Galli ex civitate male pacata, quae gens una restat quae bellum populo Romano facere et posse et non nolle videatur, spem imperii ac rerum maxumarum ultro sibi a patriciis hominibus oblatam neglegerent vestramque salutem suis opibus anteponerent, id non divinitus esse factum putatis, praesertim qui nos non pugnando, sed tacendo superare potuerint?

Ecco perché meritano ancor più l'odio e la morte questi individui che non solo hanno cercato di appiccare fiamme empie e funeste alle vostre case, alle vostre abitazioni, ma anche ai templi, ai santuari degli dèi. Se dicessi di averli fermati io, sarei presuntuoso, atteggiamento imperdonabile. È stato Giove a fermarli, lui solo! Giove ha voluto salvare il Campidoglio, i templi, la città intera, voi tutti! Guidato dagli dèi immortali, io mi sono limitato a prendere decisioni e sono arrivato a disporre di prove schiaccianti. In verità, la corruzione degli Allobrogi non sarebbe stata tentata, né Lentulo e gli altri nemici dello Stato avrebbero dato con tanta sconsideratezza informazioni della massima importanza a degli sconosciuti, a dei barbari, e consegnato loro delle lettere, se gli dèi immortali non avessero privato del senno uomini così temerari. Che dire di più? Se dei Galli appartenenti a un popolo non del tutto sottomesso (l'unico rimasto che è forse in grado di dichiarare guerra ai Romani e non sembra escluderlo) hanno rinunciato a sperare nell'indipendenza e in altri considerevoli vantaggi offerti loro dai patrizi e hanno anteposto la vostra salvezza ai loro interessi, ebbene, non credete forse che questo sia avvenuto per volontà divina, quando invece avrebbero potuto vincerci senza combattere, solo tacendo?

XXIII

Quam ob rem, Quirites, quoniam ad omnia pulvinaria supplicatio decreta est, celebratote illos dies cum coniugibus ac liberis vestris. Nam multi saepe honores dis inmortalibus iusti habiti sunt ac debiti, sed profecto iustiores numquam. Erepti enim estis ex crudelissimo ac miserrimo interitu [erepti]; sine caede, sine sanguine, sine exercitu, sine dimicatione togati me uno togato duce et imperatore vicistis.

E allora, Quiriti, festeggiate questi giorni con le vostre mogli e i vostri figli, dal momento che sono state decise cerimonie di ringraziamento in ogni tempio! Spesso abbiamo tributato onoranze agli dèi immortali, giustamente, sì, ma mai come ora. Infatti, siete stati strappati alla fine più crudele e più orribile, strappati senza morti, senza sangue, senza eserciti, senza combattimenti. Con la toga avete vinto, grazie a uno solo, a me, comandante in toga.

XXIV

Etenim recordamini, Quirites, omnis civiles dissensiones, non solum eas, quas audistis, sed eas, quas vosmet ipsi meministis atque vidistis. L. Sulla P. Sulpicium oppressit [eiecit ex urbe]; C. Marium, custodem huius urbis, multosque fortis viros partim eiecit ex civitate, partim interemit. Cn. Octavius consul armis expulit ex urbe collegam; omnis hic locus acervis corporum et civium sanguine redundavit. Superavit postea Cinna cum Mario; tum vero clarissimis viris interfectis lumina civitatis extincta sunt. Ultus est huius victoriae crudelitatem postea Sulla; ne dici quidem opus est, quanta deminutione civium et quanta calamitate rei publicae. Dissensit M. Lepidus a clarissimo et fortissimo viro, Q. Catulo; attulit non tam ipsius interitus rei publicae luctum quam ceterorum.

Ricordate infatti, Quiriti, tutte le guerre civili, non solo quelle di cui avete sentito parlare, ma anche quelle di cui voi stessi serbate memoria e cui avete assistito. Lucio Silla uccise Publio Sulpicio, [cacciò da Roma] Caio Mario, il difensore di Roma, molti uomini valorosi in parte li bandì e in parte li eliminò. Il console Cneo Ottavio espulse dalla città, con la forza delle armi, il suo collega; tutto lo spazio che avete sotto gli occhi fu pieno di cadaveri ammassati uno sull'altro e del sangue dei cittadini. Poi Cinna ebbe il potere con Mario; allora, davvero, furono eliminati gli uomini più in vista, furono spente le luci della città. In seguito Silla si vendicò della ferocia di questa vittoria. Non starò a dire con quante perdite tra i cittadini e con quanta rovina per lo Stato. Marco Lepido entrò in conflitto con Quinto Catulo, uomo che si distingueva per fama e valore; non fu tanto la sua morte ad arrecar dolore allo Stato, quanto quella dei suoi.

