Mentre Eraclito è il filosofo del divenire e della dinamicità,
Parmenide è il filosofo dell’essere e della staticità. È stato il primo ad
applicare un principio della logica ad un ragionamento filosofico. La sua
ontologia influenzò la storia del pensiero greco per due secoli. Iniziamo a
parlarne partendo dal logos.
Il logos
Per Parmenide, come in Eraclito, tra la realtà, la
ragione umana e il linguaggio esiste una sostanziale identità; dall’ordine del
mondo provengono l’ordine della mente che lo pensa e della lingua che lo
descrive. Molti ragionamenti di Parmenide si basano su questa identità. In
più, approfondendo una distinzione implicita nei pitagorici e in Eraclito, opera
una differenza tra pensiero e sensi: il primo è in grado di conoscere la realtà
universale, il logos i secondi non possono che fermarsi alle apparenze,
le doxai. Solo il logos può condurre all’aletheia, la
verità.
Il poema
Parmenide espone il suo pensiero in un poema in versi, chiamato in
seguito “peri physeos”, dato che nel V sec. la lingua poetica è ancora
molto più sviluppata della lingua in prosa, che si affermerà solo con la nascita
della retorica. Sono arrivati a noi solo 19 frammenti. Il poema è diviso in due
parti, dedicate l’una all’aletheia, l’altro alle doxai. Nel
Proemio Parmenide, con uno stile epico-narrativo che ricorda Esiodo e la poesia
Orfica, racconta il viaggio che ha compiuto verso la dimora della dea Dike (la
Giustizia), che gli ha insegnato a distinguere il discorso vero da quello falso.
La prima parte è a sua volta divisa in due sezioni; nella prima si mostrano al
filosofo le vie possibili che gli si aprono, evitando quelle che lo allontanano
dalla verità, nella seconda è descritta l’ontologia di Parmenide, ovvero la sua
concezione dell’“essere in quanto tale”. La seconda parte (di cui abbiamo meno
frammenti), più difficile, contiene la dottrina della doxa, e quindi una
filosofia della natura sullo stampo di quelle ioniche e pitagoriche.
Essere o non essere?
Il nodo centrale della filosofia di Parmenide è
l’essere. Nel frammento 2, la dea gli indica le vie, i metodi di ragionamento
“che sono le sole pensabili: / l’una [che dice] che è e che non è
possibile che non sia / è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien
dietro alla verità; / l’altra [che dice] che non è e che è necessario che
non sia”. Si riferisce alla via dell’essere e alla via del non essere. Ma
che vuol dire “via dell’essere”? Consideriamo un qualsiasi oggetto. Tra le sue
caratteristiche, la più importante quanto lapalissiana è quella di “essere”, di
“esistere”. E invece, non possiamo prendere una cosa che non esiste proprio per
il fatto che non esiste. In più, dato che “lo stesso è il pensare e
l’essere” (frammento 3), non si può nemmeno pensare a una cosa che “non è”,
perché basta il pensiero a renderla esistente. Questo intende Parmenide: la via
che ammette che le cose sono e che è necessario che siano (non possiamo dire che
una cosa che esiste non esiste: sarebbe una contraddizione) e la via che ammette
che esistono cose che non sono (e quindi la via dell’errore). In finale l’essere
è (le cose che esistono esistono) e il non essere non è (le cose che non
esistono non esistono): una magistrale (e forse la prima) applicazione del
principio d’identità (un ovvio principio di logica: una cosa è uguale a se
stessa e diversa dal suo contrario).
La nascita dell’ontologia
Mentre il linguaggio corrente e il pensiero dei primi
filosofi non badano al fatto che le cose a cui pensano “siano”, Parmenide
esamina questo, e in questo sta la sua originalità. Ogni cosa è diversa da
un’altra: questo insegnano il senso comune, i fisiologi e soprattutto Eraclito,
il filosofo della molteplicità e del divenire. Ma, per quanto differenti,
avranno almeno una cosa in comune: esistono entrambi. Sono “enti”. “Enti” è il
termine tecnico che traduce il ta onta greco, ovvero “le cose che sono”.
Ed è logico dimostrare che “le cose che sono” sono. È questa è l’ontologia,
ovvero il discorso sull’essere in quanto tale.
Essere, pensiero e
linguaggio
Data l’identità tra verità,
parola e pensiero, tre sono gli aspetti fondamentali della filosofia di
Parmenide:
l’ontologia: e già ne abbiamo
parlato;
la gnoseologia: solo ciò che è è
pensabile;
il linguaggio: le cose che esistono trovano
espressione adeguata all’interno del discorso.
Gli attributi dell’essere
Continuiamo ad applicare il principio d’identità.
“Essere” perde la sua radice verbale e diventa un participio sostantivato,
“to on” (“ciò che è”), e come tale gli si possono dare degli attributi.
Questo passaggio avviene per differenziare ulteriormente l’essere dal non essere
e impedire quindi di intraprendere la via dell’errore. Allo stesso modo “non
essere” diventa “il non essere”, quindi “ciò che non è”: to me
on. L’essere è:
ingenerato e imperituro: “Difatti quale
origine gli vuoi cercare? / Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti
permetterò né / di dirlo né di pensarlo”. Se è nato, prima non era. Ma non
poteva esistere una cosa che non era, quindi l’essere è ingenerato.