XXV

Atque illae tamen omnes dissensiones erant eius modi [Quirites], quae non ad delendam, sed ad commutandam rem publicam pertinerent. Non illi nullam esse rem publicam, sed in ea, quae esset, se esse principes, neque hanc urbem conflagrare, sed se in hac urbe florere voluerunt. Atque illae tamen omnes dissensiones, quarum nulla exitium rei publicae quaesivit, eius modi fuerunt, ut non reconciliatione concordiae, sed internecione civium diiudicatae sint. In hoc autem uno post hominum memoriam maximo crudelissimoque bello, quale bellum nulla umquam barbaria cum sua gente gessit, quo in bello lex haec fuit a Lentulo, Catilina, Cethego, Cassio constituta, ut omnes, qui salva urbe salvi esse possent, in hostium numero ducerentur, ita me gessi, Quirites, ut salvi omnes conservaremini, et, cuun hostes vestri tantum civium superfuturum putassent, quantum infinitae caedi restitisset, tantum autem urbis, quantum flamma obire non potuisset, et urbem et civis integros incolumesque servavi.

Eppure, tutte queste lotte non miravano a distruggere lo Stato, ma a cambiarlo. Non si voleva abbatterlo, ma primeggiare in uno Stato vivo, non si voleva dare alle fiamme Roma, ma distinguersi in Roma. [E tutte queste lotte, di cui nessuna intendeva annientare lo Stato, furono tali da risolversi non con il ristabilimento della concordia sociale, ma con l'uccisione dei cittadini.] Invece, in questa guerra, l'unica a memoria d'uomo ad essere così vasta e feroce e tale che nessun popolo barbaro l'ha mai mossa contro la sua gente, una guerra in cui Lentulo, Catilina, Cetego e Cassio hanno stabilito di annoverare tra i nemici tutti gli uomini la cui salvezza avrebbe consentito di salvare lo Stato, ebbene, Quiriti, in questa guerra io mi sono mosso per assicurare a voi tutti la salvezza. E anche se i vostri nemici pensavano che sarebbero sopravvissuti solo quei cittadini che fossero scampati a una strage infinita e quella parte di città che si fosse sottratta alle fiamme, io ho salvato Roma, io ho salvato la cittadinanza!

XXVI

Quibus pro tantis rebus, Quirites, nullum ego a vobis praemium virtutis, nullum insigne honoris, nullum monumentum laudis postulo praeterquam huius diei memoriam sempiternam. In animis ego vestris omnes triumphos meos, omnia ornamenta honoris, monumenta gloriae, laudis insignia condi et collocari volo. Nihil me mutum potest delectare, nihil tacitum, nihil denique eius modi, quod etiam minus digni ad sequi possint. Memoria vestra, Quirites, nostrae res alentur, sermonibus crescent, litterarum monumentis inveterascent et corroborabuntur; eandemque diem intellego, quam spero aeternam fore, propagatam esse et ad salutem urbis et ad memoriam consulatus mei, unoque tempore in hac re publica duos civis extitisse quorum alter finis vestri imperii non terrae, sed caeli regionibus terminaret, alter eiusdem imperii domicilium sedesque servaret.

A ricompensa della mia opera, Quiriti, non vi chiedo nessun premio al valore, nessuna dimostrazione di onore, nessuna testimonianza di lode, ma solo che sia eterno il ricordo di questa giornata. È dentro il vostro cuore che desidero che siano riposti e conservati i miei trionfi, tutte le attestazioni di onore, le testimonianze di gloria, i riconoscimenti di stima! Nessuna cosa che sia muta, priva di parola può darmi gioia, insomma niente che uomini anche meno degni potrebbero ottenere. Sarà il vostro ricordo, Quiriti, ad alimentare la mia impresa, la parola a farla crescere, le opere letterarie ad accompagnarla negli anni e a renderla grande. Penso che l'esistenza di Roma e il ricordo del mio consolato vivranno insieme per lo stesso tempo, spero per l'eternità. E penso altresì che siano vissuti nel nostro Stato, nella stessa epoca, due uomini dei quali uno ha esteso i confini del vostro impero non sulla terra, ma nelle regioni celesti, l'altro ha salvato la sede dell'impero.

XXVII

Sed quoniam earum rerum, quas ego gessi, non eadem est fortuna atque condicio quae illorum, qui externa bella gesserunt, quod mihi cum iis vivendum est, quos vici ac subegi, illi hostes aut interfectos aut oppressos reliquerunt, vestrum est, Quirites, si ceteris facta sua recte prosunt, mihi mea ne quando obsint, providere. Mentes enim hominum audacissimorum sceleratae ac nefariae ne vobis nocere possent, ego providi, ne mihi noceant, vestrum est providere. Quamquam, Quirites, mihi quidem ipsi nihil ab istis iam noceri potest. Magnum enim est in bonis praesidium, quod mihi in perpetuum comparatum est, magna in re publica dignitas, quae me semper tacita defendet, magna vis conscientiae, quam qui neglegunt, cum me violare volent, se ipsi indicabunt.

Ma dal momento che, dopo tutto quello che ho fatto, la mia posizione è ben diversa da chi ha combattuto all'estero, perché io devo vivere a fianco di coloro che ho vinto e domato e non mi lascio alle spalle nemici morti o ridotti all'impotenza, è vostro dovere, Quiriti, provvedere affinché un domani il mio operato non si ritorca contro di me, quando gli altri traggono profitto dalle loro imprese. Io ho provveduto perché non vi nuocessero i piani scellerati e nefandi degli individui più temerari. Ora sta a voi provvedere alla mia incolumità. È pur vero, Quiriti, che nessuno di costoro è in grado di nuocermi. Perché è grande la protezione che viene dagli onesti: me la garantiranno in ogni momento. Grande è l'autorità dello Stato: tacita, mi difenderà per sempre. Grande è la forza della coscienza: chi la trascurerà volendo nuocermi, denuncerà se stesso.

XXVIII

Est enim in nobis is animus, Quirites, ut non modo nullius audaciae cedamus, sed etiam omnis in probos ultro semper lacessamus. Quodsi omnis impetus domesticorum hostium depulsus a vobis se in me unum convorterit, vobis erit videndum, Quirites, qua condicione posthac eos esse velitis, qui se pro salute vestra obtulerint invidiae periculisque omnibus; mihi quidem ipsi quid est quod iam ad vitae fructum possit adquiri, cum praesertim neque in honore vestro neque in gloria virtutis quicquam videam altius, quo mihi lubeat ascendere?

Non sono abituato a cedere di fronte alla temerarietà di nessuno, Quiriti: al contrario sono io che sfido incessantemente chiunque sia colpevole. E se l'attacco dei nemici interni, che ho stornato da voi, dovesse ricadere su me solo, starà a voi, Quiriti, decidere quale sorte volete riservare a chi si è esposto all'impopolarità e a pericoli di ogni sorta per la vostra salvezza. Quanto a me, quali vantaggi potrei ancora conseguire se nelle cariche pubbliche, che siete voi a concedere, e nella gloria, che dipende dal merito personale, non c'è nulla di più alto cui io possa aspirare?

XXIX

Illud perficiam profecto, Quirites, ut ea, quae gessi in consulatu, privatus tuear atque ornem, ut, si qua est invidia in conservanda re publica suscepta, laedat invidos, mihi valeat ad gloriam. Denique ita me in re publica tractabo, ut meminerim semper, quae gesserim, curemque, ut ea virtute, non casu gesta esse videantur. Vos, Quirites, quoniam iam est nox, venerati Iovem illum, custodem huius urbis ac vestrum, in vestra tecta discedite et ea, quamquam iam est periculum depulsum, tamen aeque ac priore nocte custodiis vigiliisque defendite. Id ne vobis diutius faciuudum sit, atque ut in perpetua pace esse possitis, providebo.

Il mio obiettivo, Quiriti, quando tornerò ad essere un privato cittadino, sarà di difendere e di consolidare il mio operato di console in modo che se, nel tutelare le istituzioni, mi sono attirato dell'impopolarità, questa ricada sui miei oppositori e arrechi a me gloria. Per finire, la mia condotta politica sarà tesa a non smentire la mia impresa: cercherò di non farla sembrare casuale, ma frutto del mio valore. Cala la notte, Quiriti. Dopo aver pregato Giove, protettore vostro e di questa città, tornate alle vostre case e continuate a difenderle con turni di guardia come la notte passata, anche se il pericolo è ormai scongiurato. Che non dobbiate farlo troppo a lungo e che possiate vivere per sempre in pace, sarà compito mio, Quiriti.