Analogamente non avrà fine.
non ha passato né futuro: se “era”, ora non
“è” più. Se “sarà”, ancora non “è”. Dato che l’essere è diverso dal non
essere, si trova in una condizione di presente atemporale: “è” e
basta.
senza fine: se ha una fine, al di là di
quella fine non è più, il che è assurdo.
intero, continuo e indivisibile:
“Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale. / Né vi è in alcuna
parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità, / né un di meno,
ma è tutto pieno di essere”. Se non fosse continuo, cosa si frapporrebbe
tra le parti se non il non essere che non esiste? Né ugualmente ha senso che
una cosa “è più di un’altra”.
unico: se ve ne fossero più di uno,
dovrebbero essere diversi. Ma se uno è, l’altro, poiché è diverso, non è, il
che è impossibile. Smonta così la molteplicità della natura caratteristica dei
fisiologi prima e di Eraclito poi.
immobile: se si sposta, nel posto dove si
trovava prima c’è qualcosa di diverso, quindi il non essere; questo non
esiste, quindi l’essere è immobile e il pantha rei di Eraclito è un
palese errore.
definito da tutti i lati e simile a una
sfera: per Parmenide, che risente del pensiero pitagorico, l’infinito è una
mancanza e una imperfezione, a differenza del pensiero comune moderno. Inoltre
l’essere non dovrebbe avere lati diversi perché presupporrebbero discontinuità
(pensiamo allo spigolo di un qualsiasi poliedro). Pertanto l’intuizione
associa la finitezza all’assenza di discontinuità alla perfezione solo nella
forma geometrica della sfera.
Le tre vie
Ora che abbiamo chiarito “cosa sia” l’essere, torniamo al discorso
delle vie, dei metodi di ragionamento per descrivere la realtà. Uno, quello
dell’essere, attraverso il puro ragionamento e il logos conduce
all’aletheia. Il secondo, quello del non essere, conduce immancabilmente
all’errore e, dato che la frase alla base di questo metodo è “il non essere è”
(attenzione ora ai giochi di parole), non è un metodo logico, pertanto non si
può pensare, quindi non si può dire, ma se non si può pensare né dire allora non
è, quindi questo metodo non esiste. Allora perché l’ha tirato fuori?
Forse per amore di completezza, o chissà. C’è un'altra via. Quella che viene da
questa frase: “L’essere è e il non essere è”. È vera solo in parte. Questa è la
via delle doxai, dell’apparenza, la via che intraprende la maggior parte
degli uomini. Naturalmente, poiché parte dei presupposti sono sbagliati, con
questo metodo non si può arrivare alla verità, ma si può descrivere una realtà
verosimile.
Bicefali
“Da questa prima via di ricerca [quella del non essere]
infatti ti allontano, / eppoi inoltre da quella per la quale mortali che
nulla sanno / vanno errando, gente dalla doppia testa” (frammento 6). La
terza via presuppone sia che si segua l’essere sia il non essere, quindi l’uomo
che la segue ragiona contemporaneamente in due modi contraddittori l’uno con
l’altro, e per questo ha due teste. “Perché è l’incapacità [di decidere]
che nel loro / petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati /
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi, / da cui
l’essere e il non essere sono ritenuti identici / e non identici”.
L’incapacità di decidere tra l’essere e il non essere impedisce loro di giungere
alla verità, e pertanto si devono limitare alle doxai.
Anche Parmenide ha le
doxai
Passiamo ora alla
seconda parte del poema, quella dedicata alle opinioni e alle apparenza, insomma
alla terza via. In essa riprende il concetto di lotta dei contrari, correggendo
però il fatto che i contrari non sono assolutamente opposti, ma si compenetrano
l’uno con l’altro. I contrari fondamentali, da cui nasce la molteplicità della
natura, sono la luce e la tenebra. Dalla loro unione si forma il kosmos
secondo una legge di necessità che Parmenide impersonifica in una dea.
Domanda. Se Parmenide ha detto che la terza via porta all’errore, perché
formula una filosofia della natura, basata proprio sui contrari, sul molteplice
e quindi sul divenire? Per alcuni la seconda parte ci deve essere perché è
l’unico modo per descrivere la realtà per come la vediamo, mentre
l’aletheia mostra un qualcosa di completamente diverso. Per altri, tra i
quali i prosecutori della scuola eleatica, furono di parere contrario, e
esaltarono l’ontologia parmenidea. Vediamoli in breve.
Melisso
Melisso nega la sfericità e la finitezza dell’essere: se è finito,
avrà dei confini, e se li ha al di là non può che esserci il non essere; ergo,
l’essere è illimitato. Da questa provengono tutti gli altri attributi
dell’essere che già Parmenide aveva trovato. Inoltre, definisce che l’essere è
pieno, perché il vuoto è nulla, quindi è non essere, ma l’essere non può essere
non essere. Spero di essere stato chiaro. Inoltre Melisso afferma che queste
caratteristiche dell’essere negano i fenomeni naturali; se vogliamo ammettere la
molteplicità degli enti, ogni ente deve avere quelle caratteristiche. Per
Melisso bastò questo per decretare la morte dei fenomeni. I pluralisti, invece,
non riuscendo a smontare l’inattaccabile logica dell’ontologia parmenidea, si
appigliarono a questo al fine di sozein ta phainomena (salvare i fenomeni
naturali) ed ammettere l’esistenza del divenire e della
natura